PALAZZO  ZIINO
Via Dante, 53- Palermo
 
 
ANNA  KENNEL
Di mare e di terra
fino al 30 novembre 2011, ogni giorno, tranne i lunedì, dalle 9,30 alle 18,30
 
 
Se fosse nata in altre epoche (e se i costumi di quei tempi lo avessero permesso), Anna Kennel sarebbe stata senza dubbio una grande amanuense e un’impareggiabile pittrice di spettacolari miniature.
L’inconfondibile nitore del suo segno, l’estrema precisione nel delineare e dare forma al proprio immaginario, l’armoniosa raffinatezza nell’orchestrare e amalgamare le cromie, l’adesione incondizionata e programmatica al verbo figurativo, l’approccio quasi scientifico e sentitamente ecologista al mondo naturale, infatti, sono tutti caratteri fondanti e costitutivi d’un modo assolutamente “classico” di considerare il proprio ruolo di artista visuale.

 

Non si tratta di ostentare una “snobistica” posizione di retroguardia, che faccia dell’anacronismo linguistico un connotato da contrapporre alle più assurde (e meno fabrili) derive della contemporaneità, quanto – piuttosto – di affermare, con forte e assoluta convinzione, l’imprescindibile rilevanza del completo controllo delle tecniche grafiche e pittoriche ai fini d’una piena e consapevole progettualità artistica e – soprattutto – d’una efficace e riuscita capacità di traduzione visiva di quanto eletto a idea guida e referente irrinunciabile.
Anna Kennel ama il mondo naturale e ne canta l’incommensurabile bellezza; ma ciò senza mai incorrere nella fuga dal reale, e ancor meno senza indulgere ad artifici di retorica o a stucchevolezze estetizzanti.

 

Il suo linguaggio e la sua sintassi figurativi nulla, infatti, concedono alle facili piacevolezze o ai semplicismi didascalici; viceversa – pur nella totale fedeltà alla verità ottica – si rendono capaci di una assai intensa efficacia narrativa, impregnata d’un sostrato emozionale ed affettivo mai squillante o esibito, ma espresso con misura attraverso un lirismo raffinato ed elegante.
Nessun tono languidamente elegiaco (tipico di chi rimpianga un Eden idealizzato e ormai perduto) né tanto meno teatralmente allarmistico (come è proprio di coloro che mirino a suscitare delle facili emozioni), ma un approccio carico di un profondo sentimento di rispetto per la natura, metodicamente esplicitato con le modalità espressive che pertengono ad un’autentica “naturalista” (nel solco tracciato da grandi miniatori medievali quali Giovannino de’ Grassi o da maestri del Rinascimento come Albrecht Durer o del tardo Manierismo come il Ligozzi), la quale punti a coniugare l’oggettività della raffigurazione con le pulsioni affettive della propria soggettività.

 

In tal senso, Di mare e di terra – titolo non a caso evocativo e di indiscussa congruenza – si conferma – incontrovertibilmente – quale tappa ulteriore lungo un iter pluridecennale di estrema e ostinata coerenza linguistica e tematica; un ennesimo raggiungimento, con il quale ribadire il fermo e programmatico intento di fare del racconto della fragile armonia, insita nel mondo naturale, un’occasione di proficua riflessione su quelle dinamiche oltraggiose e distruttive che l’uomo pone in essere, nei confronti dell’ambiente, ad ogni latitudine. La mimesi figurativa si fa dunque funzione appropriata d’una ferma volontà di denuncia delle insidie cui la terra è sottoposta per ottusa cupidigia o mera superficialità, e tutto ciò rifuggendo da catastrofismi esibiti e plateali e propendendo invece per lo smascheramento simbolico e allusivo o per il ricorso allo humour e all’ironia.
La scelta ben mirata e ponderata dei soggetti da rappresentare, l’orchestrazione perfettamente equilibrata delle composizioni, il ricorso a cromie declinate con tonalità delicatamente “affettive”, per tanto, sono tutte soluzioni tecniche, lessicali e narrative che non rispondono mai ad umorale estemporaneità o ad impellenza comunicativa, ma che costituiscono il frutto d’un “mestiere” ben affinato nell’esercizio rigoroso di mente e mano, grazie al quale – quindi – poter efficacemente impaginare degli apologhi visivi (allegorici nel caso delle tele, umoristici nel caso delle pietre) ove la componente dell’impegno ecologista non si scinde in alcun modo da quella della ricercatezza estetica.

