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AROMATARIA.
Maioliche da
farmacia e d’uso privato. Le collezioni
fino al 5 marzo 2006.
Si ricorda che il
biglietto consente l’ingresso sia alla mostra temporanea
che alle esposizioni permanenti.
Orari d’apertura:
Tutte le mattine (compreso i festivi) dalle 9,00 alle
13,00.
Pomeriggi:
martedì e giovedì: 14,30/19,00 – mercoledì e venerdì:
14,30/17,30
Biglietto d’ingresso:
intero € 6.00; ridotto € 3,00. Gratuito under 18/over
65.
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LA SFERA D’ORO
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Il recupero di un capolavoro dell’oreficeria palermitana a
Palazzo Abatellis fino al 20 luglio
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Quella dei nostri beni
storico-artistici è spesso storia avventurosa e travagliata. Lo
conferma la rocambolesca vicenda della cosiddetta “sfera d’oro”, un
assoluto capolavoro dell’oreficeria insulare del ‘600, passato
attraverso non poche disavventure per poi rinascere a nuova vita
grazie al sapiente intervento del fiorentino opificio delle pietre
dure.Gli elementi d’una avvincente narrazione – degna della penna
d’un Dumas o, più pacatamente, di quella d’un Manzoni – vi sono
tutti: la monacazione volontaria d’una nobildonna (Anna Graffeo
contessa di Majno) a seguito della prematura morte del marito e poi
del figlio, la donazione ai padri filippini di tutte le sue gioie da
utilizzare per la realizzazione d’un magnifico ostensorio, la
commissione dello stesso ad uno dei più abili orefici palermitani di
quell’epoca (Leonardo Montalbano), l’acquisizione del ricco oggetto
da parte dello stato neo-unitario duecento anni dopo (in conseguenza
della soppressione degli enti ecclesiastici e dell’incameramento dei
loro beni), l’entrata del medesimo nella collezione del nascente
museo cittadino, il suo trafugamento, la distruzione in una miriade
di frammenti al fine di recuperarne e venderne i preziosi
componenti, il loro ritrovamento fortunoso in casa del ladro, e
infine il minuzioso restauro (ad opera di una abilissima
restauratrice orientale, Mari Yanagishita) e il recupero completo
del manufatto così portato al suo splendore originario.
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Perché nel caso della
“sfera d’oro” parlare di splendore
non è punto inappropriato, trattandosi di un autentico
capolavoro in grado di rappresentare al meglio la magnificenza delle
arti decorative insulari in quella fase di lunga transizione dalla
cultura tardo-manierista al nascente barocco.Sintesi e commistione
di linguaggi, secondo uno schema più volte riproposto nella nostra
isola, in cui ogni “vecchio” stile tende ad attardarsi cedendo
lentamente il passo al “nuovo”, a piena conferma di quel
conservatorismo estetico nel quale si riflette la connaturata
diffidenza sicula verso tutti i repentini cambiamenti.
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Basta infatti volgere
un breve sguardo allo splendente manufatto, per cogliere
nell’abbagliante profluvio di ori, smalti e pietre l’intreccio
inestricabile e al contempo l’equilibrata coesistenza di
raffinatezze manieriste e prolissità barocche.Manieriste sono
certamente le figure di angeli alla base, aggraziate nella loro
aerea postura, e tipicamente improntate a quel senso d’artificio che
si cela dietro una parvente naturalità. Già barocco è invece
l’assetto “architettonico” del voluminoso ostensorio, col suo
susseguirsi di pieni e vuoti, di aggetti ed incavi, di luci ed ombre
che caratterizza per l’appunto la retorica
barocca. E barocche – nell’accezione tutta sicula del termine
– sono quella “farneticante” acribia decorativa, quell’ossessione
rappresentativa, quella profusa pirotecnia di preziosi materiali
assolutamente tipiche delle declinazioni autoctone della già verbosa
roboanza di tal linguaggio (a conferma basti guardare gli
assemblaggi di marmi mischi nelle chiese siciliane del seicento).E
d’altronde il Montalbano era (e sarebbe stato) uomo non nuovo a tali
imprese, come dimostrano il precedente “reliquiario del legno della
santa croce” e la spettacolare e successiva “corona della vergine”
di Enna, nei quali la suddetta commistione fra retaggio manierista e
innovazione barocca si percepisce altrettanto chiaramente in tutta
la sua evidenza scintillante.
