GRAZIA  CIANETTI
"L'infinito presente della memoria"
E’ un’atmosfera da “cronache familiari” quella che permea i fantasiosi collages di Grazia Cianetti.
Realizzati con pezzi di stoffe ritagliate ad arte con certosina  e miniaturistica perizia, questi deliziosi quadretti ripercorrono – e, in un certo senso, rivisitano, reimmaginandoli – i luoghi prossimi e remoti della memoria, ammantandoli di un tono vivacemente favolistico. Infatti, ad onta dell’apparente naiveté (che però presenta fascinose tangenze con lo splendido lessico del “doganiere” Rousseau), percepibile ad una lettura meramente superficiale delle immagini, queste opere rivelano un intento che pare andare ben al di là d’un semplice e nostalgico esercizio mnemonico, rivelandosi – nei fatti – una fantasiosa ricostruzione “a posteriori” di vissuti personali, operata con la gioiosa levità delle affabulazioni per l’infanzia. Anzi – a voler essere più chiari –, si può ben affermare che il tono dell’approccio ai ricordi è quello tipicamente delicato e, al contempo, ingenuamente mitizzante delle trafigurazioni del reale poste in essere direttamente dai bambini con pupazzi e marionette.
Così, attingendo direttamente a quanto sedimentato nei “depositi” intrapsichici, ma anche – si suppone – ricorrendo all’apporto fotografico dei cimeli familiari, la Cianetti ripercorre le orme impresse dal proprio “clan”, negli ultimi cent’anni, trasfigurandole – con una poetica ottica infantile – in coloratissimi assemblaggi di stoffe, nei quali tornano a rivivere antenati, parenti più o meno prossimi e personaggi vari.
Dai sollevatori di pesi da circo “fin de siecle” ai pionieri del ciclismo di inizio novecento, dai gruppi di famiglia degli anni ’20 alle mannequins degli anni ’30, dalle famiglie di paese (come pietrificate innanzi all’obiettivo fotografico) a quelle della buona società (agghindate con le loro belle vesti), fino alle immagini dell’anziana madre e dei propri figli, è tutto un susseguirsi di memorabilia personali, però in grado di irretire gli osservatori, in virtù del loro palese incanto visuale e soprattutto della capacità di coinvolgimento attraverso meccanismi di empatica immedesimazione.
Come una novella cantastorie, attraverso le sue esperienze autobiografiche, la Cianetti – in fondo – null’altro ci restituisce che la nostra storia; ovvero quella storia – per dirla con le parole di De Gregori – che “siamo noi”, fatta di piccoli e grandi eventi quotidiani, ma dalla cui somma scaturisce la più autentica realtà. 
          Dal 5  al 20 dicembre 2003
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NICOLA LAZZARI 
"Meteore e lontananze"
 
 fino al 29 novembre
La pittura di paesaggio e di veduta, soprattutto se di stampo fotografico, scivola assai spesso nell’effetto deja vu.
Rappresenta senza dubbio un eccezione il raffinato e delicato paesaggismo di Nicola Lazzari.
Sarà per il piccolo formato – in alcuni casi quasi miniaturistico –, sarà per il ricorso all’acquarello – steso con una timbrica intensa ma al contempo misurata –, sta di fatto che  i dipinti di Lazzari rivelano una indiscussa capacità di irretimento, esercitata con un incanto visuale di freschezza e nitore non comuni.
E questo, senza alcuna discontinuità di resa, bensì con una omogeneità e una coerenza di stile e narrazione, in grado di prescindere ampiamente dal soggetto esaminato.
Lazzari, infatti, spazia con eguale noncuranza dalle azzurrità dei paesaggi marini ai chiarori di quelli alpestri, fino al tonale comporsi dei verdi collinari, trasmettendo all’osservatore la visione di una natura viva e palpitante e soprattutto assolutamente armoniosa nei suoi formali equilibri di luce e di colore.
E proprio in quelle opere in cui il naturale rispetto delle forme cede il passo a più liquide dissoluzioni – come in La valle di Camaiore, nel quale il confondersi dei verdi e degli azzurri trascende verso una simbolica astrazione – o, viceversa,a un quasi razionalistico intreccio di geometrie – si guardi l’articolarsi a patchwork dei terreni coltivati nel delizioso San Martino in Vignale – Lazzari ci pare esprimere e raggiungere il meglio della sua arte, peraltro rientrando a buon diritto nel più immediato flusso della contemporaneità.
Laddove la veduta millimetrica si risolve in un impianto trasognato, nel quale il guardo si disperde nel ristretto – ma al contempo sconfinato – perimetro cartaceo e nell’alchimia delle nuances, proprio lì la poetica di Lazzari perviene al suo acme, trasformando, con lirismo emozionale, la pura percezione in un trasalimento onirico che sublima la realtà.    vai alla scheda personale di Salvo Ferlito

 

 

