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DANIELE MESSINEO
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LINEACONTINUA
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Dopo decenni di
attività artistica ed espositiva, il commiato
dalla città della Galleria Corimbo di via
principe di Belmonte con la personale del
giovane disegnatore palermitano Daniele Messineo
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Un senso di mistero
soggiogante ed insondabile permea nel profondo le opere
grafiche di Daniele Messineo. Paesaggi, vedute, ma
anche qualche interno – tutti virtuosisticamente realizzati
con un fittissimo tratteggio a penna biro e
sistematicamente immersi in un’ambientazione notturna e
tenebrosa – appaiono infatti come sospesi in una dimensione
desolata e atemporale, e tuttavia al contempo intrisa di
continui rimandi alla presenza umana e soprattutto aperta ad
improvvisi e inattesi sviluppi narrativi.
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Qui
è un faro a proiettare nelle tenebre il proprio fascio di
luce penetrante; altrove è invece un’automobile
(apparentemente abbandonata) a fendere coi fari l’avvolgente
oscurità; in altre opere è l’illuminazione di un cottage a
riverberarsi dalle finestre verso la plumbea incombenza
della notte o ancora un raggio luminoso a inquadrare un
letto vuoto nella scurità claustrofobica e ottundente d’una
stanza spoglia.
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Non si tratta del facile e
semplicistico ricorso a un ben rodato espediente
iconografico, né della conformistica adozione d’un abusato
schema affabulatorio; il gioco luce-ombra e le atmosfere
– per così dire – “metafisiche” rispondono non solo
ad esigenze tecnico-linguistiche (legate all’uso della biro)
e a finalità visuali di facilitata lettura delle immagini,
ma principalmente all’intima impellenza dell’autore di
tradurre la miniaturistica e ossessiva acribia del gesto in
un racconto aperto ed irretente, in grado di coinvolgere gli
osservatori nelle tensioni del proprio mondo immaginifico.
Un mondo popolato di visioni misteriose ed inquietanti, ove
la realtà si trasfigura in fantasmagoriche e improvvise
“apparizioni”, capaci di interrogarci sul senso (e sulle
conseguenze) della pressione esercitata dall’uomo sul
contesto circostante.
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E’ dunque quello della
“presenza-assenza”, delle immagini che alludono e
rimandano a ciò che non si vede, il modulo espressivo
prediletto da Daniele Messineo. Modulo che il nostro giovane
grafico esplicita ampiamente anche nell’accennata e
guizzante ritrattistica, in cui l’abituale “horror vacui”
lascia il passo ad un tipico inceder “per levare”.
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Visi delineati da un’unica “linea
continua”, le cui fisionomie, al contempo
dettagliate e evanescenti, si ergono a compiuti simulacri
d’una condizione esistenziale troppo spesso irrisolta fra il
mascheramento sociale e la vera identità.
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La mostra, ideata e curata
da Piero Caldarera e Ruggero Di Maggio, sarà
visibile dal 29 maggio al 4 giugno.
Salvo Ferlito
(maggio 2014)
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GINO MORICI
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L’ideatore irrequieto
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Due luoghi, una mostra: un
genio a Palermo. L’ampia retrospettiva dedicata a Gino
Morici alle gallerie Corimbo (di via Principe di Belmonte
12) e Sarno (di via Emerico Amari 148) dal 25 maggio al 16
giugno.
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Un
itinerario artistico all’insegna della perenne
irrequietezza. Un continuo peregrinare fra generi e
linguaggi – quello che ha contraddistinto Gino Morici – in
grado di mappare fedelmente non solo il singolo profilo
dell’autore, ma di ergersi a puntuale regesto di quanto
accaduto nelle arti visive siciliane durante il ‘900.
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Grafico, pittore, scenografo,
costumista, arredatore, Gino Morici è stato artista
versatile e completo, capace di effondere la propria
ideatività e sviluppare il proprio gesto in maniera
multiforme, però sempre con una resa di notevole inventiva e
raffinata qualità.
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Il vasto corpus delle sue
opere su carta (dai semplici schizzi e divertissement fino
ai dipinti completi o ai progetti dettagliati) costituisce
per tanto una testimonianza di rilevante valore, atta a
ricostruire con accuratezza i suoi personali nomadismi e ad
inquadrare il suo operato nella convulsa temperie del secolo
trascorso.
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Pur nella fedeltà al verbo
figurativo, Morici è stato fra quegli artisti isolani
realmente capaci di cercare e trovare moduli espressivi
fattivamente innovativi, e in quanto tali non più ossequiosi
nei confronti d’una tradizione veristica ormai percepita
come vieta ed obsoleta.
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Proprio i disegni giovanili di
fine anni ’20 inizi anni ’30 rivelano un’attenzione per le
novità novecentiste di matrice casoratiana (come nel
melancolico e assorto menestrello de La follia del
1928 o nell’ascetico e ripiegato San Francesco del
1932) o per certe suggestioni di ascendenza espressionista
(riferibili alla grafica di Grosz e Dix o alla
cinematografia di Lang, come nell’inquietante scena
d’omicidio de La piazza) decisamente in
controtendenza rispetto al prevalente conformismo estetico
insulare e piuttosto in linea con quanto in atto nel
panorama nazionale e in quello centroeuropeo.
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Non una semplice imitazione di
dettami visuali provenienti dall’esterno, ma una sentita e
compiuta capacità di fare propri dei nuovi strumenti
lessicali, filtrandoli attraverso la personale sensibilità
ed impregnandoli d’una peculiare cifra stilistica.
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Il tipico linearismo (dal
segno nevrile e guizzante), il sapiente tonalismo delle
cromie (dalle articolazioni dei toni seppia della giovanile
fase “casoratiana” alle policrome liquefazioni quasi
informali della tarda produzione botanica e paesaggistica),
la pungente ironia delle narrazioni (ben percepibile nel suo
dandistico Autoritratto col gatto o nella serie degli
Hidalgos con la loro specifica carica di proiezione
soggettiva) sono tutti connotati stilistici che hanno
tipizzato l’agire di Morici, emancipandolo da discepolati
schematici ed acritici e rendendone a pieno la singolarità
psicologica e la cifra di eccentrico protagonista.
