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Omaggio a Guido Baragli,
pittore classico e contemporaneo
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Un’iconicità
totemica e possente, nella cui “ieratica” assolutezza si
esprime a pieno l’inconsunta attualità della pittura.
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E’ nell’immagine, infatti,
nel suo progressivo prender forma attraverso
l’equilibrio ricercato fra il segno ed il colore, nel
suo imporsi come focus visuale mediante la rigorosa e
spoglia stringatezza delle composizioni, nel suo farsi
fulcro d’una narrazione così concisa da apparire quasi
aforistica, che per Guido Baragli trova compimento
l’arcano del dipingere, consentendo alla soggettività
artistica di estrinsecarsi pienamente in un gioco di
proiezioni sui singoli oggetti raffigurati, così eletti
ad efficaci “media” di carattere al contempo altamente
simbolico e intensamente espressivo.
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In tal senso l’adesione
programmatica ed incondizionata al verbo figurativo
(padroneggiato mercè una sintassi rigorosa che mai cede
a prolissità esuberanti e incontrollate o a superflue e
vacue ridondanze) costituisce per Baragli l’opzione
lessicale più appropriata, in quanto perfettamente
capace di coordinare e armonizzare il “pensare visuale”
e il successivo “fare artistico” in una compiuta
relazione di tipo estetico.
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Baragli, infatti, è
innanzitutto un pittore di assoluta classicità e un
intellettuale immaginifico in grado di confrontarsi
dialetticamente con i “topoi” della pittura d’ogni tempo
(dal museo all’attualità), però senza mai scadere nel
citazionismo stucchevole e fine a se stesso, ma
aggirando – piuttosto – i limiti della citazione colta,
grazie a delle narrazioni per immagini nei cui perimetri
poter liberare in piena autonomia la propria inventiva
e personalità.
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Non si tratta di
realizzare – sic et simpliciter – delle “mimesi” della
natura e del mondo oggettuale ove la fedeltà al dato
ottico non abdichi eccessivamente alle istanze della
sperimentazione tecnica e linguistica, quanto,
viceversa, di fare della figurazione – delle sue
potenzialità lessicali e sintattiche – un opportuno
strumentario peculiarmente atto all’esplicitazione di
quei processi speculativi (non solo specificamente
artistico-estetici, ma anche di definizione d’una
propria “visione del mondo”) grazie ai quali dare forma
evidente e leggibile alle complesse cinetiche
dell’identità individuale.
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Raffigurare un calciatore
nel pieno del concitato dinamismo d’un dribbling o d’una
marcatura non implica, quindi, l’esclusiva attestazione
d’un virtuosismo figurale o il puntuale racconto d’un
evento sportivo, ma la proiezione nello specchio della
dimensione iconica d’una soggettività (quella
dell’artista-tifoso per l’appunto) che non rinuncia alla
levità giocosa e anche alle derive d’una “idolatria
simpatetica” (come già accaduto con le poesie di Saba
per la Triestina o con i dipinti di Deyneka per lo sport
nell’URSS) e che si fa partecipe – seppur nei termini
dell’arte e dell’estetica – di quella irruente e
liberatoria emozionalità che pertiene
all’immedesimazione piena nell’armoniosa intensità del
gesto atletico.
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Baragli – come è opportuno
e doveroso per ogni vero artista – è dunque “ciò che
dipinge”, poiché nel suo ideare immaginifico e nel suo
tradurre il progetto in gesto compiuto (e quindi in
pittura) egli altro non fa che raffigurare se stesso (e
il suo essere ed esistere al mondo) nei modi simbolici e
allusivi d’una schermatura-mascheramento – quella
dell’icona alter ego – che però rimanda chiaramente alla
sua ben strutturata soggettività di uomo e di pittore.
Una strutturazione operata per progressive
sedimentazioni, decantazioni ed alchimie, grazie alle
quali i vissuti quotidiani, nonché gli studi , le
ricerche e le ricognizioni nei territori del museo e
della contemporaneità hanno finito per integrarsi e
amalgamarsi a perfezione, conferendo statura e spessore
alla sua personalità artistica e garantendo alla
pennellata una cifra stilistica d’assoluta e
inconfondibile identità.
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Un dato ben evidente e
percepibile in quello che può esser – a buon diritto –
considerato il suo elettivo “cavallo di battaglia”,
ovvero la prediletta natura morta, in cui la cultura
visuale, la chiarezza ideativa, la misura gestuale e la
raffinatezza tecnica si incontrano e armonizzano in un
impareggiabile mix di elegante e significativa
penetranza ottico-visiva.
