Chiunque,
anche non addetto ai lavori, abbia avuto occasione di
visitare uno dei tanti musei di arte contemporanea
sparsi per il mondo, avrà avuto modo di constatare che
ognuno di essi risponde a dei criteri ferrei e
ineludibili, in assenza dei quali non è possibile
ricorrere all’altisonante appellativo di “museo”,
dovendosi ripiegare sulla più congrua (e meno
propagandistica) definizione di “spazio espositivo”.
Un museo di arte contemporanea, infatti, oltre ad ampi
spazi per le collezioni permanenti, deve assolutamente
possedere altri ambienti per le mostre temporanee, una
sala per le conferenze e le video-proiezioni (che,
all’occorrenza, possa fungere anche da auditorium), una
biblioteca e un archivio consultabili. In mancanza di
questi prerequisiti (che non sono opinabili e quindi
oggetto di più o meno dotte disquisizioni di carattere
museologico e museografico), di tutto sarà pur lecito
chiacchierare, fuorché di effettivi contesti e
allestimenti di tipo museale.
Ora, per entrare in “medias res”, volendo calare questo
protocollo morfo-funzionale nel nostro singolare (e come
sempre anomalo) contesto cittadino, applicando i
suddetti parametri al neonato RISO (presunto e
millantato museo di arte contemporanea della Sicilia),
se ne ricava l’ennesima, straniante sensazione di
completa mancanza di senso della realtà e della misura.
Non si tratta – sia chiaro – di un mero problema di
natura lessicale o semantica, ma propriamente d’una
totale latitanza di tutte quelle minime condizioni
“tassonomiche”, in base alle quali è effettivamente
possibile applicare la categoria museale ad una
istituzione che raccolga ed esponga opere d’arte (e che
come “museo” si ponga nei confronti del pubblico).
Sarà per il clima, sarà per la pirandelliana “corda
pazza” o per la tanto sbandierata “insularità” (o più
semplicemente e veritieramente per il solito miscuglio
di provincialismo e furbizia inveterati), ma sta di
fatto che alle nostre latitudini la montagna partorisce
puntualmente topolini, e in più d’un caso (e il RISO
rientra pienamente nell’ambito in questione) con pesanti
effetti teratogeni dagli esiti abortivi e comunque assai
disfunzionali.
Basterebbe qui ricordare che in occasione della
presentazione alla stampa della nascente istituzione la
conferenza fu tenuta nel vicino Hotel Centrale, anziché
– come sarebbe stato d’uopo – in un’apposita sala
dell’edificio, e poi aggiungere che le sue architetture
non sono in grado di contenere contemporaneamente una
collezione permanente ed una esposizione temporanea, per
comprendere appieno come RISO sia ben distante da quelle
premesse di cui si è detto, non potendo essere
minimamente annoverato come museo, ma semplicemente come
spazio espositivo.
Poiché ci si ritrova puntualmente, ogni qual volta in
Sicilia si ha a che fare con le politiche culturali e
con le iniziative ad esse correlate, a dover scegliere
fra la esaltazione del bicchiere mezzo pieno e la
deprecazione del mezzo vuoto (essendo a quanto pare
impossibile formulare un giudizio univoco e condiviso),
personalmente ritengo di dovere sottolineare che il
bicchiere – nello specifico – parrebbe tutto vuoto,
poiché del museo – al di là di roboanti dichiarazioni da
milites gloriosi – non si vedono né tracce né premesse.
Non si capisce il perché, infatti, non si sia deciso di
puntare su tutt’altri edifici di rilevanza
storico-artistica e monumentale (il problema non sta nel
fatto che si sia adottato un palazzo antico, anziché
optare sulla costruzione ex novo di un edificio
ultra-contemporaneo), vista e considerata l’abbondanza
di spazi di tal genere presenti nel tessuto urbanistico
della città e per altro appartenenti a pubbliche
amministrazioni.
Perché, ad esempio, non si è preso in considerazione
l’utilizzo dell’Albergo delle povere (anch’esso della
Regione), il quale è dotato di ampi stanzoni al piano
terra, di una grande sala per le conferenze al piano
superiore, di una corte centrale e di due laterali (una
per ciascuna delle ali dell’edificio), di una chiesa non
meno fruibile come luogo espositivo e inoltre d’una
parte (quella ancora adibita ad ospizio) che potrebbe
essere altrettanto recuperata ed utilizzata (trasferendo
magari gli ospiti in un contesto più aggiornato e
funzionale)?
O ancora, perché non si è dato corso al progetto di
pieno recupero dei Cantieri Culturali alla Zisa, che
prevedeva un ben mirato utilizzo dei vari padiglioni
della ex fabbrica Ducrot e che avrebbe consentito di
costruire non solo un museo di arte contemporanea
secondo i criteri precedentemente indicati, ma
soprattutto di effettuare la debita valorizzazione d’una
intera zona di significativa importanza storica ed
artistica (comprendente, per l’appunto, la Zisa, il
recentemente restaurato villino Florio, gli edifici
ottocenteschi di piazza principe di Camporeale e di via
Noce, la non troppo distante villa Whitaker),
permettendo la realizzazione d’un ben interrelato polo
di attrazione turistica e culturale?