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Artista completo e al contempo
fuori dalle righe, “classico” (di quella “classicità” che è
pertinente a chi padroneggi totalmente le tecniche e i
linguaggi) e tuttavia “infrattivo” (per quella insofferenza
per l’ovvio e il déjà vu che caratterizza gli ingegni
liberi ed irrequieti), Gino Morici è senza dubbio una delle
personalità più rilevanti della temperie artistica isolana
dell’intero ‘900, degna non solo d’una generica riscoperta,
ma d’una capillare e attenta valorizzazione, che possa
infine restituirle il ruolo che le spetta nella storia.
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Un paradigma cui guardare
attentamente ancor oggi, senza la lente distorsiva delle
mummificazioni museali o delle pedestri manovre di mercato,
per far comprendere a fondo che cosa significhi essere un
vero artista, perfettamente calato nel flusso della propria
attualità.
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Salvo Ferlito
(maggio 2012)
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ANNI
PRECEDENTI |
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NELLY
BÜHRLE ANWANDER
“IRRIVERENTE
E SCANDALOSA PETRONILLA”
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Già
il nome d’arte, Petronilla (come un noto
personaggio dei fumetti d’altri tempi), testimonia
d’una ironia esplicita e pungente. Ma è
l’impatto con le opere a dare l’inequivoca
misura dello spirito salace che alimenta il fare
artistico di Nelly Buhrle-Anwander.
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Con
inusitata leggerezza ideativa – considerando che
si tratta di una artista di origine austriaca e di
formazione tedesca – ma con profonda incisività
di segno e vivacissima sapienza fabbrile, la nostra
Petronilla ha infatti dato corpo ad una articolata
sequenza di chine su carta e di policrome sculture
in papier maché, nelle quali ha riversato un ampio
immaginario “sessuale” dalle declinazioni tanto
fantasiose quanto psico-sociologicamente caustiche
ed irriverenti. Ne è derivata una divertente e
divertita riflessione sul ruolo – sovente assai
confuso – dei due sessi, sviluppata nei termini
d’una variegata galleria di tipi (e proto-tipi) in
grado di incarnare a perfezione la ricca casistica
di forme e di modelli nei quali prende corpo l’ego
narcisistico maschile e femminile.
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Toreri
vanesi, procaci suorine, ambigui pretini e
alabardieri svizzeri, vezzose pupette, ginnasti
esibizionisti, funambole nude, prorompenti negrette
e crocerossine, con il loro “armamentario”
erotico sfacciatamente esibito (salvo poi celare
qualche imprevista e contraddittoria “sorpresa”
dietro mimetiche foglie di fico),
sono gli attori-protagonisti dell’atavico
ed eterno incontro-scontro fra i due sessi (con
qualche “sconfinamento” in territori intermedi),
i cui esiti (tragi-)comici sono evidenziati
dall’artista austriaca con impareggiabile maestria
caricaturale. L’aspetto vignettistico delle minute
chine o la giocosa volumetria delle sculture non
traggano però in inganno: quella di enfatizzare
l’aspetto di commedia è infatti una scelta
lessicale leggiadramente arguta, che in quanto tale
non esclude in alcun modo letture più profonde ed
analitiche. L’eros gioioso cui alludono le poppute
figure femminili o i priapici maschietti non è
esente da complicazioni o implicazioni psicologiche,
e quindi dal suo potenziale rovesciamento
nell’opposto speculare dell’incomunicabilità.
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Incline
per natura all’ironia (ma senza eccedere in
sarcastiche crudezze espressionistiche, che le sono
del tutto aliene nonostante l’origine
centro-europea), Petronilla preferisce dunque
indurci ad un sorriso, piuttosto che alimentare acri
ubbie o facili tetraggini. Del resto, basta volgere
lo sguardo all’esilarante Quasi morto –
una coloratissima scultura in carta pesta
raffigurante un moribondo barellato e già coperto
da un telo che tuttavia non può coprire una
erezione prorompente –, per capire come la nostra
Nelly gradisca concentrarsi sull’aspetto
vitalistico e (tutto sommato) ottimistico
dell’eros, decidendo scientemente di sorvolare
sulle immancabili e venefiche propaggini
dell’onnipresente thanatos.
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Una
scelta di campo che giammai ne ridimensiona la
qualità del gesto artistico (e tanto meno del
pensiero ad esso sotteso), e che conferma appieno le
enormi potenzialità dell’esprit quale
raffinatissimo strumento di scandaglio dei
controversi meccanismi della psiche umana.
La
mostra sarà visitabile fino al 7 maggio 2005
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GUIDO AVERNA
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“LE
RAGAZZE ”
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A
guardarle distrattamente sembrerebbero delle
semplici insegne pubblicitarie; ma a uno sguardo
più accurato si rivelano per quel che realmente
sono: dei dipinti veri e propri, ammantati sotto
le mentite spoglie della pubblicità.
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Il
netto linearismo che contorna le flessuose figure
femminili, la piatta campitura coloristica,
l’adozione di tinte vivaci ed irretenti, il
ricorso a scritte cubitali ed ammiccanti sono
infatti una chiara filiazione dal linguaggio della
più classica réclame. Ma Guido Averna – che di
queste opere è l’artefice – non si propone
affatto quale mero e compiaciuto emulo della Pop
Art (cui pure occhieggia); poiché non è
l’uniforme iteratività ossessiva
dell’immagine propagandistica (e quindi del
prodotto commerciale) né tanto meno il suo
presunto valore artistico a interessarlo, ma
piuttosto le molteplici (se non infinite) e sempre
diverse potenzialità narrative che a un tale
lessico sono sottese.
