Elisa Montessori
Frammenti dall’Orto Botanico
10 dicembre 2004 – 4 gennaio 2005
 
acquarelli 2004
a cura di Stefano Malatesta.
In esposizione 35 acquarelli appartenenti alla più recente produzione della pittrice genovese che vive ed opera a Roma.
Nella lunga, ricca ed articolata produzione della Montessori, sia in ambito stilistico, sia in quello specifico della tecnica (dalle carte alle tele, dai mosaici ai preziosi libricini a tema, alle ceramiche), tutto testimonia la vivacità e l’eclettismo dell’autrice.
Orizzonti, montagne, colline, piante, paesaggi abitati da figure, ma anche da forme astratte, sono i temi ricorrenti delle sue opere che “...se si potessero attraversare, come in Alice nel paese delle meraviglie... ci troveremmo immersi in al di là dello specchio, in un mondo, che assomiglia a quello conosciuto, ma che, di fatto, non lo è, tanto è differente per bizzarria, stravaganza e fantasia.” (Barbara Tosi, La memoria del paesaggio e il paesaggio della memoria, 2001).
Dal 1951, anno della prima personale, ad oggi, numerose sono state le mostre collettive e personali della pittrice sia in Italia che all’estero.
Si ricordano inoltre le partecipazioni alla Biennale di Venezia del 1982, alla Biennale d’Arte di San Paolo del Brasile del 1983, alla Quadriennale di Roma del 1986, alla mostra d’arte contemporanea a Palazzo della Farnesina di Roma nel 2001.
Hanno scritto sul suo lavoro tra gli altri: Enzo Bilardello, Arnaldo Romani Brizzi, Laura Cherubini, Martina Corgnati, Mario de Candia, Nadia Fusini, Stefano Malatesta, Filiberto Menna, Dario Micacchi, Achille Bonito Oliva, Elisabetta Rasy, Anne Marie Sauzeau Boetti, Barbara Tosi, Paola Watts.
 
Ai visitatori della mostra sarà omaggiato il “CalendArte 2005”, calendario illustrato con le opere di Elisa Montessori e con testo di Stefano Malatesta e poesie di Valentino Zeichen.
 
                                                                                           
Testo di Malatesta:                                                                                                                                                  
LA DESCUBRIDORA
 
Quante signore abbiamo conosciuto, simpatiche e intelligenti, che dicevano di essere pittrici. E in realtà erano e intendevano essere restauratrici, disegnatrici di interni e di trompe l’oeil che lavoravano in vecchi palazzi per metà della loro giornata: un lavoro di pazienza e di meticolosità, a volte prezioso, aiutato da un inconfondibile buon gusto, rilasciato a piene mani quando si trattava di arredare la propria casa. E sempre con mobili orientali, pigiami orientali e cucina orientale. E quando erano costrette a pronunciarsi sullo stato di salute dell’arte contemporanea, che non seguivano bene e di cui avevano una conoscenza piuttosto indiretta, dicevano cose che sembravano sentite, ma vaghe, mai controcorrente, di genere ecumenico, per accontentare tutti. E avrebbero fatto qualsiasi cosa, pur avendo un temperamento non particolarmente esibizionista, per essere fotografate nei loro studi su una di quelle riviste di moda, dove facevano vedere le case più belle di “Lui” e di “Lei”.
Elisa Montessori è esattamente il contrario. Spero non vi farete un’idea sbagliata, andando nel suo bellissimo studio di via della Lungara, davanti ad una tazza di ottimo te, servito con tutto ciò che occorre. Quello è il momento in cui Elisa mette in mostra tutte le sue doti mondane e qualcuno crede ingenuamente che il suo talento sia circoscritto a quello che vede e che sente. E non si accorge che Elisa sta pensando ad altro, a come risolvere un passaggio, a come rendere ancora più trasparente il rosso e il giallo senza che l'acqua tracimi dai limiti fissati. E’ sempre da qualche altra parte, non perché si annoi quando qualcuno la va a trovare, o si rifiuti ad una conversazione di gruppo il cui tema principale è l'insulsaggine dei concetti appena dibattuti. Piuttosto perché l’artista sperimentale, e lei è una vera “descubridora”, quando avanza nella terra di nessuno non ha molto tempo da dedicare agli altri. Può dedicare l’affetto, quello si, ma non il cervello e le mani, la vera sede dell’intelligenza secondo i greci. E per essere sicuri di ritrovarla quando è sparita, la si può cercare in qualche zona di confine, borderline, mentre insegue soluzioni impossibili, in quello stretto spazio che esiste ancora tra il colpo di genio e la cazzata. E non è detto che si ritrovi sempre dalla parte giusta. E sto parlando, naturalmente, anche di piccole audacie, di dilemmi e scelte d’arte che non sono tra Roma e morte, ma piuttosto tra Roma e Orte, come diceva Longanesi. Ma qualsiasi tentativo, anche il più modesto, di uscire dal vagone piombato delle idee ricevute e di fare in modo che l’ingombrante treno delle cose viste venga deragliato e vada in malora, è sempre infinitamente meglio del copia copia generale che caratterizza una buona parte dell’arte contemporanea. E’ vero che questa graziosa attitudine al furto è riscontrabile in ogni epoca, ma oggi è molto più evidente perché il giorno dopo di una esibizione, cominciano ad arrivare i fax con le proposte sfacciatamente identiche.
Quindi state attenti a quell’aria svagata che spesso assume: è la conseguenza di questo stare altrove e maschera una determinazione e una convinzione in tutto quello che intraprende, così da renderla soavemente temibile. Una volta l’ho paragonata a Miss Marple, celeberrimo personaggio di Agata Christie, che sempre viene sottovalutata dall’assassino spietato, il quale poi però non riesce mai a cavarsela, quando c’è la gentile signora nei dintorni. E qualche giorno fa, nel suo studio, passando in rassegna gli acquarelli che doveva spedire a Palermo, mi è venuto spontaneo di dirle che aveva scelto una tecnica pittorica in qualche modo simile a lei. Perché tutt’e due, la tecnica e l’interprete, si presentavano alla gente, come diceva Tina Pica, con una messa in scena così ingannevole, che vale la pena di parlarne.
In Italia l'acquarello non ha mai avuto un maestro delle proporzioni di Turner in Inghilterra o di Klee in Svizzera e in Germania. Un po’ appesantiti dal peso di una meravigliosa, ma ingombrante tradizione, qui gli artisti hanno sempre preferito l’olio, dopo i magnifici secoli dell’affresco. A molti la leggerezza dei colori che contengono l’acqua, la loro superba trasparenza è sempre sembrato un difetto, in particolare per le opere grandi, ma anche per quelle di minore formato. Ed uno di quei luoghi comuni, di cui ti parlano prima, riguarda la presunta facilità di lavorare con l'acquarello: basta vedere che colori innalzano sul cavalletto i principianti nelle domeniche passate su una roccia di fronte al mare. Una volta ho parlato a lungo sull’uso dell’acquarello ad uno dei maggiori tecnici sul campo o sulla battaglia, un signore che ha abitato a lungo presso la mia casa di Trastevere e che poteva essere scambiato per una copia conforme del capitano Haddock, l'inseparabile compagno di Tintin nei fumetti di Hergè. Nella realtà il capitan Haddock - non l’ho mai chiamato in maniera diversa - rispondeva al nome di Eric Hebborn ed era il più bravo e prolifico falsario dell’area mediterranea. Quando pubblicò le sue memorie, qualche anno fa, in un libro intitolato “Troppo bello per essere vero”, in cui si raccontava come le case d’asta avessero comprato da lui centinaia di falsi da rivendere immediatamente sul mercato, lo scandalo fu enorme. Ma lui si divertiva a questo genere di polemiche e fece seguire un libro sfottente che si chiamava “Manuale del falsario”, in cui rincarava la dose.
Non eravamo veramente amici. Ma ogni tanto lo andavo a trovare, perché le sue storie sui falsi erano assolutamente esilaranti e combaciavano con altre storie che mi aveva raccontato, anni prima, il più grande scopritore di falsari, Pico Cellini. Gli avevo commissionato, per puro divertimento, due opere alla “maniera di”, due falsi insomma: un Hockney e un Klee. Hebborn accettò subito di dipingere il falso Hockney che non presentava alcuna difficoltà, come testualmente mi disse, il perfido. Quanto a Klee, era tutta un’altra cosa, perché dipingeva ad acquarello, difficilissimo da realizzare, contrariamente a quello che tutti pensano, e ancora più difficile da contraffare. E alla fine non se ne fece nulla, perché Eric morì improvvisamente cadendo dalle scale di casa, dissero, ubriaco (ma probabilmente lo hanno ammazzato e credo di conoscere anche le ragioni).
Elisa lavora all'acquarello in maniera molto diversa da Klee, che con tutta la sua leggerezza ha sempre antenati teutonici, altrimenti non ce l’avrebbe fatta a trasportare su tela o cartone tutto quel mondo, come contenuto in un acquario o nel liquido trasparente di una cellula e visto al microscopio. Elisa non ha questi patemi di linea e di controllo, lascia che l’acqua trasbordi e che vada in giro senza troppi controlli, lasciando molto al caso. Ma è un caso di cui è andata alla caccia o sulle tracce, come i grandi fotografi alla Cartier Bresson: anche loro si erano affidati al caso, ma in una maniera tale da incontrarlo, prima o poi. E nessuno ha mai avuto dubbi, guardando le sue opere, che anche questa volta l’imprevedibile e il non controllabile abbiano fatto il loro dovere.