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Ma la “sfera d’oro” di
Leonardo Montalbano è anche il documento impareggiabile e fedele –
non solo sotto il profilo squisitamente artistico – d’una epoca
venata di religiosità pomposa e teatrale, nella quale gli “apparati”
formali erano chiamati a ribadire non solo i contenuti dottrinari
controriformisti (e con essi il primato della Chiesa di Roma), ma
soprattutto quegli assetti socio-economici, ritenuti inalterabili
(in quanto espressione della “volontà” di Dio), sui quali si fondava
il potere e il ruolo guida della Chiesa.
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Non è dunque un caso
che la nobildonna Graffeo, risoltasi spontaneamente – in tempi fitti
di monacazioni forzate e quindi di vacillanti vocazioni, come nel
caso della coeva suora manzoniana – a chiudersi nel claustro, abbia
deciso di lasciare le sua gioie ai padri filippini, perché ne
facessero un preziosissimo ostensorio “ad maiorem gloriam dei” e
nell’immediato, di fatto, “ad maiorem gloriam ecclesiae”. Proprio
quei padri filippini – paradosso ed ironia della storia – che del
pauperismo paleocristiano, sulla scorta delle teorizzazioni
dottrinarie del cardinale Borromeo, si erano fatti grandi portatori,
trovando peraltro in Caravaggio, nel suo scandalosissimo
“naturalismo” (tanto inviso ad altri ordini), l’artefice ideale d’un
autentico repertorio programmatico per immagini pittoriche.
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E tutto ciò – almeno a
volerla vedere con gli occhi dell’oggi – non senza qualche palese
contraddittorietà, visto che in un’epoca quale quella in esame,
contraddistinta da dilagante povertà, sarebbe stato ben più
opportuno, tanto per la donatrice, quanto per i beneficiari (come
detto neopauperisti), destinare questi beni a miglior causa,
piuttosto che dilapidarli nella realizzazione d’un pur splendido
capolavoro dell’oreficeria liturgica.A
completamento di questo excursus nell’arte gioelliera votata alle
esigenze della religione, a Palazzo Abatellis sarà possibile
ammirare anche ostensori cinquecenteschi (ancora legati a stilemi
tardo-gotici, in ossequio a quegli attardamenti di cui già si è
detto) e coevi ma di manifattura trapanese (e quindi tempestati di
coralli) a testimonianza dell’evoluzione del
“genere” nell’ambito dell’ufficio delle “quaranta ore”,
ovvero della ostensione della eucaristia in riferimento alle
quaranta ore trascorse dal corpo del Cristo nel suo sepolcro.
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- Coppa in
conchiglia
- di nautilus
lavorata
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WUNDERKAMMER SICILIANA
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fino al 5 maggio 2002
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Wunderkammer, ovvero la camera delle meraviglie.
Venivano così chiamate - fra ‘500 e ‘600, e fino al ‘700 - quelle
articolate raccolte di “mirabilia”, di autentiche rarità e stranezze
d’ogni tipo, accumulate in appositi “studioli” dai ricchi
collezionisti di quelle epoche.
Furono gli Asburgo i primi accaniti raccoglitori di preziosi
manufatti d’ogni genere e di insoliti reperti naturali, assemblati
in collezioni destinate a divenire prototipi e modelli per quelle
successive. Quella creata dall’arciduca Ferdinando del Tirolo ad
Ambras, nel suo castello presso Innsbruck, intorno al 1580, di fatto
fondò la tradizione tutta germanica della “wunderkammer”. E non meno
rilevante, per bizzarria ed importanza, fu quella quasi coeva
realizzata dal suo parente Rodolfo II, imperatore d’Austria (il
quale, per fare un esempio esplicativo, raccolse avidamente gli
autentici capolavori d’artificio dipinti dall’Arcimboldi).
