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- Galleria
Mediterranea
- Via Mariano D'Amelio, n.12
- Palermo
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L’UOMO
DELLA FOLLA
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dal 28 settembre al 24 novembre
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La solitudine e l’alienazione
metropolitane come cifre dell’inquieta
dimensione esistenziale dell’uomo
contemporaneo.
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E’
questo lo stato di nevrosi che contraddistingue la
convulsa quotidianità
de L’uomo
della folla,
l’angosciante
personaggio nato dalla penna di Edgar Allan Poe più
di centocinquanta anni fa, presaga e pertinente metafora
di quel senso di sperdimento e di desolazione di cui
è
spesso preda chiunque viva negli scenari urbani d’oggigiorno.
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Proprio l’esigenza
compulsiva di allontanarsi rapidamente dalle vie meno
battute e più
isolate, all’ansiosa
ricerca di strade e viali affollati e popolosi,
–
così
lucidamente raccontata dallo scrittore americano
–
è
senza dubbio uno dei tratti
“sintomatici”
del coattivo (e patologico) viver quotidiano di milioni di
individui urbanizzati in tutto il mondo. La città,
dunque
–
e non a caso
–
è
il contesto elettivo in cui detonano incontrollabilmente
le ubbie e i timori più
riposti e disturbanti, e tutto ciò
per quelle caratteristiche strutturali di
“comprimente
contenitore”
che la connotano dal suo lontano incipit e che ne fanno un
ben congegnato strumento di induzione e condizionamento
dei comportamenti individuali e collettivi. L’essere
–
ab origine
–
luogo di concentrazione e di inquadramento di masse con
evidenti finalità
di controllo sociale ed organizzazione produttiva; il
rappresentare un fattivo mezzo di potere mediante il quale
operare
“strutturalmente”
un’attribuzione
dei ruoli e una disciplina delle dinamiche dei singoli e
dei gruppi; l’esprimere
formalmente le idealità
delle
élites
e delle classi dirigenti con l’intento
di celebrarne la capacità
di definizione del corpo sociale (e quindi la volontà
di potenza con cui incidere nel corso della storia) sono
tutte caratteristiche fondanti e costitutive dei modelli
urbani sin dalla più
lontana antichità,
alle quali va ascritto quell’intrinseco
potere di coercizione dell’identità
individuale (in favore d’un
millantato e assai presunto modello di funzionale socialità,
di fatto calato dirigisticamente dall’alto
e non frutto di una progettualità
collettivamente condivisa), da cui discende
–
in concreto
–
l’insieme
di paure e di nevrosi palesemente distintivo della
condizione di minorità
dell’uomo
urbanizzato in ogni periodo storico e ad ogni latitudine.
-
Basterebbe dare una lettura a certe
valutazioni fatte da Seneca e da Giovenale in riferimento
alla pessima qualità
della vita in alcuni quartieri popolari dell’antica
Roma (quelli ove si ergevano le famigerate
“insulae”,
gli edifici
“contenitore”
tristemente precursori degli attuali condomini), con la
loro diuturna ed alta rumorosità,
con l’assenza
di acqua corrente (da cui l’obbligato
ricorso alle terme), col continuo rischio di incendi, in
uno stato di perenne sovraffollamento e in preda a miasmi
d’ogni
tipo, per comprendere a pieno come la dimensione
esistenziale del cittadino medio sia sempre stata
fortemente perturbata e sottoposta a un logorio ai limiti
dell’invivibilità.
Una situazione che in effetti non
è
di molto migliorata nel corso dei millenni, e che per
certi aspetti
è
addirittura peggiorata negli ultimi tre secoli, nonostante
l’impetuoso
e notevole sviluppo delle scienze e delle tecnologie. Il
progressivo incrementarsi
–
dal
‘700
in poi, con l’innesco
della rivoluzione industriale
–
dei fenomeni di inurbamento forzato di masse contadine, in
relazione alla velocizzazione dei processi produttivi ed
all’aumento
degli scambi mercantili e delle transazioni finanziarie,
ha infatti determinato un’estensione
ed un’accelerazione
tutt’altro
che virtuose dei meccanismi di urbanizzazione, portando ad
un ulteriore aggravamento del senso di inadeguatezza e di
alienazione di tutti quei soggetti meno capaci di
integrarsi nelle strutture morfo-funzionali del sistema.
Ciò
ha condotto, inevitabilmente, all’accentuarsi
dei fenomeni di inclusione ed esclusione all’interno
del tessuto urbano, dilatando le distanze fra le classi
sociali e causando delle crescenti dinamiche di
marginalizzazione, con una vera e propria distribuzione di
tipo socio-topografico sul territorio. Dalla città
a strati
–
già
classista e tuttavia in grado di legare, seppur per mera
contiguità,
cittadini di differente estrazione
–
si
è
passati ad un impianto urbanistico a macchia di leopardo
(con gli abitanti assortiti per quartiere in base alle
affinità
di censo e di costume), tendente a
“perifericizzare”
sempre più
gli esponenti dei ceti subalterni e sottomessi. Un
andamento i cui esiti sono palesi in tutta la loro
violenta
“pressione
selettiva”,
come del resto ampiamente dimostrato dagli assetti delle
grandi città
contemporanee, con i loro centri radicalmente
“gentryfgicati”
(cioè
depurati della stabile presenza di elementi della working
class e omologati nella loro architettonica scenografia e
nel loro lindo ed esibito ordine) e con le periferie
ridotte a dormitori o a sentine sociali (e questo ad onta
dell’intervento
di grandi architetti ed urbanisti, di fatto responsabili
di autentiche operazioni di segregazione, come allo ZEN di
Palermo o alle Vele di Scampia, a Librino a Catania o
nelle varie banlieue d’oltralpe),
in ottemperanza a spinte centripete e centrifughe impresse
secondo drastici criteri di darwinismo sociale e di
estremismo pragmatista. Da tutto ciò
non poteva che derivare un forte senso di insicurezza e di
precarietà,
e conseguentemente una condizione psichica di tipo
compulsivo, tendente a indurre la spasmodica ricerca d’una
pur minima parvenza di relazionalità,
sì
da poter fugare
–
almeno temporaneamente
–
il panico da isolamento e alienazione e da poter
–
contestualmente
–
diluire (e in certo qual modo anche annullare) la propria
identità
in quella del gruppo, ponendo in essere quelle
“rassicuranti”
dinamiche di omologazione che sono uno dei caratteri
distintivi (e assai inquietanti) delle masse nelle
–
cosiddette
–
società
avanzate.
Non si tratta più
del modello relazionale tipico dei borghi o dei piccoli
centri, tutto basato (non senza aspetti e componenti
sgradevoli) su una struttura portante di natura familiare
e su rapporti di mutuo soccorso propri del vicinato,
quanto piuttosto di un modulo improntato al paradosso del
continuo rischio di isolamento pur in presenza d’una
vasta moltitudine, in conseguenza di quell’impianto
marcatamente monadico dello stile di vita cui spingono le
stesse strutture urbane e i processi economici in esse
albergati. Se la grande città
può
offrire scenari impensabili a chi
è
sempre vissuto nella
“stabilità”
del mondo contadino (e quindi del villaggio o del borgo),
consentendo e offrendo occasioni di dinamismo sociale e di
emancipazione altrove irrealizzabili (da cui l’eccitazione
per la vita metropolitana di poeti come Baudelaire o di
pittori quali gli impressionisti),
è
anche vero che gli enormi conglomerati urbani formatisi
negli ultimi due secoli possono configurarsi come dei veri
e propri inferni, ove
–
come analizzato da Marx o raccontato da Dickens e più
recentemente da Pasolini
–
consumare il definitivo annullamento dell’Io
in una indistinta disidentità
e andare incontro a forme di neo-servitù
(precarietà
lavorativa, lavoro nero, continuo ricorso ad espedienti,
sconfinamento nell’illegalità
e nella criminalità)
ben più
gravose e annichilenti che in passato, proprio per la
mancanza di una adeguata rete relazionale che possa
fungere in qualche modo da sistema protettivo.