 

Ne consegue che la forte iconicità (connotato strutturale della pittura di Anna Kennel), associandosi ad una composta sacralizzazione del dato di natura (tipica di chi riconosca nella physis l’amnios irrinunciabile per il vivere ed esistere), contribuisca consistentemente ad alimentare una fabulazione al contempo simbolica ed evocatrice, capace di irretire contestualmente con la penetranza ottica dei singoli particolari o con l’euritmico comporsi d’ogni insieme. Così una candida irruzione di cirro-nembi sulle azzurrità aeree e marine (Nuvole) si fa metafora compiuta dell’incommensurabile potenza di cui è foriera la natura; e parimenti, la visuale a precipizio lungo un pendio che conduce a un litorale (Di mare e di terra), col suo armonico comporsi di cielo, mare, vegetazione ed arenile, si erge a riflesso abbacinante d’una bellezza totale ed assoluta, ma sempre in fragile equilibrio con l’intrusione della presenza umana. Altrove (Nell’aria...), un albero sospeso “totemicamente” nella vastità celeste, in contrapposizione a una ringhiera su cui poggia un uccellino, si pone come soggiogante visione di quella idea di sacro e di sublime che da sempre si associa all’imperiosa maestà degli elementi naturali.
Ma è soprattutto nella spettacolare sequenza di pietre dipinte ed arricchite con ogni sorta di conchiglie e di decori, che la meditazione sui rischi e sui pericoli cui è soggetta la biosfera raggiunge il proprio spettacolare e inconsueto acme, travalicando gli steccati d’una esplorazione prevalentemente estatica della realtà, in direzione d’un fare artistico la cui dilettevole leggiadria non rinnega, né tanto meno esclude, lo spessore e la rilevanza dell’ispirazione.
E’ qui – in questo articolato e multiforme catalogo di deliziose caricature – che si esplicita al grado più elevato l’intero potenziale ideativo, tecnico e linguistico dell’arte di Anna Kennel: un inceder dal registro favolistico, capace di coinvolgere simpateticamente gli osservatori nella trama narrativa, ma senza mai ricorrere a sovraccarichi di pathos, di paura o commozione.
 
Piuttosto è muovendo al riso (magari di retrogusto amaro) o ricorrendo ad una giocosità di tipo fanciullesco (ma non per questo dagli esiti impalpabili o meno consistenti), che “il messaggio” ambientalistico della nostra Anna diviene ancora più diretto e penetrante, poiché corroborato da quella efficace e fresca immediatezza che è tipica della battuta improvvisa e folgorante o del motto  salace e irriverente. Infatti, è proprio grazie a questo “casellario” di buffi tipi e personaggi (tratteggiato con un gusto per la fisiognomica e con un’attitudine allo scavo psicologico che rimandano, ancora una volta, alla precisione del disegno e della pittura di altri tempi), ancor più che attraverso il suo raffinato paesaggismo, che Anna Kennel riesce a consegnarci una gamma variegata e puntuale dei molteplici e distinti stati d’animo (stupore, incredulità, menefreghismo, furbizia, stolidità) che il contatto con la natura (e soprattutto coi tanti problemi che la attanagliano) può indurre e suscitare nei singoli individui.
Al contempo miniature e “naturalia” (e come tali “mirabilia” degne d’una wunderkammer seicentesca), questi piccoli capolavori di acribia esecutiva ed arguzia fabulatoria costituiscono – dunque – un ensemble di notevole impatto visuale e di significativa penetranza narrativa; un dovizioso compendio di quelle irrinunciabili qualità e doti di cui ogni vero artista dovrebbe essere fornito – fertile inventiva e perizia virtuosistica, attitudine al racconto e competenza lessicale –, col quale la nostra Anna ribadisce l’intramontabile “classicità” d’un fare artistico che non è disposto a scendere a facili compromessi con le corrive lusinghe del concettualismo senza tecnica o con gli effimeