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- GRAZIA
CIANETTI
- "L'infinito
presente della memoria"
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E’
un’atmosfera da “cronache familiari” quella che permea
i fantasiosi collages di Grazia Cianetti.
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Realizzati
con pezzi di stoffe ritagliate ad arte con certosina
e miniaturistica perizia, questi deliziosi quadretti
ripercorrono – e, in un certo senso, rivisitano,
reimmaginandoli – i luoghi prossimi e remoti della
memoria, ammantandoli di un tono vivacemente favolistico.
Infatti, ad onta dell’apparente naiveté (che però
presenta fascinose tangenze con lo splendido lessico del
“doganiere” Rousseau), percepibile ad una lettura
meramente superficiale delle immagini, queste opere rivelano
un intento che pare andare ben al di là d’un semplice e
nostalgico esercizio mnemonico, rivelandosi – nei fatti
– una fantasiosa ricostruzione “a posteriori” di
vissuti personali, operata con la gioiosa levità delle
affabulazioni per l’infanzia. Anzi – a voler essere più
chiari –, si può ben affermare che il tono
dell’approccio ai ricordi è quello tipicamente delicato
e, al contempo, ingenuamente mitizzante delle trafigurazioni
del reale poste in essere direttamente dai bambini con
pupazzi e marionette.
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Così,
attingendo direttamente a quanto sedimentato nei
“depositi” intrapsichici, ma anche – si suppone –
ricorrendo all’apporto fotografico dei cimeli familiari,
la Cianetti ripercorre le orme impresse dal proprio
“clan”, negli ultimi cent’anni, trasfigurandole –
con una poetica ottica infantile – in coloratissimi
assemblaggi di stoffe, nei quali tornano a rivivere
antenati, parenti più o meno prossimi e personaggi vari.
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Dai
sollevatori di pesi da circo “fin de siecle” ai pionieri
del ciclismo di inizio novecento, dai gruppi di famiglia
degli anni ’20 alle mannequins degli anni ’30, dalle
famiglie di paese (come pietrificate innanzi all’obiettivo
fotografico) a quelle della buona società (agghindate con
le loro belle vesti), fino alle immagini dell’anziana
madre e dei propri figli, è tutto un susseguirsi di
memorabilia personali, però in grado di irretire gli
osservatori, in virtù del loro palese incanto visuale e
soprattutto della capacità di coinvolgimento attraverso
meccanismi di empatica immedesimazione.
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Come
una novella cantastorie, attraverso le sue esperienze
autobiografiche, la Cianetti – in fondo – null’altro
ci restituisce che la nostra storia; ovvero quella storia
– per dirla con le parole di De Gregori – che “siamo
noi”, fatta di piccoli e grandi eventi quotidiani, ma
dalla cui somma scaturisce la più autentica realtà.
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Dal
5 al 20 dicembre
2003
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- NICOLA
LAZZARI
- "Meteore
e lontananze"
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fino
al 29 novembre
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La
pittura di paesaggio e di veduta, soprattutto se di stampo
fotografico, scivola assai spesso nell’effetto deja vu.
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Rappresenta
senza dubbio un eccezione il raffinato e delicato paesaggismo di
Nicola Lazzari.
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Sarà
per il piccolo formato – in alcuni casi quasi miniaturistico
–, sarà per il ricorso all’acquarello – steso con una
timbrica intensa ma al contempo misurata –, sta di fatto che
i dipinti di Lazzari rivelano una indiscussa capacità di
irretimento, esercitata con un incanto visuale di freschezza e
nitore non comuni.
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E
questo, senza alcuna discontinuità di resa, bensì con una
omogeneità e una coerenza di stile e narrazione, in grado di
prescindere ampiamente dal soggetto esaminato.
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Lazzari,
infatti, spazia con eguale noncuranza dalle azzurrità dei
paesaggi marini ai chiarori di quelli alpestri, fino al tonale
comporsi dei verdi collinari, trasmettendo all’osservatore la
visione di una natura viva e palpitante e soprattutto
assolutamente armoniosa nei suoi formali equilibri di luce e di
colore.
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E
proprio in quelle opere in cui il naturale rispetto delle forme
cede il passo a più liquide dissoluzioni – come in La
valle di Camaiore, nel quale il confondersi dei verdi e
degli azzurri trascende verso una simbolica astrazione – o,
viceversa,a un quasi razionalistico intreccio di geometrie –
si guardi l’articolarsi a patchwork dei terreni coltivati nel
delizioso San Martino in Vignale – Lazzari ci pare
esprimere e raggiungere il meglio della sua arte, peraltro
rientrando a buon diritto nel più immediato flusso della
contemporaneità.
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Laddove
la veduta millimetrica si risolve in un impianto trasognato, nel
quale il guardo si disperde nel ristretto – ma al contempo
sconfinato – perimetro cartaceo e nell’alchimia delle
nuances, proprio lì la poetica di Lazzari perviene al suo acme,
trasformando, con lirismo emozionale, la pura percezione in un
trasalimento onirico che sublima la realtà.
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- MARIO
MIRABELLA Jr.