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In
tal senso – e al di là delle apparenze –,
Averna si distanzia nettamente dal fondamento (e
cardine) teorico della Pop Art, non volendo
attribuire – a nostro avviso – alcun
particolar valore estetico alla serialità
indistinta che contraddistingue la riproducibilità
infinita dell’oggetto e del suo sembiante,
quanto invece scardinare tale meccanica,
ricorrendo ad un uso ironico dell’immagine
manipolata con un approccio alla Quenau, in virtù
del quale egli si mostra altrettanto
virtuosisticamente capace di riscrivere la stessa
storia in innumerevoli e diversi modi.
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Ed
è proprio in grazia di un così marcato sense of
humour, che ogni suo riquadro si trasforma
in una minuta micro-narrazione, la cui
frammentarietà visuale non è che il pretesto per
un pieno coinvolgimento intellettivo del fruitore,
in tal modo chiamato a completare in prima persona
la trama – volutamente aperta ed irrisolta –
dei racconti.
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Un
gioco delle parti – quello fra autore ed
osservatore – assai più sottile di quanto a un
primo sguardo non appaia, e che conferma come
l’intuizione ideativa sia, al giorno d’oggi,
il vero dato saliente (ancor prima e più della
qualità del gesto tecnico) d’ogni interessante
fare artistico.
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RENATO
TOSINI
L'ombra
e lo specchio
Partire
con il sogno
La
nostalgia è il sentimento ricorrente in chi avverte la
perdita di un’armonia pregressa.
Un
sentimento che Renato Tosini conosce assai bene, avendone
fatto la forza propulsiva del proprio fare artistico.
Il
suo “spleen” elegante e raffinato nasce infatti da
quell’intimo rovello che si nutre dell’acre ubbia
d’aver perso non soltanto “quel che è stato”, ma
ancor più “tutto quel che non è stato (e che avrebbe
ben potuto essere)”.
Una
sorta di elegiaco “panta rei” – per dirla con
Eraclito –, però inteso come impossibilità assoluta
“di reimmergersi in un fiume” nel quale in più di un
caso “non ci si era mai bagnati”.
Sarà
forse per questo, che nei suoi ultimi dipinti quel
metodico proceder “per levare” pare essersi ormai
spinto alle estreme conseguenze, riducendo il colore a
un’essenza diafana e leggera, liquidamene trasparente
nella sua resa rarefatta
ed
atmosferica. Una pittura quasi fantasmatica, quindi, ma
non per questo afasica; anzi ancor più penetrante, ad
onta d’un eloquio assai sommesso e tutt’altro che
gridato.
Personaggi
e situazioni sono in fondo quelli di sempre, ma è il tono
delle “storie” – Tosini ama definirsi uno
“scrittore di quadri” – ad apparire più introflesso
e melancolico.
I
soliti borghesi pingui e calvi – senza dubbio una
proiezione soggettiva dell’autore, nonchè sua
indiscussa e peculiare cifra stilistica –, elegantemente
abbigliati con grisaglia d’ordinanza e ossessivamente
seriali nella loro uniformità somatica, sembrano infatti
essersi spogliati delle armi reattive dell’attonito
stupore e della stridente regressione nel mondo
dell’infanzia, quasi avessero ceduto a un delirio
solipsistico, testimone della resa all’urto del reale.
Non
sono più i balocchi – barchette a vela, aquiloni,
trottole e tricicli –, dunque, a fare da ironico e
surreale contrappeso alle mostruosità del mondo
circostante (alla cui edificazione però si è dato un
decisivo contributo), ma una bottiglia di liquore in cui
annegarsi rievocando le atmosfere de “L’assenzio” di
Degas.
Il
bambino troppo cresciuto (o più propriamente mai
cresciuto), raffigurato abitualmente da Tosini, si è
infine dissolto in un adulto disperso nella plumbea
solitudine metropolitana o inanemente ripiegato a vergare
sulla sabbia effimere parole destinate alla cancellazione.
E
pur tuttavia, la poetica sottesa a quest’ultimi dipinti
è la stessa di quelli precedenti. Lo sbiadimento
coloristico e la riduzione degli abituali riferimenti
architettonici (quell’edilizia leviatanica e incombente
eletta ad incarnare l’orrore della contemporaneità) non
negano infatti in alcun modo l’abituale e pungente vena
d’ironia; piuttosto ne amplificano quell’amaro
retrogusto in cui risiede la grandezza narrativa di Tosini.
La
ricorrente presenza dell’elemento acquoso, a legare
simbolicamente le opere di ieri a quelle odierne, conferma
l’assenza
di cesure e delinea la naturale evoluzione del linguaggio
dell’autore. Quello del mare quale “eu-topos”, quale
ideale luogo d’ogni vera libertà, ove intraprendere il
“viaggio” che potrebbe riscattare dal giogo
esistenziale, è pertanto un comune filo conduttore
dell’intera produzione di Renato.
Ma
le barche, oggi come ieri, rimangono alla fonda o arenate
sulla spiaggia. Il “viaggio” è ancora rimandato a un
domani indefinito; poiché “Partire” si può solo
“con il sogno” e la vita – pare ricordarci Tosini
– si finisce col trascorrerla come asini alla macina,
sottomessi a un ineffabile (e in fondo comodo) non sense.
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mostra fotografica dal 24 al 30
aprile 2004
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Dipanata
lungo il sottile crinale del rigore estetico, la
sperimentazione fotografica di Carlo Bellavia pare
eminentemente accordarsi sui registri d’una attenta ed
insistita ricerca formale.
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Dalla
sgranatura “puntillistica” della stampa all’algida
beltà dei corpi nudi (soggetti prediletti
dall’autore), dalla armonica euritmia delle
composizioni alla rarefatta sobrietà del bianco e nero,
tutto, negli scatti del giovane fotografo palermitano,
testimonia d’un estremo rispetto della forma, quasi
sempre trattenuto al di qua dei formalismi di maniera.