MARIO MIRABELLA Jr.
Come in un mirabolante gioco di specchi, di fronte a queste nuove opere di Mario Mirabella junior, la nostra memoria è costretta a mettere a fuoco le immagini e i luoghi che esse rappresentano e a riconoscere, attraverso gli occhi dell’artista, ciò che forse spesso abbiamo visto senza guardare. Del resto “ non si vede se non ciòche si guarda”; e la scontata osservazione di Merleau-Ponty «on ne voit pas que ce qu’on regar-de» è certo una affermazione perentoria della quale però bisogna tener conto, quando ci si imbatte in un pittore che voglia ancora riproporre il paesaggio e riaffermare icasticamente l’inesauribilità della visione. “Che cosa sarebbe la visione senza alcun movimento degli occhi?” continuava il filosofo, sempre in quel prezioso testo del 1960 L’oeil et l’esprit, e a proposito della tessitura immaginaria del reale si chiedeva poi “in che modo il loro movimento non potrebbe confondere le cose se egli non avesse le sue antenne, la sua chiaroveggenza e la sua idea della visione?”.   Poneva cioè un fondamentale problema di estetica sul quale il dibattito culturale è ancora aperto e che è certamente inquietante poiché mette in questione il nostro rapporto col mondo del visibile e dell’invisibile. Pone cioè l’atto del vedere come capacità di rapportarsi con l’universo, la visione come complessa operazione del pensiero che si rappresenta il mondo, nel quadro di un continuo mutamento nel quale egli stesso è parte e nel quale si rivela lo spirito di colui che guarda. Nel caso della pittura, ci si affida poi alla immobilità di una materia, di un pigmento cromatico nel quale si rivela un modo di interpretare la realtà mutante che il pittore guarda e crede di vedere. “Prestando il suo corpo al mondo, il pittore cambia il mondo in pittura” continua, infatti, Merleau- Ponty sulla scia di Valery e su questo punto é forse possibile mettere d’accordo le differenti opinioni che è lecito sostenere quando ci si inoltra in argomenti che sfiorano la metafisica e non soltanto quella della pittura.      Mario, del resto, non si pone questi problemi quando dipinge il suo mondo e anzi, fingendo di ignorare tutto quello che è successo in pittura da Picasso in poi, riesce ad essere contemporaneo, pur riproponendo l’antico tema del paesaggio caro a tutti i pittori della famiglia Mirabella. Ritornando col suo sguardo sullo stesso oggetto per coglierne quelle valenze sfuggite che lo fanno sempre diverso pur nella sua riconoscibilità, egli afferma infatti la temporalità poiché, nel fluire della realtà, ogni volta l’occhio coglie ciò che appare nuovo e diverso in rapporto alla disposizione d’animo e alla mutata capacità di restituirlo in forma di luce e colore. Ripete perciò ad libitum il suo repertorio di immagini come un musico che torna al suo spartito e gioca sui tempi sfidando pause e orditure e utilizzando perciò la sua tavolozza cromatica con quel sapiente dosaggio che dà sempre nuovo respiro all’oggetto noto che ogni volta i suoi occhi rivedono alla mutante luce del suo sguardo interiore e della sua curiosità indagatrice e fertile ai richiami dell’emozione o al distacco ironico verso una presunta oggettività che è invece sempre un abbaglio e un felice abbandono ai segni di una bellezza cercata anche laddove essa è stata offesa o cancellata.      Si vede ciò che si vuole vedere e si trova sempre ciò che si cerca, quando si guarda un paesaggio o la città della memoria, un luogo della nostra infanzia o la nuvola che passa mutando la sua forma. E nell’idea che ha Mario della pittura, questo tornare a guardare potremmo assumerlo come poetica del suo operare. Dinanzi alla stessa realtà che appare “altra” c’è, dunque, il gioco degli occhi, come direbbe Elias Canetti, la sua idea della visione e le sue antenne, il suo sguardo che vola, indaga, si sofferma, si distrae e ritorna sull’oggetto del suo desiderio attratto, appunto, dagli aspetti sempre diversi che vi scopre e che ogni volta intende restituire nella loro epifanica visione.       Così i fragili fogli, i cartoni e le piccole tavole, s’aprono ai grandi spazi monumentali, alle piazze, ai paesaggi senza cedere alla nostalgia o alla idealizzazione ma documentando la realtà mutevole e i nuovi stati d’animo che hanno condizionato quella “visione”; ripropongono, nella trasparenza del colore che sa farsi luce e ombra, l’antico vedutismo urbano col gusto raffinato dell’architetto che si sofferma su scorci e prospettive e sulla trasformazione culturale del paesaggio. Tra gli olii, gli acquerelli e i disegni a seppia, presenti in questa mostra, figurano poi quei paesaggi con gli “ulivi saraceni” le cui strane forme hanno incuriosito il pittore e che rappresentano la sua necessità di rivederli con la maturità di uno sguardo che va oltre l’incantamento o il dolore della contorsione descritta nelle diverse prospettive che ne mutano gli aspetti.      Attratto dal fascino degli antichi mercati stracolmi che fanno da contrappunto alle viuzze e alle piazze del centro storico palermitano e ripercorrendone visivamente la storia, Mario ci dà la misura della sua raffinata tecnica e della sua capacità di spaziare entro le piccole tele; ci comunica quel sentimento di appartenenza e di complicità che distingue il suo segno e fa della sua “maniera” il linguaggio più naturale per riparlarci del suo rapporto con la città e con la bellezza del paesaggio che sa ancora offrirsi ai nostri occhi attraverso il suo sguardo.  