- Come in un
mirabolante gioco di specchi, di fronte a queste nuove
opere di Mario Mirabella junior, la nostra memoria è
costretta a mettere a fuoco le immagini e i luoghi che
esse rappresentano e a riconoscere, attraverso gli occhi
dell’artista, ciò che forse spesso abbiamo visto senza
guardare. Del resto “ non si vede se non ciòche si
guarda”; e la scontata osservazione di Merleau-Ponty «on
ne voit pas que ce qu’on regar-de» è certo una
affermazione perentoria della quale però bisogna tener
conto, quando ci si imbatte in un pittore che voglia
ancora riproporre il paesaggio e riaffermare icasticamente
l’inesauribilità della visione. “Che cosa sarebbe la
visione senza alcun movimento degli occhi?” continuava
il filosofo, sempre in quel prezioso testo del 1960 L’oeil
et l’esprit, e a proposito della tessitura
immaginaria del reale si chiedeva poi “in che modo
il loro movimento non potrebbe confondere le cose se egli
non avesse le sue antenne, la sua chiaroveggenza e la sua
idea della visione?”.
Poneva cioè un fondamentale problema di estetica
sul quale il dibattito culturale è ancora aperto e che è
certamente inquietante poiché mette in questione il
nostro rapporto col mondo del visibile e
dell’invisibile. Pone cioè l’atto del vedere come
capacità di rapportarsi con l’universo, la visione come
complessa operazione del pensiero che si rappresenta il
mondo, nel quadro di un continuo mutamento nel quale egli
stesso è parte e nel quale si rivela lo spirito di colui
che guarda. Nel caso della pittura, ci si affida poi alla
immobilità di una materia, di un pigmento cromatico nel
quale si rivela un modo di interpretare la realtà mutante
che il pittore guarda e crede di vedere. “Prestando il
suo corpo al mondo, il pittore cambia il mondo in
pittura” continua, infatti, Merleau- Ponty sulla scia di
Valery e su questo punto é forse possibile mettere
d’accordo le differenti opinioni che è lecito sostenere
quando ci si inoltra in argomenti che sfiorano la
metafisica e non soltanto quella della pittura. Mario, del resto, non si pone questi
problemi quando dipinge il suo mondo e anzi, fingendo di
ignorare tutto quello che è successo in pittura da
Picasso in poi, riesce ad essere contemporaneo, pur
riproponendo l’antico tema del paesaggio caro a tutti i
pittori della famiglia Mirabella. Ritornando col suo
sguardo sullo stesso oggetto per coglierne quelle valenze
sfuggite che lo fanno sempre diverso pur nella sua
riconoscibilità, egli afferma infatti la temporalità
poiché, nel fluire della realtà, ogni volta l’occhio
coglie ciò che appare nuovo e diverso in rapporto alla
disposizione d’animo e alla mutata capacità di
restituirlo in forma di luce e colore. Ripete perciò ad
libitum il suo repertorio di immagini come un musico che
torna al suo spartito e gioca sui tempi sfidando pause e
orditure e utilizzando perciò la sua tavolozza cromatica
con quel sapiente dosaggio che dà sempre nuovo respiro
all’oggetto noto che ogni volta i suoi occhi rivedono
alla mutante luce del suo sguardo interiore e della sua
curiosità indagatrice e fertile ai richiami
dell’emozione o al distacco ironico verso una presunta
oggettività che è invece sempre un abbaglio e un felice
abbandono ai segni di una bellezza cercata anche laddove
essa è stata offesa o cancellata.
Si vede ciò che si vuole vedere e si trova sempre
ciò che si cerca, quando si guarda un paesaggio o la città
della memoria, un luogo della nostra infanzia o la nuvola
che passa mutando la sua forma. E nell’idea che ha Mario
della pittura, questo tornare a guardare potremmo
assumerlo come poetica del suo operare. Dinanzi alla
stessa realtà che appare “altra” c’è, dunque, il
gioco degli occhi, come direbbe Elias Canetti, la sua
idea della visione e le sue antenne, il suo sguardo che
vola, indaga, si sofferma, si distrae e ritorna
sull’oggetto del suo desiderio attratto, appunto, dagli
aspetti sempre diversi che vi scopre e che ogni volta
intende restituire nella loro epifanica visione.
Così i fragili fogli, i cartoni e le piccole
tavole, s’aprono ai grandi spazi monumentali, alle
piazze, ai paesaggi senza cedere alla nostalgia o alla
idealizzazione ma documentando la realtà mutevole e i
nuovi stati d’animo che hanno condizionato quella
“visione”; ripropongono, nella trasparenza del colore
che sa farsi luce e ombra, l’antico vedutismo urbano col
gusto raffinato dell’architetto che si sofferma su
scorci e prospettive e sulla trasformazione culturale del
paesaggio. Tra gli olii, gli acquerelli e i disegni a
seppia, presenti in questa mostra, figurano poi quei
paesaggi con gli “ulivi saraceni” le cui strane forme
hanno incuriosito il pittore e che rappresentano la sua
necessità di rivederli con la maturità di uno sguardo
che va oltre l’incantamento o il dolore della
contorsione descritta nelle diverse prospettive che ne
mutano gli aspetti.
Attratto dal fascino degli antichi mercati stracolmi che
fanno da contrappunto alle viuzze e alle piazze del centro
storico palermitano e ripercorrendone visivamente la
storia, Mario ci dà la misura della sua raffinata tecnica
e della sua capacità di spaziare entro le piccole tele;
ci comunica quel sentimento di appartenenza e di complicità
che distingue il suo segno e fa della sua “maniera” il
linguaggio più naturale per riparlarci del suo rapporto
con la città e con la bellezza del paesaggio che sa
ancora offrirsi ai nostri occhi attraverso il suo sguardo.