Non basta, infatti, l’escamotage del museo diffuso (una
specie di “network” che annovererebbe Fiumara d’arte a
Tusa, le collezioni d’arte contemporanea presenti a
Gibellina ed eventuali altri spazi da definire sul
territorio), in quanto questa trovata “puzza” alquanto
di “excusatio non petita” (e quindi di “accusatio
manifesta”) e “suona” come legittimazione d’una serie di
più o meno piccoli “potentati” artistici presenti e
operanti sul territorio insulare, di cui non si discute
minimamente il valore culturale (né la palese
meritorietà dell’operato di Presti a Tusa né la
encomiabile forza di volontà dell’agire di Corrao a
Gibellina), ma rispetto ai quali non si vorrebbe vedere
una sorta di imprimatur feudale da parte delle
istituzioni politiche, atto a giustificare acriticamente
(soprattutto se col sostegno dei soldi del contribuente)
qualsiasi iniziativa futura, magari assai strampalata,
modaiola o di discutibile valore artistico e culturale.
Altro discorso ed altro atteggiamento si imporrebbero
qualora si parlasse più congruamente di spazio
espositivo, in quanto ciò si rivelerebbe ben più
appropriato alle reali possibilità di palazzo Belmonte
Riso, consentendo di uscire da un’altisonanza non
corrisposta dalla fattiva capacità operativa delle
architetture (che, non si dimentichi, sono quanto rimane
dopo i bombardamenti del secondo conflitto mondiale) e
di limitare il giudizio esclusivamente alla qualità
degli allestimenti temporanei ed al valore delle opere
in esposizione.
Assodato, dunque, che di “museo” (né limitato né
diffuso) non si possa parlare, per quanto attiene alle
mostre fin qui tenutesi, la valutazione, nel suo
complesso (seppur con qualche perplessità), non può
comunque che esser positiva, in considerazione del fatto
che qualsiasi iniziativa che permetta un contatto non
episodico e sufficientemente “strutturato” con il “qui
ed ora” delle arti visive contemporanee deve essere
accolta sempre con favore, soprattutto in una città ed
una regione, ove, al di là di vissuti modaioli
(riconducibili alla capacità degli “strateghi” della
comunicazione di alimentare un’idea di desiderabilità
sociale ed un appeal di tipo elitaristico in connessione
col singolo “evento cultural-mondano”), vigono e
permangono dei diffusi criteri di lettura e
apprezzamento delle opere d’arte di stampo fortemente
conservatore, generalmente improntati alla predilezione
degli aspetti più decorativi e didascalici.
In tal senso tanto “Lo spirito del tempo”, quanto
“Passaggi in Sicilia” (queste prime due seppur con non
poche discutibili parzialità nelle ricostruzioni delle
vicende artistiche siciliane in alcuni dei saggi in
catalogo) e ancor più “Essential Experiences” hanno
svolto adeguatamente questo compito, per così dire
pedagogico, consentendo ai visitatori una diretta presa
di visione dell’operato di artisti totalmente immersi
nel flusso del contemporaneo, sì da poterne valutare a
pieno il senso (ma anche il non senso) del loro ideare
ed agire, nonché (e questo è uno dei connotati più
rilevanti) da ricavarne una significativa occasione di
analisi e comprensione delle dinamiche (non sempre
propriamente virtuose e in più d’un caso assai perverse,
in quanto improntate a mere e bieche logiche di mercato)
agenti all’interno del cosiddetto “sistema” (e il
termine è già quanto dire) dell’arte contemporanea.
Poco importa, per tanto, chi sia stato inserito in
ciascuna delle tre esposizioni (benché l’inclusione o
l’esclusione degli artisti siciliani in attività possa,
quanto meno a livello locale, condizionarne fortemente
il mercato, statuendo delle “gerarchie” di merito
marcatamente opinabili e benché l’elevazione al rango
museale di qualche congrega cittadina di giovani dediti
al cazzeggio lasci alquanto perplessi, facendo piazza
pulita di quei basilari criteri qualitativi su cui
fondare il vero valore artistico), poiché quello che
conta maggiormente è l’effettiva capacità di costruire
un coerente itinerario espositivo attorno ad una idea
guida sufficientemente forte e convincente. E questo è
certamente uno dei meriti di “Essential Experiences”,
mostra capace di accorpare attorno al filo conduttore
dell’inesorabilità del trascorrere del tempo e della
connessa morte un insieme di opere la cui congruità e
pertinenza non esulano quasi mai da una qualitativa
capacità di impatto visuale e da un apprezzabile
spessore estetico. Non solo, dunque, un assemblaggio di
“firme” e “stars” del panorama artistico nazionale ed
internazionale, ma un ensemble di “interventi”
generalmente ben cogitati e posti in essere, sì da
restituire agli osservatori tutta quella congerie di
stati mentali che si accompagnano alla percezione della
finitudine terrena e al memento mori. Neo-vanitas, come
“Skull” di Gerhard Richter, o altrettanto classici “col
tempo”, come la serie di autoscatti “Opalka” con cui
Roman Opalka ha crudamente immortalato il proprio
invecchiamento, o ancora frigide e inquietanti
evocazioni mortuarie, quali i marmorei “Ghost boy” e
“Kids on tomb” di Kevin Francis Gray, e moniti del tipo
“polvere alla polvere”, la bellissima serie di
agghiaccianti “Self-portrait” di Anselm Kiefer, o
simbolici vedutismi con rovine, “La Grande Galerie 1 e
2” di Danica Dakic’, non solo non appaiono minimamente
pretestuosi (a differenza di non poche opere d’arte
contemporanea, che fanno d’una ben studiata e
prevedibile provocatorietà un carattere fondante), ma
viceversa del tutto in grado di coinvolgere i visitatori
in una condizione simpatetica, ove la condivisione delle
emozioni e dei sentimenti, che questi annosi temi
sollevano, si rivela di forte intensità e di piena
compiutezza. Il tutto in una riuscita dialettica coi
“maestri” del passato prossimo e remoto e nel rispetto
di quell’obbligata relazione fra ideatività e fabrilità
artistica, in assenza della quale tutto si riduce ad
arido concettualismo o a semplice operazione mercantile.
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