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Una
insidia – quella dello sconfinamento nella vacuità
estetizzante – purtroppo sempre in agguato, maxime
allorché la formazione personale e gli ideali referenti
siano soprattutto di matrice americana (statunitense,
per l’esattezza), ambito nel quale – negli ultimi
decenni – la “patinatura” delle immagini pare
essere il dato prevalente. Ciò non di meno, proprio in
virtù delle sue origini europee e di una cultura
estetico-artistica evidentemente impregnata di
“depurativi” vissuti peninsulari (in grado di
ridurre le “scorie visuali” d’oltreoceano),
Bellavia riesce nell’intento di ideare e costruire
degli scatti di estrema eleganza, nei quali lo spessore
della forma va ben oltre l’irretente superficie.
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Ecco,
allora, un armonico nudo femminile inquadrarsi in un
portale antico evocando il leonardesco “Uomo
Vitruviano”, o, ancora, una splendida modella fare
capolino da un intreccio di radici riproponendo
iconografie da mitologia classica, oppure, in apparente
controtendenza, un pingue corpo muliebre fieramente
ergersi ad “antigrazioso” elogio dell’estetica del
brutto. Il tutto in una esibita plasticità scultorea,
frutto di una sapiente orchestrazione chiaroscurale, e
con un impianto compositivo sempre cogitato e progettato
in ciascun particolare.
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Nulla
è dunque lasciato al caso; nessuna estemporaneità
umorale o immediatezza cronachistica pare trapelare da
questi fotogrammi, poiché tutto risponde a una regia
profondamente meditata che non indulge a facilonerie di
sorta.
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Rigore
della forma e delle idee, da cui promana una poetica che
ha proprio nelle sua fredda e metallica misura il
fascino suadente della contemporaneità.
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BEPPE
MADAUDO
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Una
pittura di gran “gusto”
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Quello
fra cibo e pittura è connubio antico. Basterebbe
andare ad Ercolano – alla casa dei Cervi, per
l’esattezza – per constatare come, già
nell’antichità classica, il genere della natura
morta, e specificamente la rappresentazione di
vivande, fosse ampiamente praticato, riscuotendo
gran successo.
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Non
è dato sapere se, anche allora, quei soggetti
avessero profondi significati di carattere
simbolico o se fossero soltanto dei raffinati
elementi di decorazione; ma è certo che, dal
Rinascimento in poi, attraverso le cibarie e gli
annessi strumenti di fruizione – tovaglie,
bicchieri, posate e piatti – si è mirato a
rappresentare non solo il dato di verità ottica,
ma soprattutto, in forma di metafora, i contenuti
religiosi, sociali o psicologici sottesi allo
splendore delle immagini.
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Rientra
più propriamente nel filone intimistico-affettivo,
cioè in quell’ambito di sviluppo prioritario
che il genere ha assunto negli ultimi due secoli,
la recente produzione di Beppe Madaudo, in visione
alla galleria Corimbo fino al 20 dicembre.
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Una
serie di minute nature morte (che per la vivacità
cromatica sarebbe, forse, più opportuno definire
“still life”), nate con l’intento dichiarato
di attuare un armonico colloquio fra il simbolismo
alimentare della pittura e le vere arti
gastronomiche, delle quali al figlia di Madaudo è
una valida e immaginifica cultrice.
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Un
sottile gioco delle parti e dei ruoli parentali,
esercitato, quasi in singolar tenzone, nel
contesto inaugurale della mostra, in cui i dipinti
paterni e i piatti filiali dialogheranno
dottamente, così riuscendo a estrapolare dalla
sua sfera di virtualità il rapporto fra il cibo
reale e quello raffigurato, per riportarlo in un
più materiale ambito di concretezza atto a
coinvolgere ampiamente i nostri apparati
sensoriali.
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In
tal senso, Madaudo, nonostante le tangenze formali
con tanta pittura di inizio ‘900 (con i Fauves,
particolarmente), soprattutto in termini di
sintesi formale, di accensione coloristica e di
polimatericità, pare ricondursi idealmente alla
tradizione seicentesca (più iberico-campana che
olandese) e ai suoi compiuti tentativi di dare
consistenza fisica all’illusionismo del solo
dato ottico-visivo. Ne consegue che divenga
giocoforza il riferimento – con le debite misure
di ordine linguistico – alle fumose atmosfere
dei “bodegones” di Velazquez, coi loro cupi
interni di cucina intasati di padelle
gorgoglianti, o alle rappresentazioni antropomorfe
della “crapula” di mano riberesca o, ancora,
ai turgori già disfatti delle nature morte
napoletane di un Ruoppolo o di un Recco.
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Del
resto, Madaudo, in quanto siciliano è partecipe
ampiamente di questa estetica di stampo
spagnolesco, che fa della forza delle immagini un
cardine fondante e del tutto ineludibile.
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Basta
volgere lo sguardo a una cassata (dolce
d’origine araba, ma barocco nel suo scultoreo e
ricco assetto) o ad una caponata (col suo fastoso
tripudio vegetale) o alla frutta martorana (policromica
materia zuccherina, manipolata ad arte da
pasticcieri che sono anche plasticatori), per
avere piena contezza di quel comune retroterra
culturale, dovuto alle contaminazioni di genti e
civiltà, del quale Beppe Madaudo è consapevole
depositario, come testimonia chiaramente il suo
vasto e articolato percorso di artista in grado di
fare della sicilitudo il presupposto d’un
sentito afflato cosmopolita.
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Si
spiega in questi termini, ovvero come
estroflessione d’un profondo sedimento che
affonda le radici nella storia, il susseguirsi,
nella sua precedente produzione, di insistiti
bizantinismi (con piena profusione di sfoglia
d’oro), però felicemente coniugati con
suggestioni klimtiane e con raffinate inclusioni
di spunti mutuati dall’estremo oriente.