Piero Longo
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dal
31/10/2003 al 12/11/2003
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- SERGIO
CECCOTTI
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“I
GIORNI, LE NOTTI”
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Le
atmosfere sono quelle di sempre: misteriose e un po’
inquietanti.
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A
distanza di tre anni dalla sua ultima mostra palermitana –
tenutasi, anch’essa, alla galleria Elle Arte –, Sergio
Ceccotti conferma dunque appieno le sue non comuni doti di
sapiente affabulatore per immagini.
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Ceccotti
infatti racconta, ma senza mai svelare troppo e soprattutto
senza mai cadere in superflue ridondanze descrittive, pur
optando per una figurazione assai nitida e più che realista; di
ogni vicenda narrata egli offre, per l’appunto, uno spaccato,
un riferimento, forse un antefatto o una semplice sequela,
lasciando all’osservatore il compito (e in qualche modo
l’obbligo) della ricostruzione e del completamento dei
dettagli della trama.
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Narrazioni
aperte, dunque, quelle di Ceccotti, “metafisicamente”
cristallizzate nell’attimo fuggente che però offre tutti gli
indizi per una possibile chiave di lettura. Pittura interattiva,
che chiama il riguardante a un doveroso contributo immaginifico,
sì da essere completamente avvolto dall’arcano delle storie,
di cui è non solo muto testimone, ma soprattutto comprimario
(se non protagonista).
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Guidati
dalla sapiente regia del nostro autore, si è pertanto indotti a
sbirciare interni bui e desolati – ma nei quali si avvertono
misteriche presenze – o a spiare – come dei voyeur – le
attività domestiche di perfetti sconosciuti, colti per lo più
di spalle e bloccati in pose assorte e distaccate. Ne consegue
una sensazione di perturbante straniamento, dovuto al disagio
manifesto derivante dall’essere partecipi di vicende inattese
e soprattutto imperscrutabili. In questi termini, Ceccotti si
conferma un valido e assai qualitativo neo-cantore delle
poetiche metafisico-surrealiste, alle quali dimostra di sapere
dare un proprio significativo contributo (anche alla luce di
certe suggestioni hopperiane), aggiornandole congruamente e
riconducendole in quell’alveo di apparentemente banale
quotidianità, nelle cui pieghe svelare (o forse velare
ulteriormente) il recondito senso di tutto il nostro essere nel
mondo.
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- MARIOLINA
SPADARO
- dipinti
1994-2003
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Ciò
che colpisce maggiormente della pittura di Mariolina Spadaro è
la forza del colore e l’intensità del gesto artistico.
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Un
gesto dipanato fra incisività graffitistiche ed impeti
cromatici, e con una sintesi formale tendente ad esaltare
l’immediatezza emotiva dell’espressione.
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Non
è un caso, pertanto, che la mente dell’osservatore più
avveduto, al cospetto dei dipinti della Spadaro, corra a modelli
un tempo avanguardistici – ma ormai classici – quali quelli
di Matisse e dei pittori Fauves. Referenti che però la nostra
artista riesce congruamente ad aggiornare alla luce di un
grafismo assai marcato, cui di certo non è esente l’influsso
di elementi autoctoni – Amorelli per esempio – mescolato
alle tendenze graffitistiche provenienti d’oltre oceano.
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Dato
– quest’ultimo – particolarmente percepibile, in tutta la
sua calda emozionalità, negli acrilici su tavola, ove la tipica
mediterraneità della vis timbrica viene come incanalata (e
validamente contenuta) all’interno d’un sistema di tracce e
scarificazioni che ne esaltano la matericità. Ne risulta,
conseguentemente, un rafforzamento dell’aspetto iconico degli
oggetti rappresentati – una caffettiera, una cuccuma, dei
cantalupi – che, riscattandoli dalla mera dimensione
naturalistica, li eleva al rango di soggetti compiuti e
convincenti.
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Il
portato simbolico ed ampiamente evocativo permea d’altronde
l’intera produzione della Spadaro, estendendosi anche ai
grandi acrilici su carta. Opere nelle quali i contenuti
intimistici e mnemonici paiono decisamente prendere il
sopravvento, trovando nelle accensioni coloristiche – qui
poste in essere attraverso ampie e più morbide campiture – il
medium ideale per una resa atmosferica degli affetti. Scorci di
interni – con cassettoni, gatti e poltrone – o esterni
insulari, si susseguono a testimoniare d’una riuscita
scansione visuale del proprio repertorio di ricordi, così dando
al mondo interiore quella estroflessa poeticità che discrimina
la buona pittura dal didascalismo di maniera.
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COLLETTIVA
ELLE ARTE visibile fino al 31 luglio (di salvo ferlito)
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Autentico
mosaico di stili e tecniche diverse, la collettiva visibile fino
al 31 luglio alla galleria Elle Arte si pone come
un’esauriente summa dell’attività svoltasi in questi ultimi
mesi negli spazi espositivi di via Ricasoli.
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Con
la sua sequenza di opere di variegata fattura e provenienza,
essa costituisce a tutti gli effetti uno spaccato interessante
della produzione artistica attuale, fornendo non pochi spunti di
riflessione agli addetti e al contempo riuscendo ad appagare le
aspettative del pubblico più vasto.
