Galleria Mediterranea
Via Mariano D'Amelio, n.12 - Palermo
 
 
LUOMO DELLA FOLLA
dal 28 settembre al 24 novembre
 
 
La solitudine e lalienazione metropolitane come cifre dellinquieta dimensione esistenziale delluomo contemporaneo.
E questo lo stato di nevrosi che contraddistingue la convulsa quotidianità de Luomo della folla, langosciante personaggio nato dalla penna di Edgar Allan Poe più di centocinquanta anni fa, presaga e pertinente metafora di quel senso di sperdimento e di desolazione di cui è spesso preda chiunque viva negli scenari urbani doggigiorno.
Proprio lesigenza compulsiva di allontanarsi rapidamente dalle vie meno battute e più isolate, allansiosa ricerca di strade e viali affollati e popolosi, così lucidamente raccontata dallo scrittore americano è senza dubbio uno dei tratti sintomatici del coattivo (e patologico) viver quotidiano di milioni di individui urbanizzati in tutto il mondo. La città, dunque e non a caso è il contesto elettivo in cui detonano incontrollabilmente le ubbie e i timori più riposti e disturbanti, e tutto ciò per quelle caratteristiche strutturali di comprimente contenitore che la connotano dal suo lontano incipit e che ne fanno un ben congegnato strumento di induzione e condizionamento dei comportamenti individuali e collettivi. Lessere ab origine luogo di concentrazione e di inquadramento di masse con evidenti finalità di controllo sociale ed organizzazione produttiva; il rappresentare un fattivo mezzo di potere mediante il quale operare strutturalmente unattribuzione dei ruoli e una disciplina delle dinamiche dei singoli e dei gruppi; lesprimere formalmente le idealità delle élites e delle classi dirigenti con lintento di celebrarne la capacità di definizione del corpo sociale (e quindi la volontà di potenza con cui incidere nel corso della storia) sono tutte caratteristiche fondanti e costitutive dei modelli urbani sin dalla più lontana antichità, alle quali va ascritto quellintrinseco potere di coercizione dellidentità individuale (in favore dun millantato e assai presunto modello di funzionale socialità, di fatto calato dirigisticamente dallalto e non frutto di una progettualità collettivamente condivisa), da cui discende in concreto linsieme di paure e di nevrosi palesemente distintivo della condizione di minorità delluomo urbanizzato in ogni periodo storico e ad ogni latitudine.
Basterebbe dare una lettura a certe valutazioni fatte da Seneca e da Giovenale in riferimento alla pessima qualità della vita in alcuni quartieri popolari dellantica Roma (quelli ove si ergevano le famigerate insulae, gli edifici contenitore tristemente precursori degli attuali condomini), con la loro diuturna ed alta rumorosità, con lassenza di acqua corrente (da cui lobbligato ricorso alle terme), col continuo rischio di incendi, in uno stato di perenne sovraffollamento e in preda a miasmi dogni tipo, per comprendere a pieno come la dimensione esistenziale del cittadino medio sia sempre stata fortemente perturbata e sottoposta a un logorio ai limiti dellinvivibilità. Una situazione che in effetti non è di molto migliorata nel corso dei millenni, e che per certi aspetti è addirittura peggiorata negli ultimi tre secoli, nonostante limpetuoso e notevole sviluppo delle scienze e delle tecnologie. Il progressivo incrementarsi dal 700 in poi, con linnesco della rivoluzione industriale dei fenomeni di inurbamento forzato di masse contadine, in relazione alla velocizzazione dei processi produttivi ed allaumento degli scambi mercantili e delle transazioni finanziarie, ha infatti determinato unestensione ed unaccelerazione tuttaltro che virtuose dei meccanismi di urbanizzazione, portando ad un ulteriore aggravamento del senso di inadeguatezza e di alienazione di tutti quei soggetti meno capaci di integrarsi nelle strutture morfo-funzionali del sistema. Ciò ha condotto, inevitabilmente, allaccentuarsi dei fenomeni di inclusione ed esclusione allinterno del tessuto urbano, dilatando le distanze fra le classi sociali e causando delle crescenti dinamiche di marginalizzazione, con una vera e propria distribuzione di tipo socio-topografico sul territorio. Dalla città a strati già classista e tuttavia in grado di legare, seppur per mera contiguità, cittadini di differente estrazione si è passati ad un impianto urbanistico a macchia di leopardo (con gli abitanti assortiti per quartiere in base alle affinità di censo e di costume), tendente a perifericizzare sempre più gli esponenti dei ceti subalterni e sottomessi. Un andamento i cui esiti sono palesi in tutta la loro violenta pressione selettiva, come del resto ampiamente dimostrato dagli assetti delle grandi città contemporanee, con i loro centri radicalmente gentryfgicati (cioè depurati della stabile presenza di elementi della working class e omologati nella loro architettonica scenografia e nel loro lindo ed esibito ordine) e con le periferie ridotte a dormitori o a sentine sociali (e questo ad onta dellintervento di grandi architetti ed urbanisti, di fatto responsabili di autentiche operazioni di segregazione, come allo ZEN di Palermo o alle Vele di Scampia, a Librino a Catania o nelle varie banlieue doltralpe), in ottemperanza a spinte centripete e centrifughe impresse secondo drastici criteri di darwinismo sociale e di estremismo pragmatista. Da tutto ciò non poteva che derivare un forte senso di insicurezza e di precarietà, e conseguentemente una condizione psichica di tipo compulsivo, tendente a indurre la spasmodica ricerca duna pur minima parvenza di relazionalità, sì da poter fugare almeno temporaneamente il panico da isolamento e alienazione e da poter contestualmente diluire (e in certo qual modo anche annullare) la propria identità in quella del gruppo, ponendo in essere quelle rassicuranti dinamiche di omologazione che sono uno dei caratteri distintivi (e assai inquietanti) delle masse nelle cosiddette società avanzate. Non si tratta più del modello relazionale tipico dei borghi o dei piccoli centri, tutto basato (non senza aspetti e componenti sgradevoli) su una struttura portante di natura familiare e su rapporti di mutuo soccorso propri del vicinato, quanto piuttosto di un modulo improntato al paradosso del continuo rischio di isolamento pur in presenza duna vasta moltitudine, in conseguenza di quellimpianto marcatamente monadico dello stile di vita cui spingono le stesse strutture urbane e i processi economici in esse albergati. Se la grande città può offrire scenari impensabili a chi è sempre vissuto nella stabilità” del mondo contadino (e quindi del villaggio o del borgo), consentendo e offrendo occasioni di dinamismo sociale e di emancipazione altrove irrealizzabili (da cui leccitazione per la vita metropolitana di poeti come Baudelaire o di pittori quali gli impressionisti), è anche vero che gli enormi conglomerati urbani formatisi negli ultimi due secoli possono configurarsi come dei veri e propri inferni, ove come analizzato da Marx o raccontato da Dickens e più recentemente da Pasolini consumare il definitivo annullamento dellIo in una indistinta disidentità e andare incontro a forme di neo-servitù (precarietà lavorativa, lavoro nero, continuo ricorso ad espedienti, sconfinamento nellillegalità e nella criminalità) ben più gravose e annichilenti che in passato, proprio per la mancanza di una adeguata rete relazionale che possa fungere in qualche modo da sistema protettivo.
Proprio questa irrisolta ambiguità, questo essere al contempo schiacciante e incombente leviatano e presunto catalizzatore dogni possibile crescita sociale, ne ha fatto loggetto insistito di analisi acute ed impietose, condotte non soltanto da addetti ai lavori (urbanisti, sociologi, economisti, antropologi, psicologi e psichiatri) ma anche da artisti assai lungimiranti (come il nostro E. A. Poe) che da almeno centocinquantanni scandagliano ogni possibile risvolto della vita cittadina, enucleandone gli aspetti più sgradevoli, inquietanti e controversi. Basterebbe qui ricordare il rilevante contributo visuale offerto dalla pittura (dai già citati impressionisti a Toulouse Lautrec e Daumier, da Ensor a Grosz e Dix, da Hopper a Sironi, con le loro graffianti e stranianti narrazioni per immagini) e più di recente dalla fotografia (da quella americana della grande depressione a quella cosmopolita di Cartier Bresson) e dal cinema (da Metropolis di Fritz Lang a Blade runner di Ridley Scott, per citare qualche esempio illuminante), per cogliere a pieno le potenzialità analitiche (e profetiche) insite nelle arti visive e quindi per comprendere le ragioni alla base di una mostra che proprio da Luomo della folla di Allan Poe prenda linnesco ispiratore e il tema unificante.
Ecco allora il brulicare formicolante e indistinto della folla in una antica piazza cittadina (nello specifico la palermitana Vucciria), il suo molecolare e casuale interagire intorno ai banchi dun mercato in una sommatoria massificante di individui, venire scandagliato da Croce Taravella col proprio peculiare linguaggio vedutistico, come a restituire idealmente gli scenari evocati da Poe e ad inquadrare la stretta interrelazione fra la cogenza delle architetture e lomologazione delle moltitudini. Una interazione fortemente costrittiva, quella fra metropoli e abitanti, di cui dà parimenti conto Gaetano Costa, i cui personaggi in esterni paiono muoversi non a caso come in preda ad una materica decomposizione di facies e soma, a testimonianza di quellingravescente disfacimento dellIo psico-sociale, irreversibilmente indotto dallimponenza leviatanica e dal potere fagocitante della dimensione cittadina.
Le dinamiche incalzanti del viver quotidiano, i frenetici ritmi dettati dalle esigenze produttive, la redditività come misura prevalente dellimmagine sociale, agendo come strumenti di filtro selettivo, finiscono con linnescare inevitabilmente spinte inerziali di marginalizzazione, confinando gli individui in ambiti di minorità da cui è assai difficile riemergere e nei quali il contatto umano è solo alienata condivisione duna subalternità. Così uno squallido vagone della metropolitana diviene lobbligata sentina di annichilite solitudini; contenitore di persone senza nome e senza storia, di cui la millimetrica matita di Antonio Miccichè restituisce lagghiacciante situazione psichica e sociale, nei termini duna narrazione neorealistica che nulla lascia al caso, a censure o a infingimenti, ergendosi a desolante denuncia dun inaccettabile stato delle cose. Analogo sentire nellistant painting di Massimo Saitta, cronachistico fermo-immagine su un gruppo di neo-poveri allinterno dun anonimo discount, in un gomito a gomito indotto da miseria materiale e bisogno affannoso, a conferma inoppugnabile di come le deliranti follie delleconomia possano conferire alla vita cittadina i connotati sconfortanti duna condizione vieppiù disperata e neo-servile.
Altrove, viceversa, loccasione dun qualsiasi forma di socialità può acquisire il carattere caricaturale duna commedia dellassurdo, conducendo a esiti ridicoli, grotteschi o sconcertanti. Ecco quindi i tre tuffatori dipinti da Nicola Pucci lanciarsi contemporaneamente in una microscopica piscina, a esemplare nella totale noncuranza degli sviluppi traumatologici del loro agire e nellassoluta indifferenza alla pur ingombrante presenza altrui il paradosso contemporaneo duna relazionalità profondamente disturbata, ove le meccaniche dellalienazione paiono prevalere nettamente su quelle della coordinata e partecipata interazione, in uno stato autolesionistico di anestesia ed anaffettività. Similmente, il senso del distacco dalla realtà sociale e il bisogno angosciante dun feticcio di rapporto interpersonale spingono il disperato personaggio di Roberto Fontana a scelte estreme e radicali, in quella terra di nessuno al limite fra lassoluta presa di coscienza e il completo sconfinamento psicopatologico nella quale lunica possibile socialità è relegata al solo contatto con un branco di maiali, eletti a metafora compiuta del dilagare di meccanismi sociopatici nel ventre oscuro delle città.
La stretta e deterministica interazione fra i contesti urbani (con tutte le loro implicazioni economiche, sociali e culturali) e i dinamismi intrapsichici dei singoli abitanti fa dunque della metropoli il ricorrente scenario duna relazionalità coatta e perturbata, raramente frutto di scelte selettive e consapevoli e per lo più conseguenza dun impellente pavor solitudinis che induce il singolo ad annullarsi nella massa. Ed è proprio questo lo stato dalterazione fissato da Tino Signorini col suo caratteristico contè: come roso da una pulsione irrefrenabile, infatti, il suo febbricitante uomo della folla affiora dalla caliginosa penombra dun anonimo spaccato di periferia, offrendo in tutta la sua angosciante evidenza il quadro sintomatologico duna dimensione esistenziale ormai ampiamente fuori controllo e totalmente mortificata da un bisogno di socialità neurotico-ossessivo. Un dato quello della socialità malata che diviene asocialità o antisocialità che si evince in tutta la sua lombrosiana evidenza anche nellarticolato casellario giudiziale di Andrea Volo; non a caso una serie di criminali mutuati da foto segnaletiche australiane, che esemplano con clinica pertinenza lo sconfinamento dellIo profondo nei territori oscuri duna quotidianità relazionale ormai fatta di esclusiva violenza e sopraffazione. E daltronde anche il suadente volto di fanciulla tratteggiato con rinascimentale perfezione da Omar Galliani, col suo esibito e apatico distacco dalla realtà e collineffabile malinconia di cui è circonfuso, pare rientrare pienamente negli ambiti duna modalità di relazione ampiamente disfunzionale, ergendosi ad esemplare allegoria duno slpeen e dun solipsismo da profondo e incurabile disadattamento.
Una patologia dellinterazione quella prodotta dalle schiaccianti meccaniche della metropoli che ha il suo dovuto opposto speculare nelle ubbie e nelle convinzioni duna élite sociale i cui interessi di casta sono da sempre alla base dei discutibili processi di costruzione della forma urbis. Così laltrui presenza, loccasione dun incontro casuale con un proprio pari, diviene, nella graffiante e paradossale situazione vissuta dai tipici borghesi di Renato Tosini, pretesto e fonte di profonda diffidenza ed ansietà, in quanto confronto-scontro fra potenziali competitori (bio-sociali) volti al raggiungimento di analoghi obiettivi di affermazione personale e di difesa dun proficuo status quo. Unantisocialità cui soggiace non di meno anche il borghese di Gloria Argelés, il quale, col suo perfetto abbigliamento da burocrate inquadrato, sicuro nellincedere verso i propri traguardi di successo, non riesce tuttavia a sottrarsi alla gora dellisolamento da ipercompetitività, rivelando, nellevanescente e indistinta fisiognomica da ectoplasma, un grado di alienante e seriale omologazione, per nulla inferiore in definitiva a quello cui sono sottoposti i soggetti totalmente subalterni e marginali.
La piena interconnessione fra architetture metropolitane e innesco dei moti della mente (e dei relativi comportamenti) affiora però non solo in termini di reattività esibita ed estroflessa, ma anche nelle forme mimetiche del nascondimento e della introversione. In tal senso lanonimo scorcio urbano dipinto da Andrea Di Marco, con la sua urbanistica cartesiana e razionale e con la sua desolazione impercettibilmente violata da una traccia di presenza, pare ergersi a luogo ideale (e quindi a calzante paradigma) di quel perfetto occultamento dellEgo (e della connessa immagine sociale) che proprio la città contemporanea consente a chi voglia sfuggire al gravame e al logorio dun ruolo civile pienamente consapevole e dichiaratamente responsabile. Una interiorità, quella delluomo urbanizzato, di cui Fabio Sciortino svela, con modalità aniconiche e informali, le continue e convulse turbolenze, mettendo a nudo il suo esser ampiamente irrisolta fra pulsioni socializzanti e completo cupio dissolvi, in un andamento vorticoso che pare non riuscire a trovare alcuna forma esteriore di tipo compiuto e definito. E proprio quellattanagliamento che permea nel profondo la psiche de Luomo della folla di E. A. Poe trova una icastica e totemica traduzione visuale nella vivace natura morta di cui è artefice Guido Baragli, non a caso al di là dellironia, in vero amara, che la caratterizza inquietante allegoria duna presenza-assenza, ovvero di quellirrisolto pencolare fra permanenza nel sistema e fuga dal contesto, di cui il cibo, non cucinato e abbandonato su dei fornelli spenti, diviene traccia residuale e allusivo indicatore.
Un limen assai sottile, quello fra identità e disidentità, fra vita civile e morte sociale, sul quale Philippe Berson ha costruito interamente la sua tanatologica e teatrale vanitas: memento mori attualizzato in un contesto cittadino, macabra riflessione sulla caducità dogni ruolo e sullinconsistenza dogni immagine, rappresentazione feticistica duna modalità di relazione sclerotica e bloccata dagli schemi vincolanti duna socialità già mortuaria e mummificata.
Solo nellautobiografica opera di Andrea Cusumano, infine, la relazione fra luomo contemporaneo e la metropoli leviatanica pare stemperarsi in tonalità meno cupe e disperanti, assumendo i connotati chagalliani duna narrazione fiabesca e fiduciosa: autoritrattosi in volo verso la City di Londra, egli rimarca la centripeta forza di fascinazione della città, rilanciandone il ruolo di gran teatro del mondo, di adeguato palcoscenico in cui cercare di esibire a pieno la  propria individualità.
 
 
                                                                                              Salvo Ferlito - settembre 2012
 
 
 
Omaggio a Guido Baragli, pittore classico e contemporaneo
 
 
Un’iconicità totemica e possente, nella cui “ieratica” assolutezza si esprime a pieno l’inconsunta attualità della pittura.
E’ nell’immagine, infatti, nel suo progressivo prender forma attraverso l’equilibrio ricercato fra il segno ed il colore, nel suo imporsi come focus visuale mediante la rigorosa e spoglia stringatezza delle composizioni, nel suo farsi fulcro d’una narrazione così concisa da apparire quasi aforistica, che per Guido Baragli trova compimento l’arcano del dipingere, consentendo alla soggettività artistica di estrinsecarsi pienamente in un gioco di proiezioni sui singoli oggetti raffigurati, così eletti ad efficaci “media” di carattere al contempo altamente simbolico e intensamente espressivo.
In tal senso l’adesione programmatica ed incondizionata al verbo figurativo (padroneggiato mercè una sintassi rigorosa che mai cede a prolissità esuberanti e incontrollate o a superflue e vacue ridondanze) costituisce per Baragli l’opzione lessicale più appropriata, in quanto perfettamente capace di coordinare e armonizzare il “pensare visuale” e il successivo “fare artistico” in una compiuta relazione di tipo estetico.
Baragli, infatti, è innanzitutto un pittore di assoluta classicità e un intellettuale immaginifico in grado di confrontarsi dialetticamente con i “topoi” della pittura d’ogni tempo (dal museo all’attualità), però senza mai scadere nel citazionismo stucchevole e fine a se stesso, ma aggirando – piuttosto – i limiti della citazione colta, grazie a delle narrazioni per immagini nei cui perimetri poter  liberare in piena autonomia la propria inventiva e personalità.
Non si tratta di realizzare – sic et simpliciter – delle “mimesi” della natura e del mondo oggettuale ove la fedeltà al dato ottico non abdichi eccessivamente alle istanze della sperimentazione tecnica e linguistica, quanto, viceversa, di fare della figurazione – delle sue potenzialità lessicali e sintattiche – un opportuno strumentario peculiarmente atto all’esplicitazione di quei processi speculativi (non solo specificamente artistico-estetici, ma anche di definizione d’una propria “visione del mondo”) grazie ai quali dare forma evidente e leggibile alle complesse cinetiche dell’identità individuale.
Raffigurare un calciatore nel pieno del concitato dinamismo d’un dribbling o d’una marcatura non implica, quindi, l’esclusiva attestazione d’un virtuosismo figurale o il puntuale racconto d’un evento sportivo, ma la proiezione nello specchio della dimensione iconica d’una soggettività (quella dell’artista-tifoso per l’appunto) che non rinuncia alla levità giocosa e anche alle derive d’una “idolatria simpatetica” (come già accaduto con le poesie di Saba per la Triestina o con i dipinti di Deyneka per lo sport nell’URSS) e che si fa partecipe – seppur nei termini dell’arte e dell’estetica – di quella irruente e liberatoria emozionalità che pertiene all’immedesimazione piena nell’armoniosa intensità del gesto atletico.
Baragli – come è opportuno e doveroso per ogni vero artista – è dunque “ciò che dipinge”, poiché nel suo ideare immaginifico e nel suo tradurre il progetto in gesto compiuto (e quindi in pittura) egli altro non fa che raffigurare se stesso (e il suo essere ed esistere al mondo) nei modi simbolici e allusivi d’una schermatura-mascheramento – quella dell’icona alter ego – che però rimanda chiaramente alla sua ben strutturata soggettività di uomo e di pittore. Una strutturazione operata per progressive sedimentazioni, decantazioni ed alchimie, grazie alle quali i vissuti quotidiani, nonché gli studi , le ricerche e le ricognizioni nei territori del museo e della contemporaneità hanno finito per integrarsi e amalgamarsi a perfezione, conferendo statura e spessore alla sua personalità artistica e garantendo alla pennellata una cifra stilistica d’assoluta e inconfondibile identità.
Un dato ben evidente e percepibile in quello che può esser – a buon diritto – considerato il suo elettivo “cavallo di battaglia”, ovvero la prediletta natura morta, in cui la cultura visuale, la chiarezza ideativa, la misura gestuale e la raffinatezza tecnica si incontrano e armonizzano in un impareggiabile mix di elegante e significativa penetranza ottico-visiva.