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Decisamente
più sommessa ed intimistica, in quanto – come
detto – improntata a una dialettica di affetti
familiari, questa serie di piccoli dipinti si
stacca parzialmente dalle opulente esuberanze
precedenti (di cui tuttavia mantiene traccia nella
squillante brillantezza dell’orchestrazione,
talora debordante sulla cornice), facendosi
riflesso incantato ed avvincente di umori e
sensazioni abitualmente decantati nella sfera
dell’interiorità.
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Scorci
di interni, con tavolini all’uopo imbanditi,
restituiscono così all’osservatore, pur nel
rigore compositivo e nella sintesi di tratto
(naturalmente semplice e mai artatamente
semplificata), quella termica emotiva che permea
intimamente i gesti quotidiani del preparare il
desco e del comune desinare.
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Una
riscoperta del valore estetico e culturale
dell’alimentazione, del suo essere elemento
imprescindibile d’una basilare antropologia
della quotidianità, di cui Beppe Madaudo e sua
figlia Barbara si renderanno felicemente artefici,
sottraendo l’ancestrale rito del nutrirsi alle
sue incalzanti e spersonalizzanti ritmiche
attuali, e di fatto riconducendolo a quel ruolo
cardine dell’identità individuale e collettiva
che gli è dovuto e che una società in preda a
mortificanti processi di massificazione sembra
ormai aver smarrito.
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DESIDERIA
BURGIO DELLE GAZZERE
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"BLU"
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mostra
fotografica
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dal
20 novembre 2003
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Sono
spaccati dell’universo femminile cristallizzati nella
fissità dell’istante fotografico.
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Piccoli
brani di un intimo racconto per immagini – quello
orchestrato, scatto dopo scatto, da Desideria Burgio delle
Gazzere – nel quale singoli frammenti di flessuosi corpi
di fanciulle sono eletti a efficaci moduli espressivi, in
grado di narrare acerbe irrequietezze e turbamenti giovanili
con doti non comuni di scavo ed empatia.
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Nello
studiato alternarsi di luci ed ombre, e grazie all’uso di
supporti metallici con cui operare un’allusiva meccanica
di coperture e svelamenti, la franta anatomia delle modelle,
esaltata nella sua iconicità, si fa così grafema o
ideogramma in cui inscrivere (e con cui descrivere) la
propria articolata ritmica di tipo emozionale.
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Tronchi
acefali dai seni esuberanti e volti parcellizzati nella
penetrante fissità dello sguardo paiono a fatica farsi
strada nella lacerante durezza di lamiere la cui scabra
superficie e i cui combusti contorni incorniciano alla
perfezione le asprezze d’una irrisolta condizione
esistenziale.
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La
singola parte finisce, così, col parlare per il tutto,
lasciando – però – solo intuire e senza mai scadere in
superflue ridondanze descrittive.
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Ben
lungi da sterili estetismi accademizzanti, Desideria si
rende dunque artefice d’una rinnovata poetica del nudo,
ribadendo in tal modo
la centralità della figura umana nella riflessione
artistica attuale, nonché l’imprescindibilità dalla
valenza metaforica del corpo quale strumento irrinunciabile
di analisi e lettura d’ogni recondita dinamica
dell’interiorità.
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GLI
SPIRITI SOTTO IL CAPPELLO
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Del
Tibet si parla poco, troppo poco.
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Non
fosse stato per qualche recente incursione hollywoodiana –
con la star di turno a captare l’attenzione –, negli
ultimi anni non se ne sarebbe parlato affatto.
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Ben
vengano, dunque, tutte quelle iniziative – come la mostra
fotografica di Tamara Triffez, visibile alla galleria
Corimbo fino al 31 maggio – in grado di catalizzare
l’attenzione su una terra – il Tibet per l’appunto –
sottoposta da decenni a una autentica invasione, con
relativa dominazione coloniale, da parte della Cina
Popolare.
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Il
pervicace tentativo di annientare questa cultura millenaria,
portato avanti con estrema efferatezza dai cinesi, è stato
infatti troppo spesso ignorato e sottaciuto in nome d’un
“realismo politico” nel quale, purtroppo, l’occidente
eccelle quando sono in ballo i suoi interessi
“prioritari”. Ne è conseguito che, proprio
all’insegna del “pecunia non olet”, i
governi occidentali (con in testa i democraticissimi Stati
Uniti, notoriamente esportatori di libertà a suon di bombe,
e la levantina Italia, che li segue a ruota) si siano ben
guardati dall’imporre embarghi o sanzioni particolari nei
confronti della Cina, con la quale si è piuttosto preferito
avviare relazioni di interscambio commerciale e finanziario,
così lasciando un intero popolo al suo drammatico destino.
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Una
indifferenza – va detto con chiarezza – di cui sono
colpevoli, non meno dei governi, gli stessi movimenti
d’opinione, troppo spesso concentrati su altre cause la
cui giustezza non è certo in discussione, ma che, ad onta
degli strombazzamenti mediatici, non sono affatto più
importanti od impellenti.
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Il
dato antropologico – i fantasiosi copricapo indossati dai
tibetani – funge quindi da intelligente stimolo e pretesto
per un’attenta riflessione su uno “stato delle cose”
sul quale è opportuno innalzare l’attenzione.
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La
carrellata di volti immortalati da Tamara Triffez descrive
una variopinta umanità che, pur saldamente ancorata alle
proprie tradizioni, non disdegna bizzarre, ma significative
aperture verso il nuovo (si guardi il personaggio la cui
acconciatura tipica contrasta con dei vistosi occhiali di
fattura occidentale), quasi a confermare una esigenza di
comunicazione e di libertà la cui ulteriore repressione
dovrebbe indurre almeno un sussulto di sdegno nelle nostre
coscienze sonnecchianti di occidentali progressisti e
democratici.
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Alla
galleria Corimbo fino al 31 maggio
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PERSONALE
DI EUGENIO SGARAVATTI
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La
lastra tipografica, sottratta alla sua mera e iterativa
meccanica d’azione, assurge a ruolo nuovo, di reperto
artistico compiuto, nelle mani efestine e sapienti di Eugenio
Sgaravatti.
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Svincolata
dal suo “naturale” ciclo funzionale, non più medium ma
supporto, la matrice si rivela, mercè un apporto ideativo e
immaginifico decisamente inusuale, nel suo essere non solo
“instrumentum”, ma vero terminale sul quale concretare e far
rapprendere pensieri ed emozioni.
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Trattate
con tecniche del tutto inconsuete – dal picchettamento per
mezzo di frullini alle abbondanti scolature di vernice, fino
alla infornata in stanze di verniciatura per carrozzieri – le
superfici predilette da Eugenio Sgaravatti si animano di ombre e
di colori, di bagliori iridescenti e di liquide nuances, dando
luogo ad una oscillazione senza posa fra informali dissolvenze e
sussulti figurativi, quasi a ribadire un procedere “per aspera
ad astra”, attraverso un’incoercibile ma progressiva ricerca
d’ordine esteriore.
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Non
è un caso che siano proprio i frattali – le meravigliose
elaborazioni visuali operate dal computer sulla base di sequenze
matematiche – il fulcro attorno al quale il pittore romano ha
strutturato l’intero impianto del suo sperimentare.
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Il
loro costituire una manifestazione formale di quei principi
matematici che paiono sottesi ad ogni cosa, è stato per
Sgaravatti un riferimento e quasi un’illuminazione, avendogli
offerto un appiglio scientifico nel suo incedere per tentativi
di ordinare il khaos verso un kosmos del tutto personale.
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Si
spiega così la coesistenza di opere palesemente informali, in
cui è il solo colore a farsi elettivo portavoce, e di dipinti
nei quali la figurazione riaffiora carsicamente dai suoi
percorsi sub-cromatici, come a sottolineare l’acquisizione
d’un più elevato ed evidente grado d’ordine.
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Paesaggi
immaginari, ritratti, nature morte (intensissima quella, in
esposizione, con bottiglie rosse stagliantisi sul blu di
sfondo), dissertazioni avanguardistiche che occhieggiano a Klee,
Matisse ed a Fontana, allusioni a Leonardo ed a Giorgione
popolano, vivacizzandole, queste opere, tutte unite dal filo
indissolubile della sperimentazione tecnica e linguistica. Un
dato – quest’ultimo – ben percepibile nel desiderio di
andare oltre la piatta uniformità delle matrici, mediante
l’introduzione di improvvisi scarti plastici che, col loro
vigoroso aggettare, dischiudono le porte ad inattesi sviluppi
quasi scultorei.
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Un
andamento, dunque, per continue infrazioni, cancellando limiti e
abbattendo barriere fra diverse discipline, che fa di Sgaravatti
– comunque la si pensi – un artista di frontiera da seguire
con rispetto ed attenzione.
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Alla
galleria Corimbo (fino al primo marzo)
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GIUSEPPE FELL
Nuovi e vecchi percorsi
Quello di Giuseppe Fell è un itinerario artistico esemplare. Esemplare nel suo
essere un riuscito cammino di autoformazione, maturato in assoluta indipendenza e
libertà.
Estraneo a frequentazioni accademiche di sorta, fuori da qualsivoglia "cerchia"
o "cenacolo" elitario-intellettualistico (e quindi lontano da logiche di
schieramento e di appartenenza), Fell ha infatti improntato tutto il suo operare ad un
autodidattismo e ad unautodisciplina di non comune efficacia e qualità.
Proprio questo autorientamento, questo cercare una personale identità, sottraendosi a
pseudo-magisteri istituzionali e a schemi estetici precostituiti, fa di Fell un artista
dalla ideatività non coartata - col pretesto della didattica - in alvei imposti
dallesterno e quindi meno sensibile a lusinghe modaiole contingenti.
Lunico vero insegnamento cui egli ha soggiaciuto, riconoscendone
linoppugnabile valore, è stato (ed è) quello della migliore pittura dogni
tempo, alla quale attingere spunti e suggestioni da rielaborare senza pregiudizi di ordine
tecnico o linguistico.
Si spiega in questi termini la poliedricità dei percorsi effettuati, lalternarsi di
lessici dalla parvente antinomia, il ricorso a difformi modalità di stesura ed
esecuzione, in un anelito alla ricerca del modulo migliore, in cui laffinamento
tecnico è sempre funzionale allespressione di intensi contenuti. Non deve,
pertanto, sorprendere - per quanto paradossale possa sembrare alla luce dellattuale
produzione - che Fell abbia mosso i suoi primi passi dal paesaggismo di stampo
ottocentesco, preso a modello da indagare e sviscerare ai fini dun alunnato pratico
e teorico.
E stato in codesta fase che il nostro artista ha intrapreso lesercizio
della mano, scandagliando attentamente la macchia toscana, limpressionismo
doltralpe ed il verismo insulare per carpirne ogni possibile segreto. Le prove che
ne sono derivate - piccole tavolette eseguite con grande immediatezza, ma anche tele di
maggiori dimensioni ben riuscite nella loro articolazione grafica e cromatica - hanno
progressivamente rivelato una crescente padronanza, lasciando intravedere fertili
sviluppi.
Infatti è stato proprio a questo punto che la carriera di Giuseppe Fell ha subito come
uno scarto, mettendo a nudo pienamente quellinsoddisfazione che è il sale
dogni crescita umana e soprattutto artistica. Laddove molti altri si sarebbero
adagiati su una remunerativa attività in grado di suscitare facili consensi (maxime in
una città come Palermo, scleroticamente fossilizzata in un gusto che difficilmente
accetta ciò che non è figurativo e quindi di immediata e facile lettura), il nostro
giovane pittore ha deciso viceversa di andare oltre, di procedere lungo nuovi itinerari di
sperimentazione e di estendere così i propri orizzonti visivi e ideativi.