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Ciò
che infatti emerge con chiarezza, già a una prima osservazione,
è l’assoluta prevalenza della figurazione – seppure
declinata con modalità diverse che vanno dal naturalismo di
stampo fotografico ai parziali sconfinamenti di sapore più
informale –, a conferma di una tendenza sempre più
consolidantesi nell’odierno panorama artistico.
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Dalle
raffinatezze grafiche di Tino Signorini alle aeriformi
dissolvenze di Giacomo Angiletti, dal tratto acidamente
graffitistico di Bice Triolo alle sperimentazioni tecniche e
linguistiche di Matilde Trapassi, dal paesaggismo misterico di
Giovanni Gromo all’intimismo borghese di Adriana Lanza è
tutto un susseguirsi di opere per lo più figurative (con
l’esclusione di quelle della Trapassi, improntate al più puro
astrattismo), in grado di rappresentare al meglio le diverse
modalità di attuazione e sviluppo di questo inossidabile
impianto lessicale.
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Un’occasione,
dunque, in questa calda estate, per sollecitare con stimoli
estetici adeguati, tanto l’occhio, quanto la mente, magari
dando un senso più compiuto a una piacevole passeggiata nel
centro cittadino.
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MATILDE
TRAPASSI
- Pattern
senza direzioni
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Come
muovendo idealmente dalle teorizzazioni di William Morris,
Matilde Trapassi opera una interessante sintesi fra pittura ed
arti decorative, in grado di dimostrare – qualora ce ne fosse
ancor bisogno – l’infondatezza di qualsiasi separazione
concettosa fra arti maggiori e minori.
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Utilizzando
il feltro – un materiale in vero assai insolito, del quale la
nostra artista segue l’intero ciclo produttivo a partire dalla
lana fino al manufatto artistico completo –, ma anche la
ceramica – lavorata in classici piatti – e le più consuete
tele, la Trapassi dà corpo a un fantasioso immaginario,
espresso nei modi aerei e vivacissimi tipici del più puro
linguaggio informale, avendo però sempre cura di coniugare la
più ampia libertà visuale con un gusto della
manualità degno della più consueta (e migliore)
tradizione artigianale.
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Sarà
per questo, forse, che in questa produzione, visibile alla
galleria Elle Arte fino al 7 giugno, ricorrono motivi e formule
estetiche direttamente conducibili alla esperienza vetraria
muranese, della quale la Trapassi – che non a caso è titolare
della cattedra di Decorazione all’Accademia di Brera –
ripropone le cromie assai vivaci dei fermacarte o degli eterei
vasi di Venini.
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Talora
in forma puramente maculare, talaltra assemblato alludendo a
biomorfismi, è il colore lo strumento deputato al sincretismo
fra le immagini e le cose,
e quindi a dar forma (e corpo) nel concreto a tutto ciò che è
soltanto pura idea. Una traduzione – quella del pensiero in
qualcosa di visibile e tangibile – operata nel rispetto
d’uno schema aureo, ovvero di quel principio della circolarità
riproposto ossessivamente in tutti i manufatti – feltri, tele
e ceramiche –, non per nulla concepiti come tondi.
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Una
ideale perimetrazione, all’interno della quale liberare e al
contempo organizzare il proprio gesto artistico, nell’armonica
osservanza del connubio indissolubile fra la mente ideatrice e
la mano esecutrice.
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Alla
galleria Elle Arte fino al 7 giugno
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GIACOMO
ANGILETTI
- Fra idillio ed elegia
- Colorista
morbido e avvolgente, Angiletti ha nel pastello il suo elettivo
mezzo d’espressione.
- Proprio il
pastello, infatti, con la sua stesura impalpabile e aeriforme,
si rivela funzionale ad una espressività delicata e senza
eccessi, tutta tesa a enucleare e rendere al meglio la
componente più affettiva d’ogni rappresentazione.
- Non è un caso,
quindi, che egli rivolga ai soggetti naturali di tipo
paesaggistico la sua attenzione prevalente, quasi a ribadire
l’impareggiabilità di questa tecnica – il pastello per
l’appunto – nella resa della più minima vibrazione
luministica o declinazione di colore. Quella luce e quei colori
tipicamente mediterranei, che Angiletti coglie con perizia e
senza enfasi cristallizzandoli in estese azzurrità di cieli ed
acque (Spiaggia), nel verdeggiare di vasti campi (Campagna
in primavera) o nell’accendersi di messi rigogliose (Grano
al vento), il tutto in un prevalere di armonici trapassi
tonalistici atti a restituire all’osservatore quella dolcezza
della natura insulare assai spesso negletta in favore d’una
visione troppo estroflessa e riverberante.
- La stesura
sempre levigata e quasi serica, nella quale il nostro artista
eccelle (riproponendola peraltro, benché con minor intensità,
anche nella pittura ad olio), pur indugiando in effetti di
amalgama smaltata e in virtuosismi coloristici, e pur essendo
per lo più finalizzata ad un paesaggismo di tipo fotografico
– però stemperato in dissolvenze trasognate – che si
inscrive in una tradizione autoctona plurisecolare, sfugge
sempre, tuttavia, ad esiti di stucchevolezza o di tedioso deja
vu, in virtù della percepibile empatia che guida il pittore
calatino nel suo rapporto coi soggetti da ritrarre. E che
Angiletti ami la natura siciliana e riesca a dar corpo, coi
colori, a questo amore è cosa, infatti, che si percepisce
chiaramente osservando i suoi dipinti. Il che riscatta il suo
linguaggio figurativo dai comuni rischi dell’ovvio e risaputo,
restituendoci un artista in grado di rilanciare la pittura di
paesaggio e di veduta in termini di sicuro fascino e credibilità.
Una dote che gli va riconosciuta e che lo distingue dai tanti,
troppi figurativi insulari (e non) incapaci di uscire dai
recinti dei più facili cliché.
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- Alla galleria
Elle Arte fino al 20 maggio
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Luigi
Di Giovanni, una pagina dell’800 siciliano
- Di
un primitivo vigore
-
di
- Aldo Gerbino
In
un agile e denso manipolo di pagine dedicate a Palermo, lo scrittore
Salvatore Spinelli (amico e sodale di Antonio Pizzuto), l’autore de Il
mondo giovine e degli icastici aforismi Antiarte
e anticritica (1947), ricorda,
con taglio deciso, ma non privo d’un naturale smalto nostalgico,
l’ambiente del Circolo Artistico. «Ultimo mi piace ricordare
Francesco Lojacono», scrive; «pittore che sopravanza tutti i pittori
palermitani – di nascita o di elezione – del suo tempo:
Michelangelo Giarrizzo, Michele Catti, Rocco Lentini, Onofrio
Tomaselli e lo stesso Luigi Di Giovanni col quale ebbe comune la
straordinaria vivezza coloristica. Fu il genius
loci del Circolo Artistico – che aveva la sede nel Kassaro, a
pian terreno. E diceva, con sorprendente sincerità, che il Circolo
era una bella istituzione perché, “quando una volta la settimana
c’è il trattamento (trattenimento,
ricevimento) con aperitivi, paste piccanti, paste dolci e digestivi, ci
mettiamo tutti a posto e risparmiamo la cena. Con pari candore
annunciava, raggiante: “Quel tonto che mi presentaste l’altra
sera, immaginate, gli ho venduto il ‘Monte Pellegrino’, appena
sbozzato: tremila lire, nientedimeno!” (e quel tonto, c’è da
scommettere, l’avrà rivenduto subito per cinque o diecimila)».
Lojacono – continua Spinelli – «
sembrava pieno di sé, glorioso e borioso; ma, quale io
lo conobbi, nei rari incontri, mi apparve uomo semplice, di vita
modesta, innamoratissimo dell’arte e della sua Sicilia. Ce ne ha
lasciato immagini indimenticabili per la luminosità, le trasparenze,
la vaporosità del cielo, le sfumature e striature di toni del mare,
il vivo senso della stagione e dell’ora. Certe strade fangose e melmose
– quelle erano allora le nostre “nazionali” – danno
l’impressione che il carretto, avanzante tra le pozzanghere, ci
debba impillaccherare. Su certi muri di campagna il sole quasi
abbacina e scotta. Egli sapeva la virtù del sole che aveva infuso nei
suoi quadri. E, alterando in modo paradossale quel fondo di verità
che non mancava in ogni sua vanteria, raccontava – gli amici lo
trasmisero alla posterità – che Sua Maestà Umberto I, venuto a
Palermo a inaugurare l’Esposizione del ’92, nel contemplare i suoi
dipinti, era esploso in questa esclamazione, non confacente alla sua
maestà regale: “Caro Ciccio, i tuoi quadri cacano fuoco!”».
Certo, Luigi Di Giovanni (Palermo 1856-1938), Luigino per il suo
maestro Domenico Morelli (Napoli 1826-1901), restituisce, nella sua
pienezza cromatica e segnica, quella visibilità della Palermo di
transizione posta tra due secoli, e che ritroviamo compiutamente
espressa nella Famiglia Rondani
di Felice D’Onufrio; ma anche vi appare, condensata,
quell’esigenza emersa, sempre con maggiore trasporto e solerzia
d’indagine, dalla nuova scienza demopsicologica che svela,
soprattutto con Giuseppe Pitré e Salvatore Salomone Marino, i tratti
e lo scenario avvolgente d’un folklore sostanziato dall’indagine
psicologica, dalla caratterizzazione dei valori fisiognomici e
interiori sostenuti anche dalla nascente psicoanalisi e dalla
antropologia lombrosiana. Per Di Giovanni il compiuto disegno
“Ritratto del mio Maestro”, è subito testimonianza del suo
impegno permeato dagli umori del tempo. Realizzato all’età di
diciannove anni (1875) si propone d’impeto come esercizio giovanile;
mosso dall’innegabile afflato di allievo, testimonia, di già, un
gradiente più maturo, in particolare per quella spontanea resa di
logica espressiva capace di raccogliere l’implicita gestualità
antiaccademica e che lo rende, appunto, colmo d’un primitivo vigore.
Di questo vigore interno, sempre sostenuto dalla linea (la traccia,
percepibilissima, del disegno è sempre presente nella sua struttura
pittorica), si dà testimonianza con gli interessanti “Studi per
puttini”, dai quali affiora quella sollecitazione plastica legata
alle osservazioni (di certo) condotte sugli stuccatori siciliani
settecenteschi, non priva di una ulteriore patina elaborata nel gusto
dei tanti percorsi paralleli (propri, nel rendiconto estetico, dei
figulini del passato o della ceroplastica). Poi emerge il corpo di un
ricco quaderno stipato di “figure” e “volti”; soprattutto le
figure femminili, lo studio di mani, gli esercizi sulle icone sacre,
fanno affiorare la sua identificabile espressione, tradotta, con
partecipata abilità, lungo la fermezza del segno, e, nello stesso
tempo, mostrando aperture a soluzioni più moderne, a implicazioni
d’un ‘gesto’ complice e, contemporaneamente, mediatore tra
committenza e imprescindibili esigenze creative.
