Galleria La Piana
Via Isidoro La Lumia 79  - Palermo

 

 
 
BRUNO  CARUSO
 
ARS DELINEANDI
(fino al 5 novembre 2011)
 
 
Bruno Caruso - Clochard (china acquarello e tempera su carta)L’incisività del tratto segnico, la deformazione “espressionistica” e quasi caricaturale, la grande perizia virtuosistica sono tutti strumenti visuali al servizio d’una estrema e graffiante penetranza narrativa.
Bruno Caruso, infatti, è un grande narratore per immagini, dotato d’una verve fabulatoria la cui tensione emozionale ed affettiva trae linfa e ragion d’essere propriamente da una esplicita e violenta dirompenza lessicale. Il suo ormai tipico e inconfondibile tratteggio – in cui l’urticante e tagliente acidità del verbo figurativo di George Grosz e Otto Dix si carica, in un effetto sommatorio e di rinforzo, di quella aggressività antropologica che è tipica della terra di Sicilia – si connota, non a caso, per un eloquio assai graffiante ed impietoso, in grado – col suo tono aspro e senza orpelli – di farsi vettore elettivo delle idee e del racconto.

 

Raccontare, dunque, più che limitarsi a rappresentare o raffigurare, è da sempre il carattere fondante del fare artistico di Bruno Caruso, il quale – non per nulla – ha saputo frequentare assiduamente i territori della letteratura (da quella siciliana ai classici d’ogni tempo e luogo), riuscendo a pervenire a delle compiute e originali “letture visuali” che mai rischiano (o hanno rischiato) lo scadimento nella mera “gora” illustrativa, ma che costituiscono piuttosto dei rilevanti apporti critici e interpretativi ai testi prediletti, di cui vengono così restituiti – in forma crudamente immaginifica – tutti quegli umori e quelle tensioni che permeano e alimentano la trama narrativa.
Tomasi di Lampedusa, Verga, Kafka – tanto per fare qualche esempio illuminante – divengono così l’ambito ideale nei cui perimetri estrinsecare pienamente l’intero potenziale dei propri mezzi ideativi ed espressivi, dando corpo – nell’accezione autentica del termine – ad un ricco e peculiare immaginario, che completa e tipizza il dettato narrativo attraverso un peculiare apporto visuale, ove l’ego del grafico e del pittore si fonde con quello dei beneamati scrittori, in una completa dinamica di “contaminazione” fatta di crasi e sincretismi non solo psicologici ma anche antropologici ed estetici.Bruno Caruso - Modella seduta (china e acquarello su carta, 1970)

 

Il confronto coi letterati diviene in tal modo occasione imperdibile per coniugare, nei termini d’un segno-cifra stilisticamente inconfondibile, le tante componenti delle quali si sostanzia la personalità artistica del nostra autore – l’irrequietezza e la curiosità intellettuali, una soggettività ben strutturata ed esuberante, il gusto anche feroce per lo scavo psicologico, l’impegno civile e l’analisi sociale, la forza ideativa e la precisione esecutiva –, consentendo ad esse, mediante il conferimento d’una palese visibilità ai personaggi letterari, di giungere a un pieno e riuscito compimento e ad un perfetto amalgama linguistico ed estetico.
L’attenzione “sociologica” e “politica” per le problematiche di classe e per il mondo del lavoro trova così la sua “stura” più opportuna nella stolida espressività dei “carusi” verghiani, nella cui condizione di vinti e di reietti si condensa l’intera marginalità servile della quale – in tutta la Sicilia – i ceti subalterni sono stati oggetto plurisecolare ad opera d’una ristretta e parassitaria élite padronale. Se in Verga il verismo è occasione d’un trasporto più caritatevole che realmente solidale, in Caruso – viceversa – l’approccio segnico, dal linearismo crudo e deformato, si presta a un’invettiva di forte critica civile, facendosi misura d’un impegno consapevole e sentito che è proprio di tutti quegli artisti sinceramente “engagé” e concretamente desiderosi di “rivoltare” il mondo.
Caruso è stato ed è ancora uomo del suo tempo, e in quanto tale perfettamente calato nelle dinamiche e nei rivolgimenti che ne connotano lo spirito; proprio per questo egli ha dedicato il suo gesto ad un’azione di denuncia (o quanto meno di disvelamento) che non si è mai prestata a mimetismi o ambiguità di sorta, ma che ha sempre mirato – pur nella elusione di qualsivoglia realismo cronachistico in funzione d’una caricaturalità esibita e plateale – a evidenziare la sgradevolezza intrinseca allo “stato delle cose”. Ecco allora affiancarsi ai carusi di zolfara i tanti operai (memorabili quelli dei depositi di legname risalenti agli anni ’50) tratteggiati nella loro “desolata” e “poetica” condizione di “vil meccanici” o ancora i “sediziosi” contadini delineati nella convulsa agitazione della propria pulsione ribellistica durante le lotte con campieri e aristocratici per l’occupazione di terre e latifondi.
Non meno incisivo ed analitico, lo sguardo lanciato da Caruso verso l’abisso della follia non si limita a coglierne gli aspetti esteriori e conclamati – ovvero quelle eccentricità e sregolatezze “rassicuranti” che nella loro grottesca e macchiettistica teatralità muovono gli osservatori più al riso che alla presa di coscienza –, ma incede piuttosto nel senso “diagnostico” di una mirata (ed impietosa) enucleazione del dato psico-patologico – grazie a una acuta e clinica scansione fisiognomica dei personaggi raffigurati –, cui si associa l’atto di denuncia – senza remore o infingimenti – d’una schiacciante condizione di marginalità sociale dalla quale non vi è fuga, guarigione né riscatto.
Bruno Caruso - I saltimbanchi (tecnica mista su carta)
 