E nata da questa urgenza, da questimpulso a migliorarsi, la scelta produttiva
che lo ha imposto allattenzione della critica e che gli ha consentito di vincere dei
concorsi di pittura.
Con una cesura più apparente che sostanziale, la figurazione chiara e definita, morbida
vettrice di paesaggi e di vedute, ha lasciato il passo a un rapprendersi improvviso del
linguaggio in concrezioni ideografiche dumori primitivi. Le superfici, campite con
compatte stesure cromatiche allacrilico, si sono via via animate di screziature
graffitistiche, tracciate con arcana demiurgia su inattese stuccature. Geometrie,
impronte, geroglifici, ombreggiature e squilli coloristici sono confluiti in una
crittografia dalla sintassi imperscrutabile, ma capace di congiungere al meglio i retaggi
più ancestrali con le istanze della contemporaneità.
Con un euritmico andamento, a tratti matematicamente periodico, al contempo rigorosamente
misurato nellequilibrio compositivo ed armonico nella contrappuntistica
orchestrazione cromatica, Fell ha trasposto sui supporti una intensa narrazione,
traducendo le sue idee nei segni misteriosi duna immaginaria scrittura personale. A
ogni segno un contenuto, in una semantica profonda ed evocativa, spesso ieratica nella sua
evidente totemicità, ma sempre viva e penetrante, e soprattutto in grado di coinvolgere
gli osservatori in questa forte volontà di ridefinizione del mondo interiore e di quello
circostante.
Ciò non di meno, questansia despressione non è mai giunta a pieno
compimento, come se ogni traccia, pur conclusa in sé, non riuscisse ad aggirare il limite
celato in ciascun significante, ovvero quellimpossibilità di raccontare il tutto,
che è il pungolo inesausto che spinge alla ricerca.
E stato forse per questo, per una compulsiva e inevitabile reazione, che Fell ha
intrapreso lo studio di nuovi territori, esplorando attentamente quel labile crinale lungo
il quale la certezza della forma confluisce nellenigma informale.
Ne è conseguito un linguaggio felicemente sospeso fra allusioni figurative e dissolvenze
astratte, dipanato entro un paesaggismo indefinito, pervaso di ombre e di mistero, ove
aleggia incontrastato lo spirito di Pan. Soggioganti visioni - inizialmente nella
scansione del piccolo formato e da qualche tempo anche su più ampie superfici -, depurate
dogni superflua estroflessione coloristica e piuttosto intrise duna brumosità
aggrovigliata e impenetrabile, nelle quali lintroiezione percettiva si impone
allosservatore col suo scarno ma irretente magnetismo.
Una pittura - questultima di Fell - nella quale locchio si disperde in un
grumo demozioni, richiamando al nodo irrisolto duna natura madre e matrigna
con la quale confrontarsi senza le distorcenti griglie della razionalità.
Non è dato sapere cosa Giuseppe Fell ci riservi per il futuro, se perseveranza in questa
scelta o nuove discontinuità; ma è certo che, sapendo resistere alle lusinghe del
mercato ed insistendo nelle sue alchimie sperimentali, egli saprà ancora sorprenderci con
convincenti prove di valentia pittorica.
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ANIELLO FALCONE
Quattro Battaglie
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Il tema della "battaglia" è uno dei "topoi"
dell'arte d'ogni tempo.
Sin dall'età classica le scene di conflitto sono state spesso rappresentate con finalità
eminentemente celebrative - di tipo politico o religioso - , prestandosi assai bene a
porre in evidenza le doti virtuosistiche degli artisti. Dalla pittura vascolare attica ai
bassorilievi della colonna traiana, fino ai sarcofagi tardo-imperiali, sono molti gli
esempi greco-romani che si potrebbero indicare. Ed anche per il medioevo - basti ricordare
l'arazzo di Bayeux, narrante l'invasione normanna dell'Inghilterra - , con la sua
insistita retorica e pratica guerresca, sarebbero non poche le opere da citare.
Ma volendo circoscrivere la nostra osservazione alla pittura moderna (ovvero dal
Rinascimento in poi), furono Paolo Uccello - con la "Battaglia di san Romano" -
e soprattutto Leonardo - con la "Battaglia di Anghiari" - e Michelangelo - con
il giovanile rilievo raffigurante la "Centauromachia" e con il successivo
cartone della "Battaglia di Cascina" - i veri ideatori d'un genere destinato a
gran fortuna nel 600.
Il vorticante e furibondo scontro fra cavalieri disegnato da Leonardo nella già citata
"Battaglia di Anghiari" - a noi pervenuto solo attraverso copie successive, fra
le quali una di Rubens - , esemplificativo della opinione dell'artista in materia (egli
parlava a ragione della "pazzia bestialissima" della guerra), con i volti dei
protagonisti stravolti in una mimica delirante, divenne - in assoluto - un irrinunciabile
punto di riferimento per gli artisti contemporanei e delle generazioni successive. |
Fu il seicento, tuttavia, il secolo in cui le scene di battaglia
vennero consacrate ed elevate a genere autonomo e a sé stante (e prescindente da
specifiche celebrazioni), divenendo oggetto di attenzione da parte di accaniti estimatori
e collezionisti. Salvator Rosa e Jacques Courtois (il Borgognone) sono stati indubbiamente
i maggiori artefici in materia; ma anche pittori quali Aniello Falcone - di cui quattro
magnifiche "battaglie" sono visibili attualmente presso Corimbo - hanno dato un
significativo contributo alla fortuna e alla diffusione di questi temi. Annoverato da
qualche studioso - forse con una certa forzatura - fra i seguaci del van Laer, e quindi
fra i "bamboccianti" (termine con il quale nel 600 si indicavano degli
epigoni alquanto manierati del naturalismo caravaggesco, soprattutto d'origine olandese,
specializzati in scene popolari ambientate nell'agro romano), Falcone - proprio in virtù
delle sue origini campane - rivela piuttosto un certo gusto per la deformazione quasi
espressionistica delle fisionomie dei personaggi, che affonda le sue radici nella lezione
riberesca poi confluita in quella tradizione popolare così evidente nei presepi
napoletani (si guardino a tal proposito le figurine del presepe Cuciniello).