In Italia, nello stesso periodo, fu certamente lo “studiolo” di
Francesco I de’ Medici il referente obbligatorio. In esso
confluivano, infatti, interessi “scientifici” - non meno di Rodolfo
II, anch’egli fu un accanito studioso d’alchimia - e più
squisitamente artistici, come attestano i numerosi dipinti collocati
nelle pareti-ante che alludono chiaramente alle diverse pratiche
alchemiche.
Come accennato, in questi ambienti confluiva un po’ di tutto: corni
di rinoceronte, zanne d’avorio, denti di narvalo, gusci di
tartaruga, coralli, minerali rari, gemme, uova di struzzo (tutti
reperti di varia provenienza, anche in virtù del proliferare delle
scoperte geografiche e del conseguente allargamento degli orizzonti
conoscitivi, talora lasciati grezzi e talaltra finemente elaborati e
corredati di preziose montature auree ed argentee fino a divenire
autentici capolavori di gioielleria), ma anche quadri, ceramiche,
reperti archeologici, opere di ebanisteria (soprattutto
stipi-monetari utilizzati quali contenitori) in una variegata
miscellanea, fra bric a brac e prodromi museali, in grado di
suscitare lo stupore dei visitatori d’un tempo e d’oggi.
Ne è un esempio la “Wunderkammer siciliana”, allestita a Palazzo
Abatellis (e visibile fino al 5 maggio 2002) riesumando gli
splendori provenienti dall’ex museo di San Martino delle Scale,
purtroppo sepolti per decenni - come tante altre opere d’arte - nei
depositi della Galleria Regionale di Sicilia.
Tutto il gusto del bizzarro di manieristica ascendenza (si guardino
i due nautili di provenienza nord-europea incisi, fra ‘500 e ‘600, a
motivi floreali, entomologici e mitologici e poi montati su
filigrana d’argento o su ebano ed avorio) e l’ossessiva acribia
decorativa del barocco insulare (ben visibile nel “Trionfo
dell’Immacolata” dei maestri corallari trapanesi di fine ‘600 o
nell’eburneo gruppo del “Giudizio Universale” lavorato come un
merletto forse dal Tipa e dai suoi aiuti nel secondo ‘700) vi
trovano infatti ampia e piena fruibilità, evidenziando - una volta
di più - l’assoluta inesistenza di confini fra arti “maggiori” e
“minori” (o decorative).
Natura ed artificio, curiosità parascientifica, virtuosismo
artistico, tassonomie più o meno immaginarie (si pensi alle mitiche
classificazioni dei bestiari medievali od ai fantasiosi resoconti
dei tanti esploratori) confluiscono in un susseguirsi di manufatti
di prodigiosa bellezza, capaci di ricostruire (anche attraverso
adeguate ambientazioni, come lo studiolo che rievoca le atmosfere
dei dipinti seicenteschi di Baschenis o con l’ausilio di tele quali
il“San Girolamo nello studio e Vanitas” del caravaggesco van
Drielemburg) non solo la temperie storico-artistica, ma anche quella
sociale, culturale ed economica di tempi in cui tali manie
collezionistiche erano appannaggio soltanto di ristrettissime elites
(ovvero nobiltà e clero).
Un percorso di grande suggestione, corroborato da una vasta scelta
di dipinti filologicamente disposti su più livelli a creare una
ideale quadreria dell’epoca. Fra questi, particolarmente coerenti
con le tematiche trattate, il “Ragazzo con canestro di fichi” di
ignoto pittore caravaggesco ed il”Vecchio che sfoglia una lattuga”
di autore riberesco, nei quali il gusto per l’insolito tende a
sfociare in un interesse quasi morboso per l’idiozia e per i guasti
prodotti dalla miseria e dall’età.
Una occasione assolutamente da non perdere per chi voglia
appropriarsi di una memoria troppo spesso negletta o dimenticata.
La mostra, curata da Vincenzo Abbate con il contributo di molti
altri studiosi, si avvale di un ottimo catalogo edito da Electa.
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