Piero Longo

dal 31/10/2003 al 12/11/2003

 

SERGIO CECCOTTI
“I GIORNI, LE NOTTI” 
Le atmosfere sono quelle di sempre: misteriose e un po’ inquietanti.
A distanza di tre anni dalla sua ultima mostra palermitana – tenutasi, anch’essa, alla galleria Elle Arte –, Sergio Ceccotti conferma dunque appieno le sue non comuni doti di sapiente affabulatore per immagini.
Ceccotti infatti racconta, ma senza mai svelare troppo e soprattutto senza mai cadere in superflue ridondanze descrittive, pur optando per una figurazione assai nitida e più che realista; di ogni vicenda narrata egli offre, per l’appunto, uno spaccato, un riferimento, forse un antefatto o una semplice sequela, lasciando all’osservatore il compito (e in qualche modo l’obbligo) della ricostruzione e del completamento dei dettagli della trama.
Narrazioni aperte, dunque, quelle di Ceccotti, “metafisicamente” cristallizzate nell’attimo fuggente che però offre tutti gli indizi per una possibile chiave di lettura. Pittura interattiva, che chiama il riguardante a un doveroso contributo immaginifico, sì da essere completamente avvolto dall’arcano delle storie, di cui è non solo muto testimone, ma soprattutto comprimario (se non protagonista).
Guidati dalla sapiente regia del nostro autore, si è pertanto indotti a sbirciare interni bui e desolati – ma nei quali si avvertono misteriche presenze – o a spiare – come dei voyeur – le attività domestiche di perfetti sconosciuti, colti per lo più di spalle e bloccati in pose assorte e distaccate. Ne consegue una sensazione di perturbante straniamento, dovuto al disagio manifesto derivante dall’essere partecipi di vicende inattese e soprattutto imperscrutabili. In questi termini, Ceccotti si conferma un valido e assai qualitativo neo-cantore delle poetiche metafisico-surrealiste, alle quali dimostra di sapere dare un proprio significativo contributo (anche alla luce di certe suggestioni hopperiane), aggiornandole congruamente e riconducendole in quell’alveo di apparentemente banale quotidianità, nelle cui pieghe svelare (o forse velare ulteriormente) il recondito senso di tutto il nostro essere nel mondo.

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MARIOLINA SPADARO 
dipinti 1994-2003 
 
Ciò che colpisce maggiormente della pittura di Mariolina Spadaro è la forza del colore e l’intensità del gesto artistico.
Un gesto dipanato fra incisività graffitistiche ed impeti cromatici, e con una sintesi formale tendente ad esaltare l’immediatezza emotiva dell’espressione.
Non è un caso, pertanto, che la mente dell’osservatore più avveduto, al cospetto dei dipinti della Spadaro, corra a modelli un tempo avanguardistici – ma ormai classici – quali quelli di Matisse e dei pittori Fauves. Referenti che però la nostra artista riesce congruamente ad aggiornare alla luce di un grafismo assai marcato, cui di certo non è esente l’influsso di elementi autoctoni – Amorelli per esempio – mescolato alle tendenze graffitistiche provenienti d’oltre oceano.
Dato – quest’ultimo – particolarmente percepibile, in tutta la sua calda emozionalità, negli acrilici su tavola, ove la tipica mediterraneità della vis timbrica viene come incanalata (e validamente contenuta) all’interno d’un sistema di tracce e scarificazioni che ne esaltano la matericità. Ne risulta, conseguentemente, un rafforzamento dell’aspetto iconico degli oggetti rappresentati – una caffettiera, una cuccuma, dei cantalupi – che, riscattandoli dalla mera dimensione naturalistica, li eleva al rango di soggetti compiuti e convincenti.
Il portato simbolico ed ampiamente evocativo permea d’altronde l’intera produzione della Spadaro, estendendosi anche ai grandi acrilici su carta. Opere nelle quali i contenuti intimistici e mnemonici paiono decisamente prendere il sopravvento, trovando nelle accensioni coloristiche – qui poste in essere attraverso ampie e più morbide campiture – il medium ideale per una resa atmosferica degli affetti. Scorci di interni – con cassettoni, gatti e poltrone – o esterni insulari, si susseguono a testimoniare d’una riuscita scansione visuale del proprio repertorio di ricordi, così dando al mondo interiore quella estroflessa poeticità che discrimina la buona pittura dal didascalismo di maniera.