-
Proprio questa irrisolta ambiguità,
questo essere al contempo schiacciante e incombente
leviatano e presunto catalizzatore d’ogni
possibile crescita sociale, ne ha fatto l’oggetto
insistito di analisi acute ed impietose, condotte non
soltanto da
“addetti
ai lavori”
(urbanisti, sociologi, economisti, antropologi, psicologi
e psichiatri) ma anche da artisti assai lungimiranti (come
il nostro E. A. Poe) che da almeno centocinquant’anni
scandagliano ogni possibile risvolto della vita cittadina,
enucleandone gli aspetti più
sgradevoli, inquietanti e controversi. Basterebbe qui
ricordare il rilevante contributo visuale offerto dalla
pittura (dai già
citati impressionisti a Toulouse Lautrec e Daumier, da
Ensor a Grosz e Dix, da Hopper a Sironi, con le loro
graffianti e stranianti narrazioni per immagini) e più
di recente dalla fotografia (da quella americana della
grande depressione a quella cosmopolita di Cartier Bresson)
e dal cinema (da Metropolis di Fritz Lang a
Blade runner di Ridley Scott, per citare qualche
esempio illuminante), per cogliere a pieno le potenzialità
analitiche (e profetiche) insite nelle arti visive e
quindi per comprendere le ragioni alla base di una mostra
che proprio da L’uomo
della folla
di Allan Poe prenda l’innesco
ispiratore e il tema unificante.
-
Ecco allora il brulicare formicolante e
indistinto della folla in una antica piazza cittadina
(nello specifico la palermitana Vucciria), il suo
molecolare e casuale interagire intorno ai banchi d’un
mercato in una sommatoria massificante di individui,
venire scandagliato da Croce Taravella col proprio
peculiare linguaggio vedutistico, come a restituire
idealmente gli scenari evocati da Poe e ad inquadrare la
stretta interrelazione fra la cogenza delle architetture e
l’omologazione
delle moltitudini. Una interazione fortemente
“costrittiva”,
quella fra metropoli e abitanti, di cui dà
parimenti conto Gaetano Costa, i cui personaggi
“in
esterni”
paiono muoversi
–
non a caso
–
come in preda ad una materica decomposizione di facies e
soma, a testimonianza di quell’ingravescente
disfacimento dell’Io
psico-sociale, irreversibilmente indotto dall’imponenza
leviatanica e dal potere fagocitante della dimensione
cittadina.
-
Le dinamiche incalzanti del viver
quotidiano, i frenetici ritmi dettati dalle esigenze
produttive, la redditività
come misura prevalente dell’immagine
sociale, agendo come strumenti di
“filtro
selettivo”,
finiscono con l’innescare
inevitabilmente spinte inerziali di marginalizzazione,
confinando gli individui in ambiti di minorità
da cui
è
assai difficile riemergere e nei quali il contatto umano
è
solo alienata condivisione d’una
subalternità.
Così
uno squallido vagone della metropolitana diviene l’obbligata
sentina di annichilite solitudini; contenitore di persone
senza nome e senza storia, di cui la millimetrica matita
di Antonio Miccichè
restituisce l’agghiacciante
situazione psichica e sociale, nei termini d’una
narrazione neorealistica che nulla lascia al caso, a
censure o a infingimenti, ergendosi a desolante denuncia d’un
inaccettabile stato delle cose. Analogo sentire nell’istant
painting di Massimo Saitta, cronachistico
fermo-immagine su un gruppo di neo-poveri all’interno
d’un
anonimo discount, in un
“gomito
a gomito”
indotto da miseria materiale e bisogno affannoso, a
conferma inoppugnabile di come le deliranti follie dell’economia
possano conferire alla vita cittadina i connotati
sconfortanti d’una
condizione vieppiù
disperata e neo-servile.
-
Altrove, viceversa, l’occasione
d’un
qualsiasi forma di socialità
può
acquisire il carattere caricaturale d’una
commedia dell’assurdo,
conducendo a esiti ridicoli, grotteschi o sconcertanti.
Ecco quindi i tre tuffatori dipinti da Nicola Pucci
lanciarsi contemporaneamente in una microscopica piscina,
a esemplare
–
nella totale noncuranza degli sviluppi
“traumatologici”
del loro agire e nell’assoluta
indifferenza alla pur ingombrante presenza altrui
–
il paradosso contemporaneo d’una
relazionalità
profondamente disturbata, ove le meccaniche dell’alienazione
paiono prevalere nettamente su quelle della coordinata e
partecipata interazione, in uno stato autolesionistico di
anestesia ed anaffettività.
