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L’A-ZERO DI GINO CILIO
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ALL’ATELIER SUL MARE DI CASTEL DI TUSA, FINO
AL 12 MAGGIO, UNA PROFONDA RIFLESSIONE SULLE
ASSORDANTI “AFASIE” DELL’ARTE CONTEMPORANEA
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Perimetrare il
vuoto, mediante l’assoluta e scarna semplicità delle
cornici, non implica in alcun modo l’evidenza d’una resa
all’impossibilità di dire “cose nuove”. L’A-Zero di
Gino Cilio (l’esito concettuale cui il pittore siracusano è
pervenuto dopo un lungo e complesso iter artistico) non
costituisce, infatti, la mera ripresa dell’assunto
parmenideo secondo il quale “tutto è già stato nominato”; e
quindi non rappresenta la completa abdicazione ad una
inevitabile paralisi dello sviluppo del linguaggio con cui
esprimere (o soltanto descrivere) la totalità del mondo. Con
le più recenti opere di Cilio, non ci troviamo al cospetto
dell’equivalente visuale di quella nota fuga di Bach, che si
interrompe improvvisamente come a sottolineare le difficoltà
del lessico ad andare oltre i limiti espressivi del “noto” e
“convenuto”. Non siamo nei territori sconfinati
dell’obbligato silenziamento, né solamente negli ambiti (già
ampiamente esplorati da Fontana) dell’infrazione della
superficie “classica” del supporto pittorico, ai fini del
perseguimento d’una idea di sublime e infinitudine non più
delimitabile negli angusti margini della bidimensionalità
della tela.
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Nessuna
personale “afasia”, dunque, nella scelta di Gino Cilio, né
alcuna fuga verso un “assoluto” irraggiungibile, ma una
cosciente “provocazione”, tendente a rimarcare quei palesi
“vuoti ideativi”, così presenti e ridondanti nella
produzione artistica attuale.
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Non si creda,
però, che quella di Gino sia la tipica “furbata” di chi non
sappia minimamente padroneggiare le tecniche e la sintassi
tradizionali delle arti visive. Il concettualismo di Cilio,
infatti, è il punto di arrivo d’una carriera lunga e
articolata (che parte dalla frequentazione, come allievo, in
quel di Salisburgo, del grande Oskar Kokoschka),
contraddistinta da tipici esordi figurativi e da successivi
sviluppi astrattisti (sia di tipo geometrico-polimaterico
che di carattere informale, con un’interessantissima
produzione “paesaggistica” su vetroresina, in grado di
rappresentare un qualitativo e validissimo sviluppo
“a-figurativo” del paesaggismo insulare), e che nella
“nullificazione” visuale trova il plausibile e coerente
sbocco artistico ed intellettuale ad un anelito sperimentale
mai domo o appagato.
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Optando per
questa soluzione estetica e formale, il nostro Gino, dunque,
non ha inteso in alcun modo operare un “auto-ammutolimento”,
ma piuttosto rimarcare quell’eccesso di rumore frastornante,
di chiacchiericcio inutile e pletorico, quel prevalere delle
“ecolalie” su ogni compiuta e coinvolgente narrazione, che
contraddistinguono la maggior parte delle opere d’arte nella
nostra confusa e superficiale contemporaneità.
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Nel caso di
Cilio, non si tratta, per tanto, dell’ormai solita e
ricorrente deriva post-moderna (con tanto di deroga a un
pensiero forte e risoluto), ma di un procedere estremamente
consapevole, che travalica qualsiasi compiaciuto e
autoreferenziale giustificazionismo globalistico (o, peggio
ancora, mercantile) in funzione d’una progettualità e di un
operato dichiaratamente vigorosi ed assertivi.
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Gino Cilio, in
definitiva, pone il dito nella piaga di un sistema – quello
delle arti visive – ove la fisiologica meccanica che muove
dall’artista verso le gallerie, con la certificazione e
l’imprimatur della critica, appare ormai distorta in termini
meramente produttivo-mercantili, in totale spregio a
qualsivoglia pausato e meditato equilibrio
ideativo-esecutivo.
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Il completo
controllo del mercato, da parte di soggetti in grado di
gestire i media con un approccio più
propagandistico-pubblicitario che squisitamente culturale,
ha, infatti, condotto a una situazione in cui l’aspetto
pretestuosamente e forzatamente progettuale (la grande
“trovata” o “sparata”, per intendersi) ha preso nettamente
il sopravvento sui consequenziali (e necessari) sviluppi
esecutivi, sì da portare alla formazione di “eminenti
ideatori” (Hirst, Koons, Cattelan, per fare qualche esempio
illuminante) le cui reali capacità di attuazione “manuale”
dell’idea (la tékhne degli antichi Greci) paiono ormai un
optional inutile e superfluo.
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Proprio contro
questo concettualismo, spesso “assordantemente afasico” e
comunque sprovvisto di qualsiasi fattiva e personale
capacità di traduzione (per cui si ricorre a maestranze e a
metodi di tipo industriale, in assenza del diretto
intervento dell’artista), si schiera Gino Cilio, facendo del
“vuoto visuale” la metafora della desertificata nullità di
tante operazioni peseudoartistiche (animali in formalina,
cadaveri pietrificati ed esposti come statue, sculture in
resina riproducenti personaggi dei fumetti e magari fatte in
Cina) spacciate per grande arte e per unica e accreditata
espressione della contemporaneità.
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Una
provocazione intelligente, che non mira a suscitare
l’ennesimo (e inutile) scandalismo, ma che si eleva come
monito nei confronti del generale dilagare della
superficialità.
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Salvo Ferlito
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