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COLLETTIVA ELLE ARTE visibile fino al 31 luglio (di salvo ferlito)
Autentico mosaico di stili e tecniche diverse, la collettiva visibile fino al 31 luglio alla galleria Elle Arte si pone come un’esauriente summa dell’attività svoltasi in questi ultimi mesi negli spazi espositivi di via Ricasoli.
Con la sua sequenza di opere di variegata fattura e provenienza, essa costituisce a tutti gli effetti uno spaccato interessante della produzione artistica attuale, fornendo non pochi spunti di riflessione agli addetti e al contempo riuscendo ad appagare le aspettative del pubblico più vasto.
Ciò che infatti emerge con chiarezza, già a una prima osservazione, è l’assoluta prevalenza della figurazione – seppure declinata con modalità diverse che vanno dal naturalismo di stampo fotografico ai parziali sconfinamenti di sapore più informale –, a conferma di una tendenza sempre più consolidantesi nell’odierno panorama artistico.
Dalle raffinatezze grafiche di Tino Signorini alle aeriformi dissolvenze di Giacomo Angiletti, dal tratto acidamente graffitistico di Bice Triolo alle sperimentazioni tecniche e linguistiche di Matilde Trapassi, dal paesaggismo misterico di Giovanni Gromo all’intimismo borghese di Adriana Lanza è tutto un susseguirsi di opere per lo più figurative (con l’esclusione di quelle della Trapassi, improntate al più puro astrattismo), in grado di rappresentare al meglio le diverse modalità di attuazione e sviluppo di questo inossidabile impianto lessicale.
Un’occasione, dunque, in questa calda estate, per sollecitare con stimoli estetici adeguati, tanto l’occhio, quanto la mente, magari dando un senso più compiuto a una piacevole passeggiata nel centro cittadino.     

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MATILDE TRAPASSI 
Pattern senza direzioni
Come muovendo idealmente dalle teorizzazioni di William Morris, Matilde Trapassi opera una interessante sintesi fra pittura ed arti decorative, in grado di dimostrare – qualora ce ne fosse ancor bisogno – l’infondatezza di qualsiasi separazione concettosa fra arti maggiori e minori.
Utilizzando il feltro – un materiale in vero assai insolito, del quale la nostra artista segue l’intero ciclo produttivo a partire dalla lana fino al manufatto artistico completo –, ma anche la ceramica – lavorata in classici piatti – e le più consuete tele, la Trapassi dà corpo a un fantasioso immaginario, espresso nei modi aerei e vivacissimi tipici del più puro linguaggio informale, avendo però sempre cura di coniugare la più ampia libertà visuale con un gusto della  manualità degno della più consueta (e migliore) tradizione artigianale.
Sarà per questo, forse, che in questa produzione, visibile alla galleria Elle Arte fino al 7 giugno, ricorrono motivi e formule estetiche direttamente conducibili alla esperienza vetraria muranese, della quale la Trapassi – che non a caso è titolare della cattedra di Decorazione all’Accademia di Brera – ripropone le cromie assai vivaci dei fermacarte o degli eterei vasi di Venini.
Talora in forma puramente maculare, talaltra assemblato alludendo a biomorfismi, è il colore lo strumento deputato al sincretismo fra le immagini e le  cose, e quindi a dar forma (e corpo) nel concreto a tutto ciò che è soltanto pura idea. Una traduzione – quella del pensiero in qualcosa di visibile e tangibile – operata nel rispetto d’uno schema aureo, ovvero di quel principio della circolarità riproposto ossessivamente in tutti i manufatti – feltri, tele e ceramiche –, non per nulla concepiti come tondi.
Una ideale perimetrazione, all’interno della quale liberare e al contempo organizzare il proprio gesto artistico, nell’armonica osservanza del connubio indissolubile fra la mente ideatrice e la mano esecutrice.

Alla galleria Elle Arte fino al 7 giugno     vai alla scheda personale di Salvo Ferlito

GIACOMO  ANGILETTI 
Fra idillio ed elegia 
Colorista morbido e avvolgente, Angiletti ha nel pastello il suo elettivo mezzo d’espressione.
Proprio il pastello, infatti, con la sua stesura impalpabile e aeriforme, si rivela funzionale ad una espressività delicata e senza eccessi, tutta tesa a enucleare e rendere al meglio la componente più affettiva d’ogni rappresentazione.
Non è un caso, quindi, che egli rivolga ai soggetti naturali di tipo paesaggistico la sua attenzione prevalente, quasi a ribadire l’impareggiabilità di questa tecnica – il pastello per l’appunto – nella resa della più minima vibrazione luministica o declinazione di colore. Quella luce e quei colori tipicamente mediterranei, che Angiletti coglie con perizia e senza enfasi cristallizzandoli in estese azzurrità di cieli ed acque (Spiaggia), nel verdeggiare di vasti campi (Campagna in primavera) o nell’accendersi di messi rigogliose (Grano al vento), il tutto in un prevalere di armonici trapassi tonalistici atti a restituire all’osservatore quella dolcezza della natura insulare assai spesso negletta in favore d’una visione troppo estroflessa e riverberante.
La stesura sempre levigata e quasi serica, nella quale il nostro artista eccelle (riproponendola peraltro, benché con minor intensità, anche nella pittura ad olio), pur indugiando in effetti di amalgama smaltata e in virtuosismi coloristici, e pur essendo per lo più finalizzata ad un paesaggismo di tipo fotografico – però stemperato in dissolvenze trasognate – che si inscrive in una tradizione autoctona plurisecolare, sfugge sempre, tuttavia, ad esiti di stucchevolezza o di tedioso deja vu, in virtù della percepibile empatia che guida il pittore calatino nel suo rapporto coi soggetti da ritrarre. E che Angiletti ami la natura siciliana e riesca a dar corpo, coi colori, a questo amore è cosa, infatti, che si percepisce chiaramente osservando i suoi dipinti. Il che riscatta il suo linguaggio figurativo dai comuni rischi dell’ovvio e risaputo, restituendoci un artista in grado di rilanciare la pittura di paesaggio e di veduta in termini di sicuro fascino e credibilità. Una dote che gli va riconosciuta e che lo distingue dai tanti, troppi figurativi insulari (e non) incapaci di uscire dai recinti dei più facili cliché. 
 