Ma
“saldo studio” e “sensibilità d’artista”, proprietà
riconosciute dagli effervescenti interessi di
Minutilla Lauria, hanno sempre connotato la dimensione
costruttiva e poetica di Di Giovanni, sin dalla sua prima opera
pittorica, Il rinvenimento del
cadavere di Pietro Micca (1884). Un impegno civile che non
trascende da quella percezione visibile e palpabile pronta ad indagare
l’intimo umano e la termografia di un ambiente legato a certi
accadimenti crepuscolari e che nella matura e composta tela, Donna
seduta sul divano (1922; e, non a caso, nell’Autoritratto
o nel Ritratto di gentiluomo)
va configurando quell’impegno analitico non disgiunto dalla
pertinente conoscenza dell’apparato tecnico. Ma forse, tra i
molteplici approcci, l’utilizzazione del pastello risulta
particolarmente grondante di emozioni, di sensitive pulsioni
cristallizzate, o disciolte, in una luminosità dal calco napoletano,
a volte rintracciabile nelle evocazioni palizziane di pregnanti scorci
naturali. Con evidenza, nel “Volto di fanciulla”, la cifra della
luce costituisce una bagaglio non soltanto suggestivo, ma vera e
propria sintesi armonica estratta dalla ricerca tenace della luminosità,
e che ebbe, in quel tempo, un maestro dalla indiscussa forza
espressiva in Francesco Lojacono. E se il versante antropologico
contribuisce alla natura e alla funzione di un’accademia attraverso
stilemi che ne confinano la propulsione creativa (ritroviamo tale
‘propulsione’ più espressa nella fluidificazione del segno in
Bergler), in alcuni acquerelli (“Paesaggio”) la necessità storica
e culturale della ‘macchia’ fa dire a Di Giovanni della sua
capacità di poter superare i perimetri dettati dalla Scuola, per
rivolgersi ai versanti iniziatici dell’interiore (e dinamica)
esaltazione di una fresca carica percettiva. Così quella vivacità
cromatica, evidenziata da Spinelli e rapportata positivamente al
Lojacono, trova alveo e matrice nel letto di un segno germinativo,
pronto a cogliere, ad elaborare e restituire, plasmati, sedimenti ed
effusioni di una civiltà figurativa in trasformazione, posta tra i
dorati arcaismi dell’ultimo Ottocento e i ‘fuochi di bengala’
dei paroliberisti già fatti brillare, provocatoriamente, contro i
fiochi e untuosi bagliori lunari.
[©
catalogo “Luigi Di Giovanni”, by ElleEdizioni 2003; Galleria
ElleArte, 29 marzo-29 aprile 2003]
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- GROMO
O DEL PAESAGGIO
- Personale
di Giovanni Gromo
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Giovanni
Gromo è quel che si dice un “pictor optimus”. “Optimus”
per il suo frequentare assiduamente il verbo della figurazione,
ottemperando con
pienezza alle sue norme inderogabili.
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Non
è quindi un caso, che Bruno Caruso, nella presentazione in
catalogo, così scriva del suo fare: “Io posso affermare che
la pittura di Giovanni Gromo appartiene infatti alla più
autentica tradizione pittorica, il che, lo direbbe anche Croce,
è tautologico, ma vero. Cioè una pittura fatta da un vero
pittore, con i pennelli d’antico pelo di martora, con i colori
della scala cromatica tradizionale, oltre che con gli
ingredienti consueti, l’essenza di trementina, l’olio di
lino, la vernice Damar, cioè quel che i pittori, da che mondo
è mondo, hanno sempre usato per dipingere: ottenendo dopo i
primi piani le profondità, velando il quadro con delicate
sfumature e di tutti gli accorgimenti della pittura”.
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In
questa raffinatezza tecnica – nella quale, peraltro, si
riflette una grande conoscenza, anche linguistica, della pittura
del passato – consiste il merito e la cifra peculiare (ma
forse anche il limite) del gesto artistico di Giovanni Gromo.
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Il
gioco delle velature, l’articolazione estremamente modulata
delle vibrazioni tonali, i conseguenti effetti di sfumatura con
i loro brumosi avvolgimenti atmosferici, contribuiscono non poco
a conferire ai suoi paesaggi un irretente magnetismo, capace di
condurre i riguardanti in contesti naturali impregnati di
mistero. Così, in “Luci e luna” o, maggiormente, in “Plenilunio”,
il marcato tonalismo, tutto articolato sulle molteplici
variazioni del blu, riesce nel donare ai suoi notturni un’aura
di arcano insondabile e inquietante. Mentre altrove, in “Tra
Milazzo e Capo d’Orlando”, è un caleidoscopico
sfrangiarsi luministico di molteplici e confluenti cromie ad
attribuire un nebuloso e surreale senso di sospensione al
tremulo paesaggio aurorale.
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Sovente
punteggiate di citazioni “bockliniane” – “Città di
mare”, “Verso l’approdo”, “Narciso”
–, le vedute di Gromo confermano, dunque, una grande cultura
figurativa e una indiscussa capacità di incontrare il gusto dei
possibili fruitori.