Basta operare una ricognizione delle sue opere più recenti – da quelle esposte a fine 2011 alla galleria Mediterranea a quelle viste or ora al conservatorio Bellini – per avere piena contezza dell’indiscusso magistero ormai da tempo esercitato da Guido in questo genere; magistero consistente non in una “iperspecializzazione tematica” – che conduca ad una iterazione ripetitiva, stiracchiata e sciatta, per quanto ben impaginata – degli stessi temi, quanto – piuttosto – nella incotrovertibile capacità di rivitalizzare continuamente determinati soggetti, conferendo loro sempre nuovo smalto narrativo oltre che inconsunta qualità formale. Ecco allora le ricorrenti “icone morandiane” – depurate e metabolizzate attraverso il filtro della propria visione estetica del mondo – sedimentare nei termini “ectoplasmici” di candide presenze, affioranti – per contrasto cromatico – dalla nera e compatta campitura degli sfondi smaltati, in un gioco di rimandi ove l’intangibile assolutezza della “reliquia” viene superata attraverso un personale adeguamento al “qui e ora” per via di ulteriore decantazione coloristica e compositiva. Analoga tendenza all’enucleazone dell’esprit essenziale (quello che in buona sostanza percorre tutta la natura morta dagli esordi cinquecenteschi del Figino e di Caravaggio, proseguendo per gli sviluppi seicenteschi iberico-campani e olandesi dei vari Zurbaran, Recco, Porpora o Claesz, fino alle sommesse atmosfere settecentesche di Chardin e agli sviluppi contemporanei di Cézanne, Morandi e de Pisis, animandone i tipici soggetti e circonfondendoli della caratteristica aura sacrale) si ritrova nelle ultimissime tele di Baragli in cui è l’incandescenza degli smalti rossi, stesi sulla superficie in un denso “à plat”, a consentire agli oggetti-icona di venir sinteticamente a galla, in una costruzione immaginifica la cui incisività visiva ha al contempo la subitanea immediatezza e la profonda penetranza del verso ermetico o dell’aforisma fulminante. Ma è forse in quei dipinti (i grandi quadri con i piatti ricolmi di sgombri a dominare la scena, in una consapevole rivisitazione dei teatrali “bodegones” seicenteschi), nei quali la ripresa dei” topoi” del museo appare quasi ostentata, che il gusto della citazione si disvela per ciò che realmente è: non un lezioso ed autocompiaciuto saggio di cultura storico-artistica, ma una autonoma e densa riflessione sulla paradigmatica “lectio” dei maestri del passato, finalizzata ad una “renovatio” che ribadisca l’inalterata validità della pittura quale strumento non solo (e non tanto) di semplice rappresentazione, quanto di intensa fabulazione per immagini, in grado – oggi esattamente come un tempo – di raccontare ed incarnare la più stretta attualità. In tal modo il nostro Guido ribadisce – un po’ come Queneau nei suoi Esercizi di stile – la neutralità del semplice lessico (inteso come strumento immutabile e cristallizzato) ai fini dell’articolazione del discorso, sottolineando – viceversa – la determinante possibilità di innovare continuamente l’organizzazione e correlazione dei vari termini fra loro, sì da consentire di esplorare sempre nuove potenzialità nell’interrelazione semantica fra significante visivo e significato tematico e da condurre a narrazioni sempre diverse pur nella riproposizione di stessi strumenti di espressione visiva.
Baragli, in sostanza, si sottrae – par buttarla in filosofia – alle insidie dell’immobilismo parmenideo, optando per un dinamismo dialettico di stampo eracliteo o ancor meglio socratico, capace di impedire la sclerosi senile della fossilizzazione citazionistica ed imitativa o la paralisi neuropatica dell’ecolalia estetica, per andare verso una continua rinascita di moduli espressivi assai ben collaudati eppure sempre atti a comunicare emozioni, affetti ed idee.
Classicità ed attualità convivono, dunque, a perfezione nell’ideare e fare artistico di Guido Baragli, consentendo alla sperimentazione tecnica (come nel caso, posto in essere qualche anno fa,  del ricorso ad inserti materici di silicone che screzino le superfici, o nel contingente uso di smalti per campire gli sfondi e far emergere le immagini plasticamente) e alla ricerca formale (ben visibile per esempio nelle barche ritratte in una parcellizzazione così marcata da sconfinare nella più pura astrazione geometrica) di coordinarsi in maniera assolutamente armonica e bilanciata, e ribadendo in siffatto modo il grande incanto della pittura: un meraviglioso inganno dell’occhio e della mente, capace, da che l’uomo incise i primi segni sulle rocce, di sollecitare con vis empatica le più riposte corde della psiche.
 