Alla galleria Elle Arte fino al 20 maggio   

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Luigi Di Giovanni, una pagina dell’800 siciliano

 Di un primitivo vigore
di
Aldo Gerbino

 In un agile e denso manipolo di pagine dedicate a Palermo, lo scrittore Salvatore Spinelli (amico e sodale di Antonio Pizzuto), l’autore de Il mondo giovine e degli icastici aforismi Antiarte e anticritica (1947), ricorda, con taglio deciso, ma non privo d’un naturale smalto nostalgico, l’ambiente del Circolo Artistico. «Ultimo mi piace ricordare Francesco Lojacono», scrive; «pittore che sopravanza tutti i pittori palermitani – di nascita o di elezione – del suo tempo: Michelangelo Giarrizzo, Michele Catti, Rocco Lentini, Onofrio Tomaselli e lo stesso Luigi Di Giovanni col quale ebbe comune la straordinaria vivezza coloristica. Fu il genius loci del Circolo Artistico – che aveva la sede nel Kassaro, a pian terreno. E diceva, con sorprendente sincerità, che il Circolo era una bella istituzione perché, “quando una volta la settimana c’è il trattamento (trattenimento, ricevimento) con aperitivi, paste piccanti, paste dolci e digestivi, ci mettiamo tutti a posto e risparmiamo la cena. Con pari candore annunciava, raggiante: “Quel tonto che mi presentaste l’altra sera, immaginate, gli ho venduto il ‘Monte Pellegrino’, appena sbozzato: tremila lire, nientedimeno!” (e quel tonto, c’è da scommettere, l’avrà rivenduto subito per cinque o diecimila)». Lojacono – continua Spinelli – «   sembrava pieno di sé, glorioso e borioso; ma, quale io lo conobbi, nei rari incontri, mi apparve uomo semplice, di vita modesta, innamoratissimo dell’arte e della sua Sicilia. Ce ne ha lasciato immagini indimenticabili per la luminosità, le trasparenze, la vaporosità del cielo, le sfumature e striature di toni del mare, il vivo senso  della stagione e dell’ora. Certe strade fangose e melmose – quelle erano allora le nostre “nazionali” – danno l’impressione che il carretto, avanzante tra le pozzanghere, ci debba impillaccherare. Su certi muri di campagna il sole quasi abbacina e scotta. Egli sapeva la virtù del sole che aveva infuso nei suoi quadri. E, alterando in modo paradossale quel fondo di verità che non mancava in ogni sua vanteria, raccontava – gli amici lo trasmisero alla posterità – che Sua Maestà Umberto I, venuto a Palermo a inaugurare l’Esposizione del ’92, nel contemplare i suoi dipinti, era esploso in questa esclamazione, non confacente alla sua maestà regale: “Caro Ciccio, i tuoi quadri cacano fuoco!”». Certo, Luigi Di Giovanni (Palermo 1856-1938), Luigino per il suo maestro Domenico Morelli (Napoli 1826-1901), restituisce, nella sua pienezza cromatica e segnica, quella visibilità della Palermo di transizione posta tra due secoli, e che ritroviamo compiutamente espressa nella Famiglia Rondani di Felice D’Onufrio; ma anche vi appare, condensata, quell’esigenza emersa, sempre con maggiore trasporto e solerzia d’indagine, dalla nuova scienza demopsicologica che svela, soprattutto con Giuseppe Pitré e Salvatore Salomone Marino, i tratti e lo scenario avvolgente d’un folklore sostanziato dall’indagine psicologica, dalla caratterizzazione dei valori fisiognomici e interiori sostenuti anche dalla nascente psicoanalisi e dalla antropologia lombrosiana. Per Di Giovanni il compiuto disegno “Ritratto del mio Maestro”, è subito testimonianza del suo impegno permeato dagli umori del tempo. Realizzato all’età di diciannove anni (1875) si propone d’impeto come esercizio giovanile; mosso dall’innegabile afflato di allievo, testimonia, di già, un gradiente più maturo, in particolare per quella spontanea resa di logica espressiva capace di raccogliere l’implicita gestualità antiaccademica e che lo rende, appunto, colmo d’un primitivo vigore. Di questo vigore interno, sempre sostenuto dalla linea (la traccia, percepibilissima, del disegno è sempre presente nella sua struttura pittorica), si dà testimonianza con gli interessanti “Studi per puttini”, dai quali affiora quella sollecitazione plastica legata alle osservazioni (di certo) condotte sugli stuccatori siciliani settecenteschi, non priva di una ulteriore patina elaborata nel gusto dei tanti percorsi paralleli (propri, nel rendiconto estetico, dei figulini del passato o della ceroplastica). Poi emerge il corpo di un ricco quaderno stipato di “figure” e “volti”; soprattutto le figure femminili, lo studio di mani, gli esercizi sulle icone sacre, fanno affiorare la sua identificabile espressione, tradotta, con partecipata abilità, lungo la fermezza del segno, e, nello stesso tempo, mostrando aperture a soluzioni più moderne, a implicazioni d’un ‘gesto’ complice e, contemporaneamente, mediatore tra committenza e imprescindibili esigenze creative.