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Va,
però, detto – quale chiosa obbligatoria, soprattutto alla
luce della discutibile critica mossa da Bruno Caruso, in
presentazione, a tanta arte contemporanea – che proprio una
facile approcciabilità, benché supportata da prodigiosi mezzi
tecnici, e nonostante un’apprezzabilissima abilità
nell’infondere ai dipinti un alone enigmatico, può costituire
un limite linguistico, massimamente ai giorni nostri (dopo
secoli di eccellente pittura figurativa), in cui un certo grado
di elaborazione concettuale pare doveroso. E questo soprattutto
alle nostre latitudini, ove il culto delle “belle arti” –
non ce ne voglia Bruno Caruso – ha sempre costituito un alibi
per giustificare un certo immobilismo estetico e culturale fin
troppo consensuale a quello socio-politico.
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Da
Elle Arte fino al 25 marzo
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- L’ANIMA
E L’ACQUA
- Bice
Triolo opere recenti
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Tratto
graffitistico e acidità cromatica identificano in maniera
impareggiabile la pittura di Bice Triolo.
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Una
cifra stilistica estremamente personale grazie alla quale la
pittrice trapanese è in grado di operare la radicale
trasfigurazione del dato fenomenico, riscattandolo dalla sua
fisicità per proiettarlo in una dimensione immaginifica ove
si annulla ogni discrimine fra ricordo, sogno e visione.
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E’
in questi termini e con queste modalità che Bice Triolo, ad
onta dell’apparente estroflessione coloristica, ama
dipanare il suo raffinato epos impregnato di meditativo
intimismo borghese. Perché quello della Triolo è un
autentico “crepuscolarismo” di stampo gozzaniano,
popolato di oggetti e contesti di rassicurante quotidianità,
però rappresentato in un febbrile sfrangiamento di
vibrazioni tonali, in vero assai lontane dagli usuali
languori cromatici di umore melancolico tipici dei
ripiegamenti solipsistici.
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Piuttosto,
quella che si offre agli osservatori (alla galleria Elle
Arte fino al primo marzo) è una trasposizione psichedelica
d’un vissuto giornaliero fitto di cose e di memorie, di
presenze discrete e silenziose ma vivificate da una
tavolozza accesa e inacidita da metallici bagliori, a stento
contenuti in un reticolo di segni tremolanti sul supporto.
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Ora
fitte ed insistenti, a mo’ di trama o di merletto, come
per l’appunto in “Merletti e dolcetti” o in “Composizione
con cestino” e “Composizione con pennelli”,
ora diradate all’essenziale, quasi a dare il senso d’un
mistero desolante, come in “Sedia” o in “Interno
azzuro” o ancora in “Ombrellone”, le tracce
della Triolo ci conducono lungo un articolato percorso
esistenziale nel quale tutto ciò che per altri è
insignificante e sotto traccia assurge a un ruolo di
protagonista completo e assoluto. Una poetica delle
“minimalia”, ove scenari , strumenti del lavoro
e dell’agire giornaliero, abbandonata la sfera
oggettuale, divengono autonomi soggetti, animandosi di vita
nell’impasto dei colori.
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Sospesi
fra elegia e favola, talora declinati con una esuberanza
cromatica quasi gemmologica (il concretarsi materico dei
pigmenti rimanda in qualche caso alla tessitura
espressionista di Kokoscha), talaltra rarefatti fin quasi
alla dissolvenza ottica, i dipinti della Triolo ci parlano
dell’arcano irretente che anima le cose, invitandoci a
cogliere la nascosta bellezza permeante tutto ciò che ci
circonda e sottraendoci così a quel torpore estetico che
sempre più avvelena il viver quotidiano. (alla
galleria Elle Arte fino al primo marzo, a cura di Aldo
Gerbino)
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- SUL FILO DEI RICORDI
il teatro della memoria di Tino Signorini
La grafica come teatro della memoria, come simbolica ribalta su cui esporre le
sbiadite memorabilia di tutta unesistenza.
Sono proprio i ricordi, velati dalle brume del passato prossimo e remoto, la linfa vitale
cui ama attingere Tino Signorini.
Evocati dal grumo scuro della psiche e ordinati secondo unintima scansione
cronologica, in cui laffanno del lavorio degli anni cede a una meditatività pausata
e avvolgente, essi costituiscono i reperti dun mondo sommesso ed antieroico,
lungamente introiettato fino a depurarsi dogni vanagloria e falsa retorica. Una
autoanalisi da cui deriva una silente narrazione per immagini, ove il visibile
pare emergere a fatica dalle nebbie circostanti, quasi che il rimembrare riaprisse
vulnera a stento suturate dalloblio del tempo; di quel tempo
soggettivamente vissuto e percepito, che fa di ogni esperienza un unicum di irripetibile e
insondabile mistero.
Muovendo dal raffinato grafismo di Vespignani e dalle desolate atmosfere di Sironi, e
avvalendosi del prediletto e irrinunciabile contè, Signorini dà così corpo, con
eleganza rarefatta, a tutto il corteo di ombre (e di ubbie) albergate nei recessi della
mente. Il lirismo elegiaco cede il passo a un pathos misurato e minimale, ma di subitanea
immediatezza nella sua estrema penetranza. Non è un caso che del dramma esistenziale
Signorini offra il contesto (paesaggi urbani oscuri e solitari, muri screpolati, ingombri
tavoli di lavoro, battigie ventose), richiamando gli osservatori a un emotivo processo
immaginifico e quasi inducendoli a una completa immedesimazione simpatetica. I trapassi
chiaroscurali, le dissolvenze ottiche, gli avvolgimenti atmosferici, tutto contribuisce a
fermare il flusso degli eventi, a inchiodarne gli scenari in immagini sfocate, abrase dal
peso dun vissuto dai risvolti dolorosi e a tratti insostenibili.