Una capacità di scandaglio degli stati più alterati della mente, che Caruso rivela – parimenti – non solo nell’approccio “sociologico” verso i reietti che albergano nei manicomi (si guardi la disperata agitazione del protagonista dell’incisione Povero e pazzo) o che popolano i marciapiedi e gli anditi più nascosti d’ogni città (come l’allucinato Clochard la cui disgraziata condizione è resa nell’articolata associazione di china e di colore), ma in particolar modo nella dura messa alla berlina dei deliri autoritaristici ben celati dietro la maschera dell’assoluta normalità degli assetti di potere. Il che avviene – ancora una volta e non a caso – nei perimetri della narrazione letteraria (per l’esattezza nella traduzione visuale de La colonia penale di Franz Kafka), ove il parvente artefatto del racconto si rivela imperdibile occasione per un meccanismo di rappresentazione figurale di tutti quei dinamismi di carattere psichiatrico da sempre posti alla base di non pochi dei comportamenti “esemplari” su cui è strutturata l’intera organizzazione della piramide sociale.
E proprio il ricorso a un tratteggio “espressionistico”, che privilegi la deformazione febbrile e concitata di mimica e postura, si conferma non tanto un semplice modulo linguistico acriticamente e mimeticamente mutuato dall’alveo teutonico di inizio ‘900, ma uno strumento lessicale scientemente adottato – fuor di stucchevoli censure e ingannevoli abbellimenti – in funzione delle sue enormi (e ancora attuali) capacità di scavo intrapsichico e di indagine sociale. Un dato che si evince con chiarezza inequivoca proprio laddove la proiezione soggettiva dell’artista sull’oggetto della raffigurazione appare ancor più forte e conclamata, ovvero in quei territori dell’eros e della sessualità nei quali le componenti della compulsività emozionale e del coinvolgimento affettivo – pur col filtro della ricerca artistica ed estetica – si manifestano in maniera più immediata e penetrante. Scene di amplesso “border-line” per la loro esplicita componente di violenza (nelle quali il rapporto di forza fra i due sessi si dipana lungo l’ambiguo e ineffabile crinale che delimita il totale e complementare coinvolgimento dei sensi dall’aggressione unilaterale e dallo stupro conclamato) si affiancano a innumerevoli ritratti di donne e di fanciulle (dalla Lupa verghiana alle meretrici di bordello e alle tante amiche e modelle d’una vita) con una modalità “bipolare” che denuncia – al contempo – il contrasto irrisolto fra lo slancio passionale ed amoroso e il panico e ancestrale timore per quell’opposto speculare e misterioso non di rado vissuto (come nella tradizione simbolista) in termini di furia incontrollata o di devastante ferinità.
Solo il malinconico ritratto di Titina Maselli – anch’essa artista e amica di Caruso – sembra distaccarsi nettamente dagli abituali modelli femminili, consegnandoci una figura malinconica e assorta, resa non con le predilette tecniche della grafica ma con una pittura tutta articolata sui toni del blu (non a caso il colore prediletto da Picasso per lo spleen), ove l’imprescindibile linearismo si armonizza sapientemente con la tavolozza nella definizione della condizione umana ed interiore.
Un atteggiamento di assoluta empatia ed immedesimazione, quello manifestato da Caruso nei confronti degli altri pittori, che – pur declinato prevalentemente nei soliti termini di caricaturalità espressiva – assume tuttavia i toni intensi e assai sentiti d’un elogiativo disincanto, in grado di ergersi a metafora compiuta della condizione dell’artista in ogni ambito storico e geografico.
Si tratti di Ensor – ritratto insieme ai suoi personaggi prediletti, come a omaggiarlo per il suo ruolo di iniziatore e padre nobile di quel modulo linguistico giunto a Caruso per il tramite di Dix e Grosz – o di Picasso, Dalì, Giacometti e vari altri – nell’affollato I saltimbanchi (per fare ridere la borghesia) in cui ritorna l’associazione fra la figura dell’artista e quella del buffone di corte in una sorta di attualizzazione delle tematiche velazqueziane – ciò che conta è il riconoscimento palese ed esibito della relazione coi “maestri” del passato e del presente quale requisito ineludibile per la maturazione d’un fare artistico di indiscussa qualità. Dovuto elogio – dunque – del ruolo guida e del magistero svolti dai “grandi” ormai storicizzati, ma anche amaro apologo sull’assoluta impossibilità per ogni artista di essere null’altro che un giullare; un povero guitto abilitato – come in tutti i riti di inversione – a muovere salaci critiche al sistema, ma nei fatti del tutto inadeguato a determinarne il benché minimo sovvertimento e soprattutto a cambiare o deviare in qualche modo il corso della storia.
  
                                                                                         Salvo Ferlito (ottobre 2011)

 

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