Similmente, il senso del distacco dalla realtà
sociale e il bisogno angosciante d’un
feticcio di rapporto interpersonale spingono il disperato
personaggio di Roberto Fontana a scelte estreme e
radicali, in quella
“terra
di nessuno”
–
al limite fra l’assoluta
presa di coscienza e il completo sconfinamento
psicopatologico
–
nella quale l’unica
possibile socialità
è
relegata al solo contatto con un branco di maiali, eletti
a metafora compiuta del dilagare di meccanismi sociopatici
nel ventre oscuro delle città.
-
La stretta e deterministica interazione fra
i contesti urbani (con tutte le loro implicazioni
economiche, sociali e culturali) e i dinamismi
intrapsichici dei singoli abitanti fa dunque della
metropoli il ricorrente scenario d’una
relazionalità
coatta e perturbata, raramente frutto di scelte selettive
e consapevoli e per lo più
conseguenza d’un
impellente pavor solitudinis che induce il singolo ad
annullarsi nella massa. Ed
è
proprio questo lo stato d’alterazione
fissato da Tino Signorini col suo caratteristico
contè:
come roso da una pulsione irrefrenabile, infatti, il suo
febbricitante
“uomo
della folla”
affiora dalla caliginosa penombra d’un
anonimo spaccato di periferia, offrendo in tutta la sua
angosciante evidenza il quadro sintomatologico d’una
dimensione esistenziale ormai ampiamente fuori controllo e
totalmente mortificata da un bisogno di socialità
neurotico-ossessivo. Un dato
–
quello della socialità
malata che diviene asocialità
o antisocialità
–
che si evince in tutta la sua lombrosiana evidenza anche
nell’articolato
casellario giudiziale di Andrea Volo; non a caso
una serie di criminali mutuati da foto segnaletiche
australiane, che esemplano
–
con clinica pertinenza
–
lo sconfinamento dell’Io
profondo nei territori oscuri d’una
quotidianità
relazionale ormai fatta di esclusiva violenza e
sopraffazione. E d’altronde
anche il suadente volto di fanciulla tratteggiato con
rinascimentale perfezione da Omar Galliani, col suo
esibito e apatico distacco dalla realtà
e coll’ineffabile
malinconia di cui
è
circonfuso, pare rientrare pienamente negli ambiti d’una
modalità
di relazione ampiamente disfunzionale, ergendosi ad
esemplare allegoria d’uno
slpeen e d’un
solipsismo da profondo e incurabile disadattamento.
-
Una patologia dell’interazione
–
quella prodotta dalle schiaccianti meccaniche della
metropoli
–
che ha il suo dovuto opposto speculare nelle ubbie e nelle
convinzioni d’una
élite
sociale i cui interessi di casta sono da sempre alla base
dei discutibili processi di costruzione della forma urbis.
Così
l’altrui
presenza, l’occasione
d’un
incontro casuale con un proprio
“pari”,
diviene, nella graffiante e paradossale situazione vissuta
dai tipici
“borghesi”
di Renato Tosini, pretesto e fonte di profonda
diffidenza ed ansietà,
in quanto confronto-scontro fra potenziali competitori (bio-sociali)
volti al raggiungimento di analoghi obiettivi di
affermazione personale e di difesa d’un
proficuo status quo. Un’antisocialità
cui soggiace
–
non di meno
–
anche il
“borghese”
di Gloria Argelés,
il quale, col suo perfetto abbigliamento da burocrate
inquadrato, sicuro nell’incedere
verso i propri traguardi di successo, non riesce tuttavia
a sottrarsi alla gora dell’isolamento
da ipercompetitività,
rivelando, nell’evanescente
e indistinta fisiognomica da ectoplasma, un grado di
alienante e seriale omologazione, per nulla inferiore
–
in definitiva
–
a quello cui sono sottoposti i soggetti totalmente
subalterni e marginali.
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La piena interconnessione fra architetture
metropolitane e innesco dei moti della mente (e dei
relativi comportamenti) affiora però
non solo in termini di reattività
esibita ed estroflessa, ma anche nelle forme
“mimetiche”
del nascondimento e della introversione. In tal senso l’anonimo
scorcio urbano dipinto da Andrea Di Marco, con la
sua urbanistica cartesiana e razionale e con la sua
desolazione impercettibilmente violata da una traccia di
presenza, pare ergersi a luogo ideale (e quindi a calzante
paradigma) di quel perfetto occultamento dell’Ego
(e della connessa immagine sociale) che proprio la città
contemporanea consente a chi voglia sfuggire al gravame e
al logorio d’un
ruolo civile pienamente consapevole e dichiaratamente
responsabile. Una interiorità,
quella dell’uomo
urbanizzato, di cui Fabio Sciortino svela, con
modalità
aniconiche e informali, le continue e convulse turbolenze,
mettendo a nudo il suo esser ampiamente irrisolta fra
pulsioni socializzanti e completo cupio dissolvi, in un
andamento vorticoso che pare non riuscire a trovare alcuna
forma esteriore di tipo compiuto e definito. E proprio
quell’attanagliamento
che permea nel profondo la psiche de
L’uomo
della folla
di E. A. Poe trova una icastica e totemica traduzione
visuale nella vivace natura morta di cui
è
artefice Guido Baragli, non a caso
–
al di là
dell’ironia,
in vero amara, che la caratterizza
–
inquietante allegoria d’una
presenza-assenza, ovvero di quell’irrisolto
pencolare fra permanenza nel sistema e fuga dal contesto,
di cui il cibo, non cucinato e abbandonato su dei fornelli
spenti, diviene traccia residuale e allusivo indicatore.
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Un
“limen”
assai sottile, quello fra identità
e disidentità,
fra vita civile e morte sociale, sul quale Philippe
Berson ha costruito interamente la sua tanatologica e
teatrale vanitas: memento mori attualizzato in un contesto
cittadino, macabra riflessione sulla caducità
d’ogni
ruolo e sull’inconsistenza
d’ogni
immagine, rappresentazione feticistica d’una
modalità
di relazione sclerotica e bloccata dagli schemi vincolanti
d’una
socialità
già
mortuaria e mummificata.
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Solo nell’autobiografica
opera di Andrea Cusumano, infine, la
relazione fra l’uomo
contemporaneo e la metropoli leviatanica pare stemperarsi
in tonalità
meno cupe e disperanti, assumendo i connotati chagalliani
duna narrazione fiabesca e fiduciosa: autoritrattosi in
volo verso la City di Londra, egli rimarca la centripeta
forza di fascinazione della città,
rilanciandone il ruolo di gran teatro del mondo, di
adeguato palcoscenico in cui cercare di esibire a pieno
la propria individualità.
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Salvo Ferlito - settembre 2012
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Omaggio a Guido Baragli,
pittore classico e contemporaneo
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Un’iconicità
totemica e possente, nella cui “ieratica” assolutezza si
esprime a pieno l’inconsunta attualità della pittura.
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E’ nell’immagine, infatti,
nel suo progressivo prender forma attraverso
l’equilibrio ricercato fra il segno ed il colore, nel
suo imporsi come focus visuale mediante la rigorosa e
spoglia stringatezza delle composizioni, nel suo farsi
fulcro d’una narrazione così concisa da apparire quasi
aforistica, che per Guido Baragli trova compimento
l’arcano del dipingere, consentendo alla soggettività
artistica di estrinsecarsi pienamente in un gioco di
proiezioni sui singoli oggetti raffigurati, così eletti
ad efficaci “media” di carattere al contempo altamente
simbolico e intensamente espressivo.
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In tal senso l’adesione
programmatica ed incondizionata al verbo figurativo
(padroneggiato mercè una sintassi rigorosa che mai cede
a prolissità esuberanti e incontrollate o a superflue e
vacue ridondanze) costituisce per Baragli l’opzione
lessicale più appropriata, in quanto perfettamente
capace di coordinare e armonizzare il “pensare visuale”
e il successivo “fare artistico” in una compiuta
relazione di tipo estetico.
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Baragli, infatti, è
innanzitutto un pittore di assoluta classicità e un
intellettuale immaginifico in grado di confrontarsi
dialetticamente con i “topoi” della pittura d’ogni tempo
(dal museo all’attualità), però senza mai scadere nel
citazionismo stucchevole e fine a se stesso, ma
aggirando – piuttosto – i limiti della citazione colta,
grazie a delle narrazioni per immagini nei cui perimetri
poter liberare in piena autonomia la propria inventiva
e personalità.