Si spiega in questi termini il prevalere duna scurità di fondo, tutta
orchestrata su tonalità grigio-nerastre, solo di rado interrotta da improvvisi barbagli
coloristici. Una monotimia cromatica di tipo goyesco, capace di specchiare
fedelmente la saturninità di chi la ha concepita, senza mai eccedere, però,
in inutili tetraggini, mercè una sobrietà al contempo rigorosa e raffinata.
Così, sfrondati dogni superfluo orpello descrittivo e ridotti alla loro essenza
narrativa, i ricordi si profilano sui fogli come avvolti da caligini aeriformi,
baluginanti quali ectoplasmi nei gorghi delloblio. Interni di cucine sedimentati di
fumo, scorci fantasmagorici della Palermo vecchia, lo studio di via Castriota, gli oggetti
abituali del lavoro, muri erosi e dilavati di quartieri anonimi scorrono sotto gli occhi
degli osservatori, contribuendo a ricomporre il filo impercettibile duna irretente
biografia, il cui fascino magnetico risiede proprio nel suo essere anti-epos,
nel suo sostanziarsi di scenari comuni e quotidiani però trasfigurati in immagini
assolute e senza tempo.
In questo modo Signorini ci consegna la sua storia, una storia
senza squilli né fanfare, sempre sotto traccia, anche quando si sofferma a indugiare sul
biancore agghiacciante duna sagoma in un letto dospedale o allorquando giunge
al limen duna finestra forse volta verso il nulla. Finanche in certe
inaspettate accensioni di colore - di unarancia, di una pera, di una spiaggia
assolata -, che non rinnegano distimicamente lo spleen sottostante, ma lo
completano denotando una fisiologia della rimembranza punteggiata anche di frammenti di
maggior serenità, larmonica misura è fatta sempre salva, senza debordamenti
euforici di scontata mediterraneità e soprattutto senza piacionismi dettati
da tentazioni di mercato.
Un linguaggio - questo di Signorini - di grande austerità, ma non per questo meno vitale
di tanti altri fin troppo vitalistici. Una conferma del proprio essere ancor
vivo (perché la memoria personale e collettiva è il presupposto dogni
coscienza), consegnandosi così, da vero artista, allimmortalità.
Le opere di Tino Signorini saranno visibili alla galleria Elle Arte dal 22 al 30 gennaio.
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- COLLETTIVA Catalogo 2003
Pittura e poesia
- (fino all' 11 gennaio 2003)
Fra pittura e poesia cè da sempre un legame di simbiotica interdipendenza.
Quasi fossero le facce duna stessa medaglia, queste due discipline artistiche hanno
costantemente dialogato fra loro, ispirandosi a vicenda in un fertile rapporto di
reciprocità osmotica e facendosi spesso portatrici di stesse innovative istanze
estetiche.
E alla pittura vascolare attica, infatti, che si deve lestesa visibilizzazione
dei poemi omerici, così come è duopo ricordare la statura di poeta del sommo
Michelangelo o il ruolo visuale della poesia nella diffusione delle idee dei
futuristi.
Detto ciò, non vè dunque da stupirsi che la gallerista Laura Romano abbia deciso,
in occasione del Natale, di realizzare un calendario (pretesto per una mostra visibile
fino allundici gennaio) in cui associare pittura e poesia, come a confermare la
raffinata complementarietà di queste discipline.
Dodici dipinti di altrettanti artisti che hanno esposto in galleria nei mesi scorsi,
ciascuno dei quali corredato da una lirica dun poeta siciliano contemporaneo.
Sensibilità pittoriche diverse e talora antipodiche, ma tutte correlate da un unico filo
conduttore: un lessico dichiaratamente figurativo, seppure con declinazioni variegate e
altamente personali.
Si va dal vedutismo fotografico di Mario Mirabella jr. e dal pacato paesaggismo di Pascal
Catherine alle più nevrili dissertazioni sul tema - non scevre di dissertazioni
espressioniste - operate da Dieter Kopp, da Edwin Hunziker e da Aldo Pecoraino; e ancora,
si spazia dal soffuso intimismo borghese di Adriana Lanza a quello più mediterraneo di
Giovanni Schifani; dalla visionarietà graffitistica di Bice Triolo a quella fiammeggiante
di Josè Guevara; dal tratto graffiante e quasi caricaturale di Bruno Caruso a quello
estremamente attento e razionale di Gaetano Lo Manto.
Una panoramica, dunque, sulla produzione di alcuni dei più interessanti pittori (e poeti)
siciliani e stranieri, che della Sicilia hanno fatto o fanno la loro elettiva fonte di
ideazione; un piccolo (ma esauriente) spaccato degli apprezzabili esiti artistici cui il
senso dappartenenza alla nostra isola - prescindendo dallessere nativi o
dadozione - ha dato luogo negli ultimi anni e decenni.
Liniziativa è stata attuata con lapporto della fondazione Thule Cultura.
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