Memore, comunque, dell - insegnamento leonardesco, Falcone costruisce le sue scene attorno
ad un fulcro principale - un cavaliere o un portastendardo coinvolti in uno scontro - sito
in posizione centrale o anche leggermente eccentrica, facendogli ruotare intorno gli altri
comprimari in una sorta di turbine violento, accentuato da cirro-nembi e fumo che esaltano
la dinamicità del tutto. E questo, su una superficie pittorica assai ampia - a differenza
di analoghe opere di minori dimensioni - che conferisce alle immagini una vasta
spazialità, con l'inserto di vedute di fortezze ed anche di rovine classiche sullo
sfondo, tale da consentire l'unione dei soggetti bellici con un paesaggismo (un po'
stereotipato) di matrice classicista.
In definitiva, una occasione da non perdere per accostarsi ad opere purtroppo non visibili
nei nostri musei cittadini (Palazzo Abatellis ne possiede alcune che però languono nei
depositi), ma meritevoli d'attenzione pur appartenendo ad un genere a torto ritenuto
minore.
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RENATO TOSINI
E'
lo "spleen", una malinconia sommessa e mai urlata, il
sentimento ispiratore della pittura di Renato Tosini.
Non è un caso, infatti, che nelle sue tele - permanentemente visibili alla galleria
antiquaria Corimbo - prevalgano le tonalità scure, plumbee, con qualche misurato squarcio
di più brillante cromia a spezzare, in una sferzata reattiva, la monotimia di fondo.
Sarebbe errato, però, e limitativo etichettare Tosini come "melancolico" - per
dirla alla Durer -, non è il "morbo atrabiliare", infatti, l'
unica cifra di
un fare artistico che si sostanzia anche d' una velata vena di raffinata ironia.
Popolate di ricorrenti personaggi dalla tipica "pelata", abbigliati con
borghesissime grisaglie talora ravvivate dal rosseggiare d' una cravatta (l' artista
nega che vi sia alcun riferimento fisiognomico autobiografico), le tele di Tosini rivelano
un immaginario onirico-nostalgico che non disdegna affatto i toni della garbata, ma
pungente critica sociale.
Sono evidenti - e il pittore non le disconosce - le tangenze linguistiche con certo
Espressionismo centro-europeo (con Grosz, soprattutto, ma anche Dix e Beckmann), senza mai
giungere, però, a quelle esasperate deformazioni caricaturali che lo connotarono.
Opere come "Omaggio alla regina" - un grande dipinto affollato da una pletora di
borghesi, prelati, giudici e militari ruotanti attorno ad un profilo femminile - attestano
una diretta filiazione dalla pittura di Grosz, ma con un gusto per l' allegoria - la
ruota dentata, vera icona del progresso alla quale tutti rendono omaggio, e i volatili,
con la gallina becchettante in testa, cui l' umanità è assimilata - che va ben al di
là di certe esplicite e teutoniche crudezze.
Notturni nelle forme e nei fatti - Tosini, come il Goya della "Quinta del
Sordo", ama dipingere nocturno tempore -, questi quadri attestano la palese e un po'
dandystica volontà di non adeguarsi ai modi ed ai dettami d'una inaccettabile
contemporaneità. Così, appellandosi con infantile stupore ai simulacri mnemonici della
propria archeologia interiore (aquiloni, barchette a vela, tamburini) e brandendoli come
simboliche e spuntate armi, l' artista si confronta con l' incombente mondo esterno in
una impari lotta per la salvaguardia d'una identità minacciata di cancellazione.
In "L'aquilone", il suo personaggio tipo scruta da una balconata un plumbeo
muro di edifici come intento alla inane ricerca di quello spazio aperto ove far librare il
suo gioco e la fantasia. Parimenti, in "L' ultima piantina", il solito omino
calvo si muove su una spianata desertificata dai fumi delle industrie sullo sfondo,
cercando una traccia di verde fra teste lapidee reliquie d' un passato ormai svanito. Ed
anche il "Il transatlantico", con il "nostro" perduto a guardare una
nave all' orizzonte, esprime un nostalgico anelito libertario che travalica i meschini
limiti del contingente.
Naturalmente schivo ed assiduo praticante dell' understatement - il che spiega i suoi
successi londinesi -, Renato Tosini rivela nel suo eloquio gentile e ben cogitato una
chiara percezione dei propri mezzi.
Il definirsi autodidatta - afferma d'aver sempre disegnato, ma d'aver intrapreso la
pittura solo dopo aver visto, esposto nella vetrina di Flaccovio, un dipinto di Bruno
Caruso, suo compagno di banco e di matita da fanciullo - non sminuisce, anzi aumenta per
contrasto il suo valore; una certa indolenza e parsimonia nel produrre - lamentata dal suo
gallerista, Piero Caldarera -, per cui egli sembra condividere la convinzione di Degas che
la velocità sia stupida e immorale, lo ammantano d'un alone aristocratico,
distinguendolo non poco dai troppi "bohemien" di maniera (ma ottimi manager di
se stessi) che popolano il teatrino dell' arte insulare e globale.
Proprio il suo essere estraneo ad ogni accademia - vere fucine di mestieranti e professori
di disegno, ma raramente di veri artisti - e movimento, rappresenta l' ennesima conferma
di come pittori si nasca e non si diventi. Non a caso, la sua mostra alla prestigiosa
galleria Fischer di Londra fu preceduta da una esposizione di opere di Max Ernst e seguita
da una di Egon Schiele.
Da qualche tempo, Tosini dice d'esser divenuto troppo malinconico per potere continuare
a dipingere, ma noi speriamo - citando sue parole - che "la mano torni ad esprimere
ciò che le detta il cuore".
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