(Stefano Malatesta) 

“L’ombra e la luce nel linguaggio della memoria cromatica”  
Collettiva a cura di Piero Longo
Singolare e bella collettiva, questa visibile alla galleria Elle Arte fino all'8 dicembre 2004.
Singolare e bella, non solo per la evidente qualità delle opere in esposizione, ma soprattutto per la varietà di stili, tecniche e linguaggi praticati dagli artisti che le hanno realizzate.
Se le collettive, infatti, hanno una finalità, essa consiste proprio nell’offrire una panoramica quanto più allargata possibile sulla produzione artistica attuale. Ebbene, in tal senso, questa piccola, ma articolata mostra si rivela inusitatamente in grado di fornire una visuale davvero assai ampia, garantendo agli osservatori una molteplicità di ottiche e di punti cardinali con cui orientarsi (o forse disorientarsi) a meraviglia nel contingente scenario su cui si esplicano le nostre arti visive.
Una dote che si percepisce con inesorabile chiarezza soprattutto nella predominante (all’interno di questo allestimento) pittura di veduta e di paesaggio, nei cui elastici perimetri è possibile confrontare a perfezione l’operato di artisti – siciliani e non – sintonizzati su lunghezze d’onda lessicali talora davvero del tutto contrapposte.
Ecco, allora, i delicati ed empatici paesaggi insulari di Pascal Catherine o le miniaturistiche vedute cittadine di Mario Mirabella jr. o, ancora, gli aerei e luminosi scorci di Palermo del romano Campi dialogare – fino ad una franca e apertamente conflittuale dialettica visiva – con le espressionistiche e acidamente dilavate (al limite dell’informale dissoluzione) “visioni” metropolitane di Croce Taravella o con i vibranti – per la declinazione “impressionistica” di luce e di colore – paesaggi isolani di Vincenzo Nucci o, infine, con la metafisica e surreale – per la meditativa e pausata “nocturnitas” che la pervade – paesaggistica di Caputo.
Analogamente, le caricaturali figure di Bruno Caruso, marcatamente deformate nel sembiante come a volerne enucleare l’intima natura psicologica, si trovano affiancate alle ectoplasmiche sagome di rete metallica realizzate da Gloria Argeles, le cui umbratili proiezioni – viceversa – evidenziano l’assoluta evanescenza dell’intera società.
Un continuo rovesciamento d’ogni prospettiva nel suo opposto speculare – quello offerto da questa collettiva – che trova ulteriori conferme anche sul versante apparentemente più quieto della natura morta, ove il graffitistico tratteggio da aracnide di Bice Triolo, coi suoi sfrangiati e caleidoscopici cangiantismi coloristici, pare contrapporsi idealmente al nitore calligrafico degli ironici “pacchi” di Giannici, riproposizione attualizzata – fra il pop e il surreale – di quei “trompe l’oeil” della pittura classica, che ancor oggi riescono a mettere in questione il nostro superficiale modo di percepire la realtà.