 
                                                                                              Salvo Ferlito - maggio 2012

 
GAETANO COSTA
"Desertificazione"
L’INQUIETANTE ANALISI DELLA RELAZIONE PSICHE-SOMA NELLE OPERE DI GAETANO COSTA IN ESPOSIZIONE ALLA GALLERIA MEDITERRANEA FINO AL 27 MARZO
 
Una corporeità alterata e disfatta, puntuale cifra del rovinoso cedimento della soggettività agli impietosi urti inferti dalla vita.
E’ questo il tema elettivo della ricerca visuale condotta da Gaetano Costa, il quale ha fatto dell’acuto scandaglio della dimensione psico-somatica il connotato prioritario delle sue incisive percorrenze di intellettuale e di pittore.
Forte di virtuosistici mezzi grafici (che consentono, pur essendo egli perfettamente calato nella temperie contemporanea, di ascriverne il gesto ad ambiti ancor “classici” e “moderni”, proprio in virtù dell’ormai rara capacità di progettare la pittura attraverso la prassi preparatoria del disegno), d’una stesura “solidamente” materica e pastosa (dall’aggettante e vigorosa plasticità da altorilievo) e soprattutto d’un lessico figurativo dall’eloquio assai duro e tagliente di ascendenza espressionista (forgiato nell’attento studio dell’impianto psico-analitico della pittura mitteleuropea del primo ‘900 e nella diretta partecipazione alle rappresentazioni orgiastico-teatrali orchestrate in quel di Salisburgo dall’azionista Hermann Nitsch), il giovane artista palermitano si conferma fra quei pochi (almeno nella sua generazione) davvero capaci di porre in essere delle intense narrazioni immaginifiche, il cui carattere fondante risiede proprio nell’analisi cruda ed urticante di quelle cinetiche di destabilizzazione del rapporto psiche-soma alle quali è ingravescentemente soggetto l’uomo di oggigiorno.
Si tratti di singoli corpi dal sembiante fisiognomico quasi decomposto e debordanti in una pinguedine eccessiva e collassata (Il grosso uomo rosso) o di nudi giovanili raggruppati in un’alienata e raggelante coreografia orgiastica ove l’unico elemento unificante pare essere solo il contesto (La festa) o ancora di fisici muliebri atteggiati in una postura semiferina e colliquati in una matericità crepitante ed escrescente (San Giorgio e il drago) o di indistinte corporeità dedite a forme di alimentazione primordiale e del tutto scollate dal circostante contesto cittadino (Il pasto) o infine di figure ectoplasmiche cristallizzate in una dimensione di dissolvimento e indefinizione (La sposa, Testa con albero, Testa di donna), quel che è certo è che l’umanità dipinta da Gaetano pare ormai essersi ritratta in un’afasica liminalità (da situazione tipicamente border line ed anche oltre), avendo qualsiasi parvenza di armonia fra psiche e soma lasciato il posto a una decostruzione “antinomica” delle anatomie (del tutto priva di valenze normative e codificatorie) non più in grado di conferire un senso chiaro e intellegibile all’essere ed esistere.
 
Ne consegue, per tanto, che i prediletti temi della solitudine e dell’emarginazione, della totale incomunicabilità e della riduzione dell’individuo a monade dispersa, del macabro e della morte pervadenti il mondo circostante (in una ripresa “bergmaniana” di spunti e suggestioni di derivazione medievale), del naufragio dell’Ego nelle forme della sofferenza corporale (tutti tratti che connotano l’eloquio di Gaetano con il loro carattere di ponderata antigraziosità e di voluta sgradevolezza), non fungano soltanto da impareggiabile ed indubbia cifra stilistica, ma costituiscano in particolar modo un chirurgico strumento di analisi e denuncia delle perverse dinamiche irrefrenabilmente in atto nella nostra società.
 
Il tutto, come sempre, operato nei termini e nei modi d’una spiccata propensione allo sperimentare, interamente votata a una mai doma ricerca tecnico-linguistica, che trova nell’esplorazione inesausta dei rapporti fra il segno, il colore, la materia e la forma il proprio tratto assolutamente peculiare e distintivo.
 
 

 

 

 

L’insopprimibile inclinazione grafica (ben evidente nella tendenza a tracciare le superfici pittoriche fino a scarificarle) appare oggidì vieppiù “temperata” (rispetto alle soluzioni degli esordi) non solo dal corposo uso del colore (steso con modalità cretacee e consistenti) ma soprattutto dal sempre più frequente ricorso ad estroflessi inserti di materiale esogeno (poliuretano lavorato a mo’ di massa escrescente) e ad una tavolozza tutta virata verso i toni del grigio prevalente (preposto ad alimentare un’inquietante e drammaturgica scansione delle superfici), così da consentire il contenimento di qualsivoglia eccesso o ridondanza visuale nei perimetri d’una scrittura decisamente equilibrata e al contempo estremamente pervasiva.
 
Un raggiungimento, questo cui è pervenuta la pittura di Gaetano, che non costituisce un traguardo su cui arrestarsi in un appagato auto-compiacimento, ma che rappresenta piuttosto un’ulteriore tappa di passaggio (seppur altamente qualitativa) in un cammino ancora lungo (e di certo non meno ricco di inventiva immaginifica), destinato a sempre nuove ricognizioni ed a ben altri sconfinamenti.

 

                                                 Salvo Ferlito - febbraio 2011    
 
 
                                                                                                                   
 

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