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Non si tratta di
realizzare – sic et simpliciter – delle “mimesi” della
natura e del mondo oggettuale ove la fedeltà al dato
ottico non abdichi eccessivamente alle istanze della
sperimentazione tecnica e linguistica, quanto,
viceversa, di fare della figurazione – delle sue
potenzialità lessicali e sintattiche – un opportuno
strumentario peculiarmente atto all’esplicitazione di
quei processi speculativi (non solo specificamente
artistico-estetici, ma anche di definizione d’una
propria “visione del mondo”) grazie ai quali dare forma
evidente e leggibile alle complesse cinetiche
dell’identità individuale.
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Raffigurare un calciatore
nel pieno del concitato dinamismo d’un dribbling o d’una
marcatura non implica, quindi, l’esclusiva attestazione
d’un virtuosismo figurale o il puntuale racconto d’un
evento sportivo, ma la proiezione nello specchio della
dimensione iconica d’una soggettività (quella
dell’artista-tifoso per l’appunto) che non rinuncia alla
levità giocosa e anche alle derive d’una “idolatria
simpatetica” (come già accaduto con le poesie di Saba
per la Triestina o con i dipinti di Deyneka per lo sport
nell’URSS) e che si fa partecipe – seppur nei termini
dell’arte e dell’estetica – di quella irruente e
liberatoria emozionalità che pertiene
all’immedesimazione piena nell’armoniosa intensità del
gesto atletico.
-
Baragli – come è opportuno
e doveroso per ogni vero artista – è dunque “ciò che
dipinge”, poiché nel suo ideare immaginifico e nel suo
tradurre il progetto in gesto compiuto (e quindi in
pittura) egli altro non fa che raffigurare se stesso (e
il suo essere ed esistere al mondo) nei modi simbolici e
allusivi d’una schermatura-mascheramento – quella
dell’icona alter ego – che però rimanda chiaramente alla
sua ben strutturata soggettività di uomo e di pittore.
Una strutturazione operata per progressive
sedimentazioni, decantazioni ed alchimie, grazie alle
quali i vissuti quotidiani, nonché gli studi , le
ricerche e le ricognizioni nei territori del museo e
della contemporaneità hanno finito per integrarsi e
amalgamarsi a perfezione, conferendo statura e spessore
alla sua personalità artistica e garantendo alla
pennellata una cifra stilistica d’assoluta e
inconfondibile identità.
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Un dato ben evidente e
percepibile in quello che può esser – a buon diritto –
considerato il suo elettivo “cavallo di battaglia”,
ovvero la prediletta natura morta, in cui la cultura
visuale, la chiarezza ideativa, la misura gestuale e la
raffinatezza tecnica si incontrano e armonizzano in un
impareggiabile mix di elegante e significativa
penetranza ottico-visiva.
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Basta operare una
ricognizione delle sue opere più recenti – da quelle
esposte a fine 2011 alla galleria Mediterranea a quelle
viste or ora al conservatorio Bellini – per avere piena
contezza dell’indiscusso magistero ormai da tempo
esercitato da Guido in questo genere; magistero
consistente non in una “iperspecializzazione tematica” –
che conduca ad una iterazione ripetitiva, stiracchiata e
sciatta, per quanto ben impaginata – degli stessi temi,
quanto – piuttosto – nella incotrovertibile capacità di
rivitalizzare continuamente determinati soggetti,
conferendo loro sempre nuovo smalto narrativo oltre che
inconsunta qualità formale. Ecco allora le ricorrenti
“icone morandiane” – depurate e metabolizzate attraverso
il filtro della propria visione estetica del mondo –
sedimentare nei termini “ectoplasmici” di candide
presenze, affioranti – per contrasto cromatico – dalla
nera e compatta campitura degli sfondi smaltati, in un
gioco di rimandi ove l’intangibile assolutezza della
“reliquia” viene superata attraverso un personale
adeguamento al “qui e ora” per via di ulteriore
decantazione coloristica e compositiva. Analoga tendenza
all’enucleazone dell’esprit essenziale (quello che in
buona sostanza percorre tutta la natura morta dagli
esordi cinquecenteschi del Figino e di Caravaggio,
proseguendo per gli sviluppi seicenteschi
iberico-campani e olandesi dei vari Zurbaran, Recco,
Porpora o Claesz, fino alle sommesse atmosfere
settecentesche di Chardin e agli sviluppi contemporanei
di Cézanne, Morandi e de Pisis, animandone i tipici
soggetti e circonfondendoli della caratteristica aura
sacrale) si ritrova nelle ultimissime tele di Baragli in
cui è l’incandescenza degli smalti rossi, stesi sulla
superficie in un denso “à plat”, a consentire agli
oggetti-icona di venir sinteticamente a galla, in una
costruzione immaginifica la cui incisività visiva ha al
contempo la subitanea immediatezza e la profonda
penetranza del verso ermetico o dell’aforisma
fulminante. Ma è forse in quei dipinti (i grandi quadri
con i piatti ricolmi di sgombri a dominare la scena, in
una consapevole rivisitazione dei teatrali “bodegones”
seicenteschi), nei quali la ripresa dei” topoi” del
museo appare quasi ostentata, che il gusto della
citazione si disvela per ciò che realmente è: non un
lezioso ed autocompiaciuto saggio di cultura
storico-artistica, ma una autonoma e densa riflessione
sulla paradigmatica “lectio” dei maestri del passato,
finalizzata ad una “renovatio” che ribadisca
l’inalterata validità della pittura quale strumento non
solo (e non tanto) di semplice rappresentazione, quanto
di intensa fabulazione per immagini, in grado – oggi
esattamente come un tempo – di raccontare ed incarnare
la più stretta attualità. In tal modo il nostro Guido
ribadisce – un po’ come Queneau nei suoi Esercizi di
stile – la neutralità del semplice lessico (inteso
come strumento immutabile e cristallizzato) ai fini
dell’articolazione del discorso, sottolineando –
viceversa – la determinante possibilità di innovare
continuamente l’organizzazione e correlazione dei vari
termini fra loro, sì da consentire di esplorare sempre
nuove potenzialità nell’interrelazione semantica fra
significante visivo e significato tematico e da condurre
a narrazioni sempre diverse pur nella riproposizione di
stessi strumenti di espressione visiva.
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Baragli, in sostanza, si
sottrae – par buttarla in filosofia – alle insidie
dell’immobilismo parmenideo, optando per un dinamismo
dialettico di stampo eracliteo o ancor meglio socratico,
capace di impedire la sclerosi senile della
fossilizzazione citazionistica ed imitativa o la
paralisi neuropatica dell’ecolalia estetica, per andare
verso una continua rinascita di moduli espressivi assai
ben collaudati eppure sempre atti a comunicare emozioni,
affetti ed idee.
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Classicità ed attualità
convivono, dunque, a perfezione nell’ideare e fare
artistico di Guido Baragli, consentendo alla
sperimentazione tecnica (come nel caso, posto in essere
qualche anno fa, del ricorso ad inserti materici di
silicone che screzino le superfici, o nel contingente
uso di smalti per campire gli sfondi e far emergere le
immagini plasticamente) e alla ricerca formale (ben
visibile per esempio nelle barche ritratte in una
parcellizzazione così marcata da sconfinare nella più
pura astrazione geometrica) di coordinarsi in maniera
assolutamente armonica e bilanciata, e ribadendo in
siffatto modo il grande incanto della pittura: un
meraviglioso inganno dell’occhio e della mente, capace,
da che l’uomo incise i primi segni sulle rocce, di
sollecitare con vis empatica le più riposte corde della
psiche.
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Salvo
Ferlito - maggio 2012
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GAETANO COSTA
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"Desertificazione"
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L’INQUIETANTE ANALISI
DELLA RELAZIONE PSICHE-SOMA NELLE OPERE DI GAETANO
COSTA IN ESPOSIZIONE ALLA GALLERIA MEDITERRANEA FINO
AL 27 MARZO
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Una
corporeità alterata e disfatta, puntuale cifra del
rovinoso cedimento della soggettività agli impietosi
urti inferti dalla vita.
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E’ questo il tema elettivo
della ricerca visuale condotta da Gaetano Costa, il
quale ha fatto dell’acuto scandaglio della dimensione
psico-somatica il connotato prioritario delle sue
incisive percorrenze di intellettuale e di pittore.