BIAGIO PANCINO 
Memorie 
(dal 6 al 20 novembre 2004)
Evocate dalle nebbie della storia, le immagini elaborate da Biagio Pancino ben cinquant’anni fa ci riportano a un passato nemmeno tanto remoto, ma dal quale pare separarci la distanza siderale frapposta dal benessere economico degli ultimi decenni.
Le raffinate chine di Pancino narrano infatti d’una Italia contadina, prostrata da atavica miseria e soggiogata da un immutabile destino, il cui ricordo pare ormai essersi sbiadito nei rivoli dell’imperante cultura consumistica che tutto omologa e cancella irrimediabilmente.
Eppure, le scene di duro lavoro campestre, i volti dei braccianti alterati dalla fatica quotidiana, le fisionomie segnate dal dramma della disoccupazione, i cortei di scioperanti costituiscono i segni tangibili d’una temperie che ha lungamente contrassegnato il nostro paese, e che in particolare ha connesso Veneto (regione natale dell’artista) e Sicilia in una comune e avversa sorte di dolorosa emigrazione.
Quanti oggi ricordano le aspre lotte inscenate dai braccianti del sud-Italia per ottenere il ridimensionamento di feudi e latifondi e la conseguente redistribuzione delle terre fra i lavoratori?
Quanti rammentano i nomi dei tanti sindacalisti – uno fra i tanti, Placido Rizzotto – che furono uccisi dai campieri mafiosi di baroni e possidenti per il mantenimento a oltranza dello status quo?
Ebbene, queste figure, schizzate con mano giovanile ma gesto già maturo dall’allora ventenne pittore sanstinese, ancor prima che valenti espressioni di qualità artistiche, costituiscono una fondamentale testimonianza storica, in grado di ricondurre finalmente alla memoria quanto rimosso per distrazione, ignoranza o semplice superficialità.
Un documento, innanzitutto, e per altro assai coerente con l’impegno politico e civile ampiamente profuso da non pochi altri artisti in quei tempi di intensa conflittualità ideologica e sociale (si pensi ai coevi dipinti di Guttuso, di Migneco o Giambecchina, o ancora ai disegni di Caruso).
Ciò che però contraddistingue queste opere, rendendole in qualche modo uniche, è il tono assolutamente antiretorico e del tutto esente da quegli squilli o accenti di sapore propagandistico, frequentemente riscontrabili in tanta pittura di analoga tematica.
Sarà per l’euritmica adozione del rigore binario del bianco e nero, sarà per la misuratissima sintesi di tratto o per lo spoglio assetto compositivo, ma sta di fatto che queste chine mantengono intatta la loro freschezza visuale e soprattutto la penetranza del “messaggio” politico di cui erano vettrici. Nessuna eccessiva ridondanza, nessun pleonasmo estetizzante e fuori luogo, quindi, bensì una assoluta secchezza di eloquio, capace di restituire con poche e pertinenti pennellate l’intera drammaticità d’una sfavorita condizione psicologica e socio-esistenziale. Il tutto, con una intensa partecipazione solidaristica e con un giovanile entusiasmo, frutti certamente d’una qualche infatuazione ideologica (dovuta ai legami con l’intellettuale militante del luogo, il poeta Romano Pascutto, cui i giovani di San Stino guardavano attentamente), ma sempre e comunque in un’ottica di estraneità a quegli obblighi “realistici” di stampo socialista (tanto cari all’arte sovietica od ai noti orientamenti togliattiani), in virtù della quale queste opere conservano ancora un’assoluta ed incorrotta attualità.
Ciò che resta, dunque, dopo cinquant’anni, è l’intonso valore di documento storico ed artistico, in grado di incrinare la “damnatio memoriae” che avvolge quegli eventi e al contempo di attestare la qualità d’un gesto e d’una inventiva che, nei decenni successivi, avrebbero dato ulteriori e sempre nuove conferme (di tipo informale e concettuale) della propria immaginifica e irrefrenabile vitalità.

 


 
GIACOMO  ANGILETTI 
Fra idillio ed elegia 
Colorista morbido e avvolgente, Angiletti ha nel pastello il suo elettivo mezzo d’espressione.
Proprio il pastello, infatti, con la sua stesura impalpabile e aeriforme, si rivela funzionale ad una espressività delicata e senza eccessi, tutta tesa a enucleare e rendere al meglio la componente più affettiva d’ogni rappresentazione.
Non è un caso, quindi, che egli rivolga ai soggetti naturali di tipo paesaggistico la sua attenzione prevalente, quasi a ribadire l’impareggiabilità di questa tecnica – il pastello per l’appunto – nella resa della più minima vibrazione luministica o declinazione di colore. Quella luce e quei colori tipicamente mediterranei, che Angiletti coglie con perizia e senza enfasi cristallizzandoli in estese azzurrità di cieli ed acque (Spiaggia), nel verdeggiare di vasti campi (Campagna in primavera) o nell’accendersi di messi rigogliose (Grano al vento), il tutto in un prevalere di armonici trapassi tonalistici atti a restituire all’osservatore quella dolcezza della natura insulare assai spesso negletta in favore d’una visione troppo estroflessa e riverberante.
La stesura sempre levigata e quasi serica, nella quale il nostro artista eccelle (riproponendola peraltro, benché con minor intensità, anche nella pittura ad olio), pur indugiando in effetti di amalgama smaltata e in virtuosismi coloristici, e pur essendo per lo più finalizzata ad un paesaggismo di tipo fotografico – però stemperato in dissolvenze trasognate – che si inscrive in una tradizione autoctona plurisecolare, sfugge sempre, tuttavia, ad esiti di stucchevolezza o di tedioso deja vu, in virtù della percepibile empatia che guida il pittore calatino nel suo rapporto coi soggetti da ritrarre. E che Angiletti ami la natura siciliana e riesca a dar corpo, coi colori, a questo amore è cosa, infatti, che si percepisce chiaramente osservando i suoi dipinti. Il che riscatta il suo linguaggio figurativo dai comuni rischi dell’ovvio e risaputo, restituendoci un artista in grado di rilanciare la pittura di paesaggio e di veduta in termini di sicuro fascino e credibilità. Una dote che gli va riconosciuta e che lo distingue dai tanti, troppi figurativi insulari (e non) incapaci di uscire dai recinti dei più facili cliché. vai alla scheda personale di Salvo Ferlito
 