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Basta operare una
ricognizione delle sue opere più recenti – da quelle
esposte a fine 2011 alla galleria Mediterranea a quelle
viste or ora al conservatorio Bellini – per avere piena
contezza dell’indiscusso magistero ormai da tempo
esercitato da Guido in questo genere; magistero
consistente non in una “iperspecializzazione tematica” –
che conduca ad una iterazione ripetitiva, stiracchiata e
sciatta, per quanto ben impaginata – degli stessi temi,
quanto – piuttosto – nella incotrovertibile capacità di
rivitalizzare continuamente determinati soggetti,
conferendo loro sempre nuovo smalto narrativo oltre che
inconsunta qualità formale. Ecco allora le ricorrenti
“icone morandiane” – depurate e metabolizzate attraverso
il filtro della propria visione estetica del mondo –
sedimentare nei termini “ectoplasmici” di candide
presenze, affioranti – per contrasto cromatico – dalla
nera e compatta campitura degli sfondi smaltati, in un
gioco di rimandi ove l’intangibile assolutezza della
“reliquia” viene superata attraverso un personale
adeguamento al “qui e ora” per via di ulteriore
decantazione coloristica e compositiva. Analoga tendenza
all’enucleazone dell’esprit essenziale (quello che in
buona sostanza percorre tutta la natura morta dagli
esordi cinquecenteschi del Figino e di Caravaggio,
proseguendo per gli sviluppi seicenteschi
iberico-campani e olandesi dei vari Zurbaran, Recco,
Porpora o Claesz, fino alle sommesse atmosfere
settecentesche di Chardin e agli sviluppi contemporanei
di Cézanne, Morandi e de Pisis, animandone i tipici
soggetti e circonfondendoli della caratteristica aura
sacrale) si ritrova nelle ultimissime tele di Baragli in
cui è l’incandescenza degli smalti rossi, stesi sulla
superficie in un denso “à plat”, a consentire agli
oggetti-icona di venir sinteticamente a galla, in una
costruzione immaginifica la cui incisività visiva ha al
contempo la subitanea immediatezza e la profonda
penetranza del verso ermetico o dell’aforisma
fulminante. Ma è forse in quei dipinti (i grandi quadri
con i piatti ricolmi di sgombri a dominare la scena, in
una consapevole rivisitazione dei teatrali “bodegones”
seicenteschi), nei quali la ripresa dei” topoi” del
museo appare quasi ostentata, che il gusto della
citazione si disvela per ciò che realmente è: non un
lezioso ed autocompiaciuto saggio di cultura
storico-artistica, ma una autonoma e densa riflessione
sulla paradigmatica “lectio” dei maestri del passato,
finalizzata ad una “renovatio” che ribadisca
l’inalterata validità della pittura quale strumento non
solo (e non tanto) di semplice rappresentazione, quanto
di intensa fabulazione per immagini, in grado – oggi
esattamente come un tempo – di raccontare ed incarnare
la più stretta attualità. In tal modo il nostro Guido
ribadisce – un po’ come Queneau nei suoi Esercizi di
stile – la neutralità del semplice lessico (inteso
come strumento immutabile e cristallizzato) ai fini
dell’articolazione del discorso, sottolineando –
viceversa – la determinante possibilità di innovare
continuamente l’organizzazione e correlazione dei vari
termini fra loro, sì da consentire di esplorare sempre
nuove potenzialità nell’interrelazione semantica fra
significante visivo e significato tematico e da condurre
a narrazioni sempre diverse pur nella riproposizione di
stessi strumenti di espressione visiva.
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Baragli, in sostanza, si
sottrae – par buttarla in filosofia – alle insidie
dell’immobilismo parmenideo, optando per un dinamismo
dialettico di stampo eracliteo o ancor meglio socratico,
capace di impedire la sclerosi senile della
fossilizzazione citazionistica ed imitativa o la
paralisi neuropatica dell’ecolalia estetica, per andare
verso una continua rinascita di moduli espressivi assai
ben collaudati eppure sempre atti a comunicare emozioni,
affetti ed idee.
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Classicità ed attualità
convivono, dunque, a perfezione nell’ideare e fare
artistico di Guido Baragli, consentendo alla
sperimentazione tecnica (come nel caso, posto in essere
qualche anno fa, del ricorso ad inserti materici di
silicone che screzino le superfici, o nel contingente
uso di smalti per campire gli sfondi e far emergere le
immagini plasticamente) e alla ricerca formale (ben
visibile per esempio nelle barche ritratte in una
parcellizzazione così marcata da sconfinare nella più
pura astrazione geometrica) di coordinarsi in maniera
assolutamente armonica e bilanciata, e ribadendo in
siffatto modo il grande incanto della pittura: un
meraviglioso inganno dell’occhio e della mente, capace,
da che l’uomo incise i primi segni sulle rocce, di
sollecitare con vis empatica le più riposte corde della
psiche.
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Salvo
Ferlito - maggio 2012
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