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BRUNO
CARUSO
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ARS
DELINEANDI
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(fino al 5
novembre 2011)
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L’incisività del
tratto segnico, la deformazione “espressionistica” e
quasi caricaturale, la grande perizia virtuosistica
sono tutti strumenti visuali al servizio d’una
estrema e graffiante penetranza narrativa.
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Bruno Caruso, infatti,
è un grande narratore per immagini, dotato d’una
verve fabulatoria la cui tensione emozionale ed
affettiva trae linfa e ragion d’essere propriamente
da una esplicita e violenta dirompenza lessicale. Il
suo ormai tipico e inconfondibile tratteggio – in
cui l’urticante e tagliente acidità del verbo
figurativo di George Grosz e Otto Dix si carica, in
un effetto sommatorio e di rinforzo, di quella
aggressività antropologica che è tipica della terra
di Sicilia – si connota, non a caso, per un eloquio
assai graffiante ed impietoso, in grado – col suo
tono aspro e senza orpelli – di farsi vettore
elettivo delle idee e del racconto.
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Raccontare, dunque,
più che limitarsi a rappresentare o raffigurare, è
da sempre il carattere fondante del fare artistico
di Bruno Caruso, il quale – non per nulla – ha
saputo frequentare assiduamente i territori della
letteratura (da quella siciliana ai classici d’ogni
tempo e luogo), riuscendo a pervenire a delle
compiute e originali “letture visuali” che mai
rischiano (o hanno rischiato) lo scadimento nella
mera “gora” illustrativa, ma che costituiscono
piuttosto dei rilevanti apporti critici e
interpretativi ai testi prediletti, di cui vengono
così restituiti – in forma crudamente immaginifica –
tutti quegli umori e quelle tensioni che permeano e
alimentano la trama narrativa.
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Tomasi di Lampedusa,
Verga, Kafka – tanto per fare qualche esempio
illuminante – divengono così l’ambito ideale nei cui
perimetri estrinsecare pienamente l’intero
potenziale dei propri mezzi ideativi ed espressivi,
dando corpo – nell’accezione autentica del termine –
ad un ricco e peculiare immaginario, che completa e
tipizza il dettato narrativo attraverso un peculiare
apporto visuale, ove l’ego del grafico e del pittore
si fonde con quello dei beneamati scrittori, in una
completa dinamica di “contaminazione” fatta di crasi
e sincretismi non solo psicologici ma anche
antropologici ed estetici.
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Il confronto coi
letterati diviene in tal modo occasione imperdibile
per coniugare, nei termini d’un segno-cifra
stilisticamente inconfondibile, le tante componenti
delle quali si sostanzia la personalità artistica
del nostra autore – l’irrequietezza e la curiosità
intellettuali, una soggettività ben strutturata ed
esuberante, il gusto anche feroce per lo scavo
psicologico, l’impegno civile e l’analisi sociale,
la forza ideativa e la precisione esecutiva –,
consentendo ad esse, mediante il conferimento d’una
palese visibilità ai personaggi letterari, di
giungere a un pieno e riuscito compimento e ad un
perfetto amalgama linguistico ed estetico.
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L’attenzione
“sociologica” e “politica” per le problematiche di
classe e per il mondo del lavoro trova così la sua
“stura” più opportuna nella stolida espressività dei
“carusi” verghiani, nella cui condizione di vinti e
di reietti si condensa l’intera marginalità servile
della quale – in tutta la Sicilia – i ceti
subalterni sono stati oggetto plurisecolare ad opera
d’una ristretta e parassitaria élite padronale. Se
in Verga il verismo è occasione d’un trasporto più
caritatevole che realmente solidale, in Caruso –
viceversa – l’approccio segnico, dal linearismo
crudo e deformato, si presta a un’invettiva di forte
critica civile, facendosi misura d’un impegno
consapevole e sentito che è proprio di tutti quegli
artisti sinceramente “engagé” e concretamente
desiderosi di “rivoltare” il mondo.
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Caruso è stato ed è
ancora uomo del suo tempo, e in quanto tale
perfettamente calato nelle dinamiche e nei
rivolgimenti che ne connotano lo spirito; proprio
per questo egli ha dedicato il suo gesto ad
un’azione di denuncia (o quanto meno di
disvelamento) che non si è mai prestata a mimetismi
o ambiguità di sorta, ma che ha sempre mirato – pur
nella elusione di qualsivoglia realismo
cronachistico in funzione d’una caricaturalità
esibita e plateale – a evidenziare la sgradevolezza
intrinseca allo “stato delle cose”. Ecco allora
affiancarsi ai carusi di zolfara i tanti operai
(memorabili quelli dei depositi di legname risalenti
agli anni ’50) tratteggiati nella loro “desolata” e
“poetica” condizione di “vil meccanici” o ancora i
“sediziosi” contadini delineati nella convulsa
agitazione della propria pulsione ribellistica
durante le lotte con campieri e aristocratici per
l’occupazione di terre e latifondi.
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Non meno incisivo ed
analitico, lo sguardo lanciato da Caruso verso
l’abisso della follia non si limita a coglierne gli
aspetti esteriori e conclamati – ovvero quelle
eccentricità e sregolatezze “rassicuranti” che nella
loro grottesca e macchiettistica teatralità muovono
gli osservatori più al riso che alla presa di
coscienza –, ma incede piuttosto nel senso
“diagnostico” di una mirata (ed impietosa)
enucleazione del dato psico-patologico – grazie a
una acuta e clinica scansione fisiognomica dei
personaggi raffigurati –, cui si associa l’atto di
denuncia – senza remore o infingimenti – d’una
schiacciante condizione di marginalità sociale dalla
quale non vi è fuga, guarigione né riscatto.
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Una capacità di
scandaglio degli stati più alterati della mente, che
Caruso rivela – parimenti – non solo nell’approccio
“sociologico” verso i reietti che albergano nei
manicomi (si guardi la disperata agitazione del
protagonista dell’incisione Povero e pazzo)
o che popolano i marciapiedi e gli anditi più
nascosti d’ogni città (come l’allucinato
Clochard la cui disgraziata condizione è
resa nell’articolata associazione di china e di
colore), ma in particolar modo nella dura messa alla
berlina dei deliri autoritaristici ben celati dietro
la maschera dell’assoluta normalità degli assetti di
potere. Il che avviene – ancora una volta e non a
caso – nei perimetri della narrazione letteraria
(per l’esattezza nella traduzione visuale de
La colonia penale di Franz Kafka), ove il
parvente artefatto del racconto si rivela
imperdibile occasione per un meccanismo di
rappresentazione figurale di tutti quei dinamismi di
carattere psichiatrico da sempre posti alla base di
non pochi dei comportamenti “esemplari” su cui è
strutturata l’intera organizzazione della piramide
sociale.
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E proprio il ricorso a
un tratteggio “espressionistico”, che privilegi la
deformazione febbrile e concitata di mimica e
postura, si conferma non tanto un semplice modulo
linguistico acriticamente e mimeticamente mutuato
dall’alveo teutonico di inizio ‘900, ma uno
strumento lessicale scientemente adottato – fuor di
stucchevoli censure e ingannevoli abbellimenti – in
funzione delle sue enormi (e ancora attuali)
capacità di scavo intrapsichico e di indagine
sociale. Un dato che si evince con chiarezza
inequivoca proprio laddove la proiezione soggettiva
dell’artista sull’oggetto della raffigurazione
appare ancor più forte e conclamata, ovvero in quei
territori dell’eros e della sessualità nei quali le
componenti della compulsività emozionale e del
coinvolgimento affettivo – pur col filtro della
ricerca artistica ed estetica – si manifestano in
maniera più immediata e penetrante. Scene di
amplesso “border-line” per la loro esplicita
componente di violenza (nelle quali il rapporto di
forza fra i due sessi si dipana lungo l’ambiguo e
ineffabile crinale che delimita il totale e
complementare coinvolgimento dei sensi
dall’aggressione unilaterale e dallo stupro
conclamato) si affiancano a innumerevoli ritratti di
donne e di fanciulle (dalla Lupa
verghiana alle meretrici di bordello e alle tante
amiche e modelle d’una vita) con una modalità
“bipolare” che denuncia – al contempo – il contrasto
irrisolto fra lo slancio passionale ed amoroso e il
panico e ancestrale timore per quell’opposto
speculare e misterioso non di rado vissuto (come
nella tradizione simbolista) in termini di furia
incontrollata o di devastante ferinità.
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Solo il malinconico
ritratto di Titina Maselli – anch’essa artista e
amica di Caruso – sembra distaccarsi nettamente
dagli abituali modelli femminili, consegnandoci una
figura malinconica e assorta, resa non con le
predilette tecniche della grafica ma con una pittura
tutta articolata sui toni del blu (non a caso il
colore prediletto da Picasso per lo spleen), ove
l’imprescindibile linearismo si armonizza
sapientemente con la tavolozza nella definizione
della condizione umana ed interiore.
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Un atteggiamento di
assoluta empatia ed immedesimazione, quello
manifestato da Caruso nei confronti degli altri
pittori, che – pur declinato prevalentemente nei
soliti termini di caricaturalità espressiva – assume
tuttavia i toni intensi e assai sentiti d’un
elogiativo disincanto, in grado di ergersi a
metafora compiuta della condizione dell’artista in
ogni ambito storico e geografico.
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Si tratti di Ensor –
ritratto insieme ai suoi personaggi prediletti, come
a omaggiarlo per il suo ruolo di iniziatore e padre
nobile di quel modulo linguistico giunto a Caruso
per il tramite di Dix e Grosz – o di Picasso, Dalì,
Giacometti e vari altri – nell’affollato I
saltimbanchi (per fare ridere la
borghesia) in cui ritorna l’associazione fra
la figura dell’artista e quella del buffone di corte
in una sorta di attualizzazione delle tematiche
velazqueziane – ciò che conta è il riconoscimento
palese ed esibito della relazione coi “maestri” del
passato e del presente quale requisito ineludibile
per la maturazione d’un fare artistico di indiscussa
qualità. Dovuto elogio – dunque – del ruolo guida e
del magistero svolti dai “grandi” ormai
storicizzati, ma anche amaro apologo sull’assoluta
impossibilità per ogni artista di essere null’altro
che un giullare; un povero guitto abilitato – come
in tutti i riti di inversione – a muovere salaci
critiche al sistema, ma nei fatti del tutto
inadeguato a determinarne il benché minimo
sovvertimento e soprattutto a cambiare o deviare in
qualche modo il corso della storia.
Salvo Ferlito (ottobre 2011)
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