Alla galleria Elle Arte dal 16 al 30 ottobre 2004  

RENATO TOSINI
L'ombra e lo specchio 
(dal 24 maggio all'11 giugno 2004)
 
Partire con il sogno
La nostalgia è il sentimento ricorrente in chi avverte la perdita di un’armonia pregressa.
Un sentimento che Renato Tosini conosce assai bene, avendone fatto la forza propulsiva del proprio fare artistico.
Il suo “spleen” elegante e raffinato nasce infatti da quell’intimo rovello che si nutre dell’acre ubbia d’aver perso non soltanto “quel che è stato”, ma ancor più “tutto quel che non è stato (e che avrebbe ben potuto essere)”.
Una sorta di elegiaco “panta rei” – per dirla con Eraclito –, però inteso come impossibilità assoluta “di reimmergersi in un fiume” nel quale in più di un caso “non ci si era mai bagnati”.
Sarà forse per questo, che nei suoi ultimi dipinti quel metodico proceder “per levare” pare essersi ormai spinto alle estreme conseguenze, riducendo il colore a un’essenza diafana e leggera, liquidamene trasparente nella sua resa rarefatta
ed atmosferica. Una pittura quasi fantasmatica, quindi, ma non per questo afasica; anzi ancor più penetrante, ad onta d’un eloquio assai sommesso e tutt’altro che gridato.
Personaggi e situazioni sono in fondo quelli di sempre, ma è il tono delle “storie” – Tosini ama definirsi uno “scrittore di quadri” – ad apparire più introflesso e melancolico.
I soliti borghesi pingui e calvi – senza dubbio una proiezione soggettiva dell’autore, nonchè sua indiscussa e peculiare cifra stilistica –, elegantemente abbigliati con grisaglia d’ordinanza e ossessivamente seriali nella loro uniformità somatica, sembrano infatti essersi spogliati delle armi reattive dell’attonito stupore e della stridente regressione nel mondo dell’infanzia, quasi avessero ceduto a un delirio solipsistico, testimone della resa all’urto del reale.
Non sono più i balocchi – barchette a vela, aquiloni, trottole e tricicli –, dunque, a fare da ironico e surreale contrappeso alle mostruosità del mondo circostante (alla cui edificazione però si è dato un decisivo contributo), ma una bottiglia di liquore in cui annegarsi rievocando le atmosfere de “L’assenzio” di Degas.
Il bambino troppo cresciuto (o più propriamente mai cresciuto), raffigurato abitualmente da Tosini, si è infine dissolto in un adulto disperso nella plumbea solitudine metropolitana o inanemente ripiegato a vergare sulla sabbia effimere parole destinate alla cancellazione.
E pur tuttavia, la poetica sottesa a quest’ultimi dipinti è la stessa di quelli precedenti. Lo sbiadimento coloristico e la riduzione degli abituali riferimenti architettonici (quell’edilizia leviatanica e incombente eletta ad incarnare l’orrore della contemporaneità) non negano infatti in alcun modo l’abituale e pungente vena d’ironia; piuttosto ne amplificano quell’amaro retrogusto in cui risiede la grandezza narrativa di Tosini.
La ricorrente presenza dell’elemento acquoso, a legare simbolicamente le opere di ieri a quelle odierne, conferma
l’assenza di cesure e delinea la naturale evoluzione del linguaggio dell’autore. Quello del mare quale “eu-topos”, quale ideale luogo d’ogni vera libertà, ove intraprendere il “viaggio” che potrebbe riscattare dal giogo esistenziale, è pertanto un comune filo conduttore dell’intera produzione di Renato.
Ma le barche, oggi come ieri, rimangono alla fonda o arenate sulla spiaggia. Il “viaggio” è ancora rimandato a un domani indefinito; poiché “Partire” si può solo “con il sogno” e la vita – pare ricordarci Tosini – si finisce col trascorrerla come asini alla macina, sottomessi a un ineffabile (e in fondo comodo) non sense.