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Forte di virtuosistici
mezzi grafici (che consentono, pur essendo egli
perfettamente calato nella temperie contemporanea, di
ascriverne il gesto ad ambiti ancor “classici” e
“moderni”, proprio in virtù dell’ormai rara capacità di
progettare la pittura attraverso la prassi preparatoria
del disegno), d’una stesura “solidamente” materica e
pastosa (dall’aggettante e vigorosa plasticità da
altorilievo) e soprattutto d’un lessico figurativo
dall’eloquio assai duro e tagliente di ascendenza
espressionista (forgiato nell’attento studio
dell’impianto psico-analitico della pittura
mitteleuropea del primo ‘900 e nella diretta
partecipazione alle rappresentazioni orgiastico-teatrali
orchestrate in quel di Salisburgo dall’azionista Hermann
Nitsch), il giovane artista palermitano si conferma fra
quei pochi (almeno nella sua generazione) davvero capaci
di porre in essere delle intense narrazioni
immaginifiche, il cui carattere fondante risiede proprio
nell’analisi cruda ed urticante di quelle cinetiche di
destabilizzazione del rapporto psiche-soma alle quali è
ingravescentemente soggetto l’uomo di oggigiorno.
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Si tratti di singoli corpi
dal sembiante fisiognomico quasi decomposto e debordanti
in una pinguedine eccessiva e collassata (Il grosso
uomo rosso) o di nudi giovanili raggruppati in
un’alienata e raggelante coreografia orgiastica ove
l’unico elemento unificante pare essere solo il contesto
(La festa) o ancora di fisici muliebri atteggiati
in una postura semiferina e colliquati in una matericità
crepitante ed escrescente (San Giorgio e il drago)
o di indistinte corporeità dedite a forme di
alimentazione primordiale e del tutto scollate dal
circostante contesto cittadino (Il pasto) o
infine di figure ectoplasmiche cristallizzate in una
dimensione di dissolvimento e indefinizione (La sposa,
Testa con albero, Testa di donna), quel
che è certo è che l’umanità dipinta da Gaetano pare
ormai essersi ritratta in un’afasica liminalità (da
situazione tipicamente border line ed anche oltre),
avendo qualsiasi parvenza di armonia fra psiche e soma
lasciato il posto a una decostruzione “antinomica” delle
anatomie (del tutto priva di valenze normative e
codificatorie) non più in grado di conferire un senso
chiaro e intellegibile all’essere ed esistere.
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Ne consegue, per tanto,
che i prediletti temi della solitudine e
dell’emarginazione, della totale incomunicabilità e
della riduzione dell’individuo a monade dispersa, del
macabro e della morte pervadenti il mondo circostante
(in una ripresa “bergmaniana” di spunti e suggestioni di
derivazione medievale), del naufragio dell’Ego nelle
forme della sofferenza corporale (tutti tratti che
connotano l’eloquio di Gaetano con il loro carattere di
ponderata antigraziosità e di voluta sgradevolezza), non
fungano soltanto da impareggiabile ed indubbia cifra
stilistica, ma costituiscano in particolar modo un
chirurgico strumento di analisi e denuncia delle
perverse dinamiche irrefrenabilmente in atto nella
nostra società.
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Il tutto, come sempre,
operato nei termini e nei modi d’una spiccata
propensione allo sperimentare, interamente votata a una
mai doma ricerca tecnico-linguistica, che trova
nell’esplorazione inesausta dei rapporti fra il segno,
il colore, la materia e la forma il proprio tratto
assolutamente peculiare e distintivo.
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L’insopprimibile
inclinazione grafica (ben evidente nella tendenza a
tracciare le superfici pittoriche fino a scarificarle)
appare oggidì vieppiù “temperata” (rispetto alle
soluzioni degli esordi) non solo dal corposo uso del
colore (steso con modalità cretacee e consistenti) ma
soprattutto dal sempre più frequente ricorso ad
estroflessi inserti di materiale esogeno (poliuretano
lavorato a mo’ di massa escrescente) e ad una tavolozza
tutta virata verso i toni del grigio prevalente
(preposto ad alimentare un’inquietante e drammaturgica
scansione delle superfici), così da consentire il
contenimento di qualsivoglia eccesso o ridondanza
visuale nei perimetri d’una scrittura decisamente
equilibrata e al contempo estremamente pervasiva.
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Un raggiungimento, questo
cui è pervenuta la pittura di Gaetano, che non
costituisce un traguardo su cui arrestarsi in un
appagato auto-compiacimento, ma che rappresenta
piuttosto un’ulteriore tappa di passaggio (seppur
altamente qualitativa) in un cammino ancora lungo (e di
certo non meno ricco di inventiva immaginifica),
destinato a sempre nuove ricognizioni ed a ben altri
sconfinamenti.
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Salvo Ferlito - febbraio 2011
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