Ma “saldo studio” e “sensibilità d’artista”, proprietà riconosciute dagli effervescenti interessi di  Minutilla Lauria, hanno sempre connotato la dimensione costruttiva e poetica di Di Giovanni, sin dalla sua prima opera pittorica, Il rinvenimento del cadavere di Pietro Micca (1884). Un impegno civile che non trascende da quella percezione visibile e palpabile pronta ad indagare l’intimo umano e la termografia di un ambiente legato a certi accadimenti crepuscolari e che nella matura e composta tela, Donna seduta sul divano (1922; e, non a caso, nell’Autoritratto o nel Ritratto di gentiluomo) va configurando quell’impegno analitico non disgiunto dalla pertinente conoscenza dell’apparato tecnico. Ma forse, tra i molteplici approcci, l’utilizzazione del pastello risulta particolarmente grondante di emozioni, di sensitive pulsioni cristallizzate, o disciolte, in una luminosità dal calco napoletano, a volte rintracciabile nelle evocazioni palizziane di pregnanti scorci naturali. Con evidenza, nel “Volto di fanciulla”, la cifra della luce costituisce una bagaglio non soltanto suggestivo, ma vera e propria sintesi armonica estratta dalla ricerca tenace della luminosità, e che ebbe, in quel tempo, un maestro dalla indiscussa forza espressiva in Francesco Lojacono. E se il versante antropologico contribuisce alla natura e alla funzione di un’accademia attraverso stilemi che ne confinano la propulsione creativa (ritroviamo tale ‘propulsione’ più espressa nella fluidificazione del segno in Bergler), in alcuni acquerelli (“Paesaggio”) la necessità storica e culturale della ‘macchia’ fa dire a Di Giovanni della sua capacità di poter superare i perimetri dettati dalla Scuola, per rivolgersi ai versanti iniziatici dell’interiore (e dinamica) esaltazione di una fresca carica percettiva. Così quella vivacità cromatica, evidenziata da Spinelli e rapportata positivamente al Lojacono, trova alveo e matrice nel letto di un segno germinativo, pronto a cogliere, ad elaborare e restituire, plasmati, sedimenti ed effusioni di una civiltà figurativa in trasformazione, posta tra i dorati arcaismi dell’ultimo Ottocento e i ‘fuochi di bengala’ dei paroliberisti già fatti brillare, provocatoriamente, contro i fiochi e untuosi bagliori lunari.

 [© catalogo “Luigi Di Giovanni”, by ElleEdizioni 2003; Galleria ElleArte, 29 marzo-29 aprile 2003]

 

GROMO O DEL PAESAGGIO 
Personale di Giovanni Gromo
Giovanni Gromo è quel che si dice un “pictor optimus”. “Optimus” per il suo frequentare assiduamente il verbo della figurazione, ottemperando  con pienezza alle sue norme inderogabili.
Non è quindi un caso, che Bruno Caruso, nella presentazione in catalogo, così scriva del suo fare: “Io posso affermare che la pittura di Giovanni Gromo appartiene infatti alla più autentica tradizione pittorica, il che, lo direbbe anche Croce, è tautologico, ma vero. Cioè una pittura fatta da un vero pittore, con i pennelli d’antico pelo di martora, con i colori della scala cromatica tradizionale, oltre che con gli ingredienti consueti, l’essenza di trementina, l’olio di lino, la vernice Damar, cioè quel che i pittori, da che mondo è mondo, hanno sempre usato per dipingere: ottenendo dopo i primi piani le profondità, velando il quadro con delicate sfumature e di tutti gli accorgimenti della pittura”.
In questa raffinatezza tecnica – nella quale, peraltro, si riflette una grande conoscenza, anche linguistica, della pittura del passato – consiste il merito e la cifra peculiare (ma forse anche il limite) del gesto artistico di Giovanni Gromo.
Il gioco delle velature, l’articolazione estremamente modulata delle vibrazioni tonali, i conseguenti effetti di sfumatura con i loro brumosi avvolgimenti atmosferici, contribuiscono non poco a conferire ai suoi paesaggi un irretente magnetismo, capace di condurre i riguardanti in contesti naturali impregnati di mistero. Così, in “Luci e luna” o, maggiormente, in “Plenilunio”, il marcato tonalismo, tutto articolato sulle molteplici variazioni del blu, riesce nel donare ai suoi notturni un’aura di arcano insondabile e inquietante. Mentre altrove, in “Tra Milazzo e Capo d’Orlando”, è un caleidoscopico sfrangiarsi luministico di molteplici e confluenti cromie ad attribuire un nebuloso e surreale senso di sospensione al tremulo paesaggio aurorale.
Sovente punteggiate di citazioni “bockliniane” – “Città di mare”, “Verso l’approdo”, “Narciso” –, le vedute di Gromo confermano, dunque, una grande cultura figurativa e una indiscussa capacità di incontrare il gusto dei possibili fruitori.
Va, però, detto – quale chiosa obbligatoria, soprattutto alla luce della discutibile critica mossa da Bruno Caruso, in presentazione, a tanta arte contemporanea – che proprio una facile approcciabilità, benché supportata da prodigiosi mezzi tecnici, e nonostante un’apprezzabilissima abilità nell’infondere ai dipinti un alone enigmatico, può costituire un limite linguistico, massimamente ai giorni nostri (dopo secoli di eccellente pittura figurativa), in cui un certo grado di elaborazione concettuale pare doveroso. E questo soprattutto alle nostre latitudini, ove il culto delle “belle arti” – non ce ne voglia Bruno Caruso – ha sempre costituito un alibi per giustificare un certo immobilismo estetico e culturale fin troppo consensuale a quello socio-politico.
 Da Elle Arte fino al 25 marzo     
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L’ANIMA E L’ACQUA 
Bice Triolo opere recenti 
 
Tratto graffitistico e acidità cromatica identificano in maniera impareggiabile la pittura di Bice Triolo.
Una cifra stilistica estremamente personale grazie alla quale la pittrice trapanese è in grado di operare la radicale trasfigurazione del dato fenomenico, riscattandolo dalla sua fisicità per proiettarlo in una dimensione immaginifica ove si annulla ogni discrimine fra ricordo, sogno e visione.
E’ in questi termini e con queste modalità che Bice Triolo, ad onta dell’apparente estroflessione coloristica, ama dipanare il suo raffinato epos impregnato di meditativo intimismo borghese. Perché quello della Triolo è un autentico “crepuscolarismo” di stampo gozzaniano, popolato di oggetti e contesti di rassicurante quotidianità, però rappresentato in un febbrile sfrangiamento di vibrazioni tonali, in vero assai lontane dagli usuali languori cromatici di umore melancolico tipici dei ripiegamenti solipsistici.
Piuttosto, quella che si offre agli osservatori (alla galleria Elle Arte fino al primo marzo) è una trasposizione psichedelica d’un vissuto giornaliero fitto di cose e di memorie, di presenze discrete e silenziose ma vivificate da una tavolozza accesa e inacidita da metallici bagliori, a stento contenuti in un reticolo di segni tremolanti sul supporto.
Ora fitte ed insistenti, a mo’ di trama o di merletto, come per l’appunto in “Merletti e dolcetti” o in “Composizione con cestino” e “Composizione con pennelli”, ora diradate all’essenziale, quasi a dare il senso d’un mistero desolante, come in “Sedia” o in “Interno azzuro” o ancora in “Ombrellone”, le tracce della Triolo ci conducono lungo un articolato percorso esistenziale nel quale tutto ciò che per altri è insignificante e sotto traccia assurge a un ruolo di protagonista completo e assoluto. Una poetica delle “minimalia”, ove scenari , strumenti del lavoro  e dell’agire giornaliero, abbandonata la sfera oggettuale, divengono autonomi soggetti, animandosi di vita nell’impasto dei colori.
Sospesi fra elegia e favola, talora declinati con una esuberanza cromatica quasi gemmologica (il concretarsi materico dei pigmenti rimanda in qualche caso alla tessitura espressionista di Kokoscha), talaltra rarefatti fin quasi alla dissolvenza ottica, i dipinti della Triolo ci parlano dell’arcano irretente che anima le cose, invitandoci a cogliere la nascosta bellezza permeante tutto ciò che ci circonda e sottraendoci così a quel torpore estetico che sempre più avvelena il viver quotidiano. (alla galleria Elle Arte fino al primo marzo, a cura di Aldo Gerbino)
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SUL FILO DEI RICORDI
il teatro della memoria di Tino Signorini

La grafica come teatro della memoria, come simbolica ribalta su cui esporre le sbiadite “memorabilia” di tutta un’esistenza.
Sono proprio i ricordi, velati dalle brume del passato prossimo e remoto, la linfa vitale cui ama attingere Tino Signorini.
Evocati dal grumo scuro della psiche e ordinati secondo un’intima scansione cronologica, in cui l’affanno del lavorio degli anni cede a una meditatività pausata e avvolgente, essi costituiscono i reperti d’un mondo sommesso ed antieroico, lungamente introiettato fino a depurarsi d’ogni vanagloria e falsa retorica. Una autoanalisi da cui deriva una silente narrazione per immagini, ove il “visibile” pare emergere a fatica dalle nebbie circostanti, quasi che il rimembrare riaprisse “vulnera” a stento suturate dall’oblio del tempo; di quel tempo soggettivamente vissuto e percepito, che fa di ogni esperienza un unicum di irripetibile e insondabile mistero.
Muovendo dal raffinato grafismo di Vespignani e dalle desolate atmosfere di Sironi, e avvalendosi del prediletto e irrinunciabile contè, Signorini dà così corpo, con eleganza rarefatta, a tutto il corteo di ombre (e di ubbie) albergate nei recessi della mente. Il lirismo elegiaco cede il passo a un pathos misurato e minimale, ma di subitanea immediatezza nella sua estrema penetranza. Non è un caso che del dramma esistenziale Signorini offra il contesto (paesaggi urbani oscuri e solitari, muri screpolati, ingombri tavoli di lavoro, battigie ventose), richiamando gli osservatori a un emotivo processo immaginifico e quasi inducendoli a una completa immedesimazione simpatetica. I trapassi chiaroscurali, le dissolvenze ottiche, gli avvolgimenti atmosferici, tutto contribuisce a fermare il flusso degli eventi, a inchiodarne gli scenari in immagini sfocate, abrase dal peso d’un vissuto dai risvolti dolorosi e a tratti insostenibili.
Si spiega in questi termini il prevalere d’una “scurità” di fondo, tutta orchestrata su tonalità grigio-nerastre, solo di rado interrotta da improvvisi barbagli coloristici. Una monotimia cromatica di tipo “goyesco”, capace di specchiare fedelmente la “saturninità” di chi la ha concepita, senza mai eccedere, però, in inutili tetraggini, mercè una sobrietà al contempo rigorosa e raffinata.
Così, sfrondati d’ogni superfluo orpello descrittivo e ridotti alla loro essenza narrativa, i ricordi si profilano sui fogli come avvolti da caligini aeriformi, baluginanti quali ectoplasmi nei gorghi dell’oblio. Interni di cucine sedimentati di fumo, scorci fantasmagorici della Palermo vecchia, lo studio di via Castriota, gli oggetti abituali del lavoro, muri erosi e dilavati di quartieri anonimi scorrono sotto gli occhi degli osservatori, contribuendo a ricomporre il filo impercettibile d’una irretente biografia, il cui fascino magnetico risiede proprio nel suo essere “anti-epos”, nel suo sostanziarsi di scenari comuni e quotidiani però trasfigurati in immagini assolute e senza tempo.
In questo modo Signorini ci consegna la sua “storia”, una “storia” senza squilli né fanfare, sempre sotto traccia, anche quando si sofferma a indugiare sul biancore agghiacciante d’una sagoma in un letto d’ospedale o allorquando giunge al “limen” d’una finestra forse volta verso il nulla. Finanche in certe inaspettate accensioni di colore - di un’arancia, di una pera, di una spiaggia assolata -, che non rinnegano distimicamente lo “spleen” sottostante, ma lo completano denotando una fisiologia della rimembranza punteggiata anche di frammenti di maggior serenità, l’armonica misura è fatta sempre salva, senza debordamenti euforici di scontata mediterraneità e soprattutto senza “piacionismi” dettati da tentazioni di mercato.
Un linguaggio - questo di Signorini - di grande austerità, ma non per questo meno vitale di tanti altri fin troppo vitalistici. Una conferma del proprio essere “ancor vivo” (perché la memoria personale e collettiva è il presupposto d’ogni coscienza), consegnandosi così, da vero artista, all’immortalità.
Le opere di Tino Signorini saranno visibili alla galleria Elle Arte dal 22 al 30 gennaio.
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COLLETTIVA Catalogo 2003
“Pittura e poesia”
(fino all' 11 gennaio 2003)

Fra pittura e poesia c’è da sempre un legame di simbiotica interdipendenza. Quasi fossero le facce d’una stessa medaglia, queste due discipline artistiche hanno costantemente dialogato fra loro, ispirandosi a vicenda in un fertile rapporto di reciprocità osmotica e facendosi spesso portatrici di stesse innovative istanze estetiche.
E’ alla pittura vascolare attica, infatti, che si deve l’estesa visibilizzazione dei poemi omerici, così come è d’uopo ricordare la statura di poeta del sommo Michelangelo o il ruolo “visuale” della poesia nella diffusione delle idee dei futuristi.
Detto ciò, non v’è dunque da stupirsi che la gallerista Laura Romano abbia deciso, in occasione del Natale, di realizzare un calendario (pretesto per una mostra visibile fino all’undici gennaio) in cui associare pittura e poesia, come a confermare la raffinata complementarietà di queste discipline.
Dodici dipinti di altrettanti artisti che hanno esposto in galleria nei mesi scorsi, ciascuno dei quali corredato da una lirica d’un poeta siciliano contemporaneo. Sensibilità pittoriche diverse e talora antipodiche, ma tutte correlate da un unico filo conduttore: un lessico dichiaratamente figurativo, seppure con declinazioni variegate e altamente personali.
Si va dal vedutismo fotografico di Mario Mirabella jr. e dal pacato paesaggismo di Pascal Catherine alle più nevrili dissertazioni sul tema - non scevre di dissertazioni espressioniste - operate da Dieter Kopp, da Edwin Hunziker e da Aldo Pecoraino; e ancora, si spazia dal soffuso intimismo borghese di Adriana Lanza a quello più mediterraneo di Giovanni Schifani; dalla visionarietà graffitistica di Bice Triolo a quella fiammeggiante di Josè Guevara; dal tratto graffiante e quasi caricaturale di Bruno Caruso a quello estremamente attento e razionale di Gaetano Lo Manto.
Una panoramica, dunque, sulla produzione di alcuni dei più interessanti pittori (e poeti) siciliani e stranieri, che della Sicilia hanno fatto o fanno la loro elettiva fonte di ideazione; un piccolo (ma esauriente) spaccato degli apprezzabili esiti artistici cui il senso d’appartenenza alla nostra isola - prescindendo dall’essere nativi o d’adozione - ha dato luogo negli ultimi anni e decenni.
L’iniziativa è stata attuata con l’apporto della fondazione Thule Cultura.
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