 

 


PETER  BARTLETT
Da un'isola ad un'isola
(dal 7 al 21 maggio 2004)
(pastelli, oli, tempere, acquarelli)
Luce e colore sono quelli tipici del Mediterraneo. E lo sono anche i soggetti, con le loro esplicite suggestioni “orientaliste”.
La pittura di Peter Bartlett costituisce infatti l’ennesima conferma di quali nuove prospettive possano aprirsi nell’immaginario di un pittore nordico al contatto con la natura e l’arte della Sicilia.
Nel suo “grand tour” personale, che lo ha portato a lasciare l’Inghilterra per trasferirsi definitivamente in terra di Toscana, non poteva certo mancare l’esplorazione della “Trinacria”, quasi a segnare un simbolico (oltre che geografico) punto di non ritorno e quindi di ripartenza nel proprio fare artistico.
Ripartenza che non consiste – riteniamo – nel solo accendere le tele di barbagli coloristici – esito cui si giunge facilmente rimanendo a casa propria e guardando all’operato delle avanguardie storiche –, ma riuscendo a stabilire un rapporto di intensa empatia con l’ambiente che si osserva (la Sicilia, nello specifico) fino a coglierne gli umori più profondi.
Non è un caso, per tanto, che Bartlett si soffermi sulle vestigia – artistiche e naturali – della dominazione araba (e dei suoi cascami in epoca normanna), percependo il loro essere un compiuto paradigma della sicilianità. Palme, rimandi alle euritmie geometriche degli arabeschi, richiami architettonici e soprattutto quel senso estetico della vivace composizione di cromie (che caratterizza l’offerta delle merci nei bazar arabi e nei mercati insulari) affollano le carte del pittore inglese, restituendo al riguardante l’essenza e le atmosfere di un contesto vissuto con la pienezza del corpo e della mente.
Genoardo, Arabis, Salsibal, Estasi notturna, Andante Palermitano, con il loro tono affabulatorio da “Mille ed una notte”, testimoniano dunque d’una profonda e completa comunicazione affettiva ed intellettuale con un ambito pregno di storia e di cultura, dal quale trarre spunti e suggestioni con cui intessere una raffinata narrazione per immagini.
Un percorso conoscitivo – quello “da un’isola ad un’isola” – che, andando ben oltre i semplici aspetti di formazione artistica, si fa mirabile metafora d’una intensa esperienza esistenziale.
Il catalogo della mostra si avvale d’un contributo critico di Tommaso Romano.  

 


ROSSANA FEUDO
(dal 14 marzo al 6 aprile 2004)
 
A cavallo dei mesi di marzo e aprile 2004 si è svolta alla galleria Elle Arte (via Ricasoli, 45) la mostra della pittrice romana Rossana Feudo che è tornata ad esporre le sue opere a Palermo dopo una assenza di circa due anni.
Nell’ambito di una stupefacente invenzione onirica, la pittrice ha presentato opere realizzate con una tecnica raffinata derivata direttamente dalla maestria dei grandi artisti del Rinascimento italiano.
La definizione, data da Claudio Strinati in catalogo dell’arte di Rossana Feudo, interpreta le sensazioni più immediate che suscitano le sue tempere. “Il mondo magicamente sospeso”, di cui scrive Strinati, è evidente nelle opere della pittrice che si richiamano ai miti classici e a un incantamento giocato sulla fissità dello sguardo di bambine come bambole dell’Ottocento e di donne di una bellezza canoviana che popolano le sue tavole.
In realtà, c’è una mano felice dietro ogni dipinto perché ogni dipinto, prima di essere fermato con i pennelli e con i colori, è elaborato da un pensiero speculativo di grande spessore. L’innato istinto e una applicazione costante hanno portato la pittrice ai vertici di oggi.

Giuseppe Quatriglio

 
Il bel viso androgino ruotato verso l’osservatore, quasi a coinvolgerlo, con lo sguardo ambiguo e misterioso, in un sottile gioco di seduzione. Come la “Fanciulla con la perla” di Vermeer, il personaggio ritratto in “Masquerade” da Rossana Feudo appare infatti avvolto da un arcano insondabile che lo eterna in una dimensione atemporale. Abbigliato secondo la moda olandese del ‘600 – seppur in maniera più vezzosa, senza il tipico rigore protestante –, con la gorgiera tratteggiata con fiamminga precisione, questa figura (in cui convergono, fondendosi, il maschile e il femminile) conferma il singolare talento dell’autrice, tecnicamente impeccabile nell’uso della tempera su tavola (rinnovando così un uso squisitamente rinascimentale) e profonda conoscitrice dell’arte di altri tempi.
La Feudo – le cui opere tornano ad essere esposte, a due anni di distanza, alla galleria Elle Arte – non è dunque, come qualcuno potrebbe erroneamente credere (alla luce della sua attività di restauratrice), semplicemente una pittrice animata da una filologica pulsione “antiquariale”; perché nei suoi dipinti la lezione dei grandi artisti del passato – benché studiata attentamente – è solo lo spunto di partenza per articolate e raffinate riflessioni condotte all’insegna d’un notevole spessore psicologico.
E’ l’ambiguità, infatti, la nota dominante dei suoi ritratti femminili. Siano essi di matrice tipicamente rinascimentale o di palese ascendenza simbolista (con una ostentata preferenza per i preraffaelliti), da essi promana sempre un fascino misterico e inquietante, tipico di chi racchiuda in sé l’angelico e il diabolico. Ecco allora la “Minerva di Thule” – dipinta di profilo e dotata di elmo e corazza come un condottiero verrocchiesco-leonardesco – emergere col suo eburneo candore dall’oscurità dello sfondo, con un sembiante incerto e sospeso fra mascolina marzialità e muliebre languore. Oppure il “Cherubino”, la cui ascetica dolcezza appare, qui e là, maliziosamente venata d’un languido abbandono, degno più d’un “erotino” classico (o manieristico) che d’una sacra immagine.
Ma è in dipinti quali “Apparizione” e, soprattutto, “Ragazza e rose”, che la pittrice romana raggiunge l’acme della sua raffinata tecnica e della non comune capacità di inquietare. Effigiate come divinità silvane – affioranti da un fitto e scuro fogliame – o come svenevoli fanciulle ottocentesche – in un profluvio di rose policrome –, le bellezze della Feudo suscitano immancabilmente una sorta di amor fati, incarnando alla perfezione il mito simbolista della donna angelicata che, sotto mentite spoglie, cela una mantide (o un vampiro) in grado di irretire e poi distruggere. Vengono alla mente le parole di Oscar Wilde: “Le donne perverse ci tormentano. Le donne buone ci annoiano. Ecco la differenza fra di esse”.
Una differenza che, però, Rossana Feudo è riuscita abilmente a mascherare.
                                                                                                                            
                                                                                                                     Salvo  Ferlito

MARIO BARONE
" NUVOLE " 
 
Dal 20 febbraio 2004.
Nuvole in fuga verso un altrove non meglio definito.
Addensate in grigi cumuli o disperse e rarefatte sull’intonsa superficie cartacea dei supporti, le nuvole dipinte da Mario Barone paiono infatti procedere per autonome cinetiche inerziali di matrice intrapsichica, di fatto estranee all’impetuoso agire di qualsivoglia forza “naturalmente eolica”.
Quello naturalistico è dunque un semplice pretesto; un presupposto narrativo, dal quale il nostro pittore ama idealmente muovere nei suoi percorsi immaginifici di progressivo straniamento dall’ambito “terreno”, evidentemente vissuto come troppo angusto e costrittivo. Gli “aerei” paesaggi che ne sono scaturiti hanno pertanto una preminente valenza allegorico-simbolica, davvero in grado di travalicare il mero dato percettivo e fotografico, in funzione dell’esclusiva proiezione dei vissuti affettivo-emozionali.
Si spiega in questi termini l’adozione assai frequente di orizzonti ribassati – incombenti su più o meno cupe azzurrità marine o su grigi profili rocciosi appena ravvivati da cespugli –, grazie ai quali lo stacco ascensionale delle nubi assume una evidenza ottica (e soprattutto metaforica) ancora più marcata. In tal modo, Barone pare voler guidare il nostro sguardo all’interno d’un paesaggio (perché, in fondo, d’un unico paesaggio si può parlare, sebbene declinato in molteplici varianti) che è innanzitutto “panorama interiore” (della psiche o dello spirito, a seconda delle ottiche), però riportato nei modi e nelle forme dell’apparente ossequio alla natura.
In tal senso, la scelta di un linguaggio aeriforme e rarefatto, supportato da una tecnica adeguata (ovvero da un acquarello tonalmente diluito su ampi spazi, coi pigmenti stesi a macchie in maniera anche discontinua), si rivela pertinente e funzionale al coinvolgimento (sensoriale e cognitivo) degli osservatori, magneticamente richiamati all’interno di un contesto più intimistico e soggettivo, che strettamente materiale. Un lessico non estemporaneo ed immediato, ma maturato per lenta e progressiva decantazione del colore, altrove – per l’esattezza in opere pregresse – dispiegato con inusitata compattezza e intensità.
Anche in quelle gouaches, in vero, la fedeltà vedutistica al paesaggio non era che un puro espediente per dissertazioni eminentemente simboliche e tendenzialmente astratte, dovute al comporsi quasi geometrico delle spesse campiture o a sfrangiamenti timbrici simil-divisionisti. Tuttavia, procedendo qualitativamente “per levare” da questi precedenti, quindi sottraendo densità ed estensione alle cromie ed alleggerendo il tutto fino a renderlo impalpabile, Barone ha dimostrato di potere pervenire a una pittura aerea e trasparente, al contempo essenziale e rigorosa, dotata di puro incanto ma senza cedimenti liquorosi, e in qualche modo “universale” nel suo essere assolutamente refrattaria a qualsivoglia tentazione di esasperata mediterraneità.
E questo, grazie ad un percorso al quale non sono indifferenti profonde riflessioni sulla grande paesaggistica anglosassone dell’ottocento – Turner in special modo – e forse anche sui precursori olandesi del seicento – van Ruysdael per esempio –, dai quali il nostro autore ha saputo mutuare quell’afflato – già precontemporaneo – alla rappresentazione simbolica dell’interiorità, idealmente proiettata su più o meno fosche turbolenze cirro-nembiche. Iter – quest’ultimo intrapreso da Barone – di certo non concluso e al quale, nonostante le legittime aspirazioni alla ricerca di sempre nuovi moduli espressivi, è auspicabile che egli dia ancor più impulso e continuità. Il parallelo uso degli acrilici su tavola, infatti, pur avendo gradevoli esiti cromatici e pur perseguendo analoghe finalità allegoriche (ben evidenti soprattutto nei notturni), ha però minor valenza immaginifica, poiché più prossimo a tanto paesaggismo “mediterraneistico” in cui – purtroppo – non è infrequente imbattersi.
E’ dunque nella spoglia e leggiadra sobrietà di queste nuove carte, che si dispiega appieno la “poetica” visione del nostro Mario; è proprio in quei cieli annuvolati, nei quali ama rifugiarsi il suo io irrequieto e in continuo movimento, che la pittura di Barone va assumendo la sua cifra più compiuta e definita, rivelando quelle fini doti liriche in grado di rappresentare congruamente ogni minimo moto che agisce nel profondo.


RITRATTO DI CASIMIRO PICCOLO
Acquerelli e fotografie inediti
fino al 16/2/2004
Della famiglia Piccolo di Calanovella il più noto è senza dubbio Lucio. Poeta, uomo di cultura di rilievo nazionale ed internazionale, cugino di Tommasi di Lampedusa, cui lo legava anche il comune interesse per le lettere, Lucio Piccolo ha incarnato alla perfezione il  modello dell’aristocratico eccentrico ed intellettuale, estraneo alle meschinità del mondo e disinteressatamente dedito alle attività artistiche.
Assai meno conosciuto, ma non per questo meno valido  od interessante, è l’operato del fratello Casimiro, il quale è stato un buon fotografo ed acquerellista, e soprattutto uno straordinario disegnatore.
Se nella fotografia – pratica per altro molto diffusa nelle classi egemoni dell’epoca – gli interessi paiono orientati verso “classiche” tematiche naturalistico-botaniche (fiori, agavi) ed etno-antropologiche (contadini, zampognari, carusi-operai), quest’ultime trattate con un piglio scarsamente sociologico – tipico, purtroppo, dei nostri aristocratici – e tendenzialmente bozzettistico-veristico, nella pittura, invece, l’immaginazione di Casimiro Piccolo pare librarsi con originale inventiva fabulistica, sconfinando nei territori del magico e del fantastico.
Infatti, accanto a una produzione paesaggistica decisamente più scontata e a qualche piccolo ritratto coerente con i suddetti gusti fotografici (da cui si discosta solamente, per la qualità intimistica, un’immagine di Teresa Tasca Filangieri, colta di spalle intenta a lavorare), è la serie di piccoli e deliziosi disegni colorati ad acquarello, raffiguranti elfi, maghi e vari personaggi, a costituire – senz’ombra di dubbio – il meglio della pittura del nostro nobiluomo.
Anticipando di molti decenni le atmosfere “potteriane”, oggi così in voga, l’artista siciliano ha saputo infatti dare forma delicata ed elegante – senza quindi scadere in una visionarietà macabra od orrorifica – ad un universo misterioso ed esoterico, del quale, sensitivamente, egli avvertiva il murmure sommesso ma vivace.
D’estrema raffinatezza grafica, riccamente colorati con morbidi effetti di trascoloramento atmosferico, tratteggiati con gusto gradevolmente caricaturale, questi piccoli personaggi rappresentano per tanto la migliore testimonianza d’una poetica incantata e visionaria, al contempo canto del cigno e simbolico ultimo rifugio d’una sensibilità aristocratica probabilmente già consapevole dell’inarrestabile declino del proprio mondo. In tal senso, essi costituiscono l’imperdibile documento visuale d’una era ormai conclusa – quella del predominio baronale – che, pur fra i tanti guasti arrecati alla società, ha fortunatamente saputo anche lasciare valide vestigia, degne di profonda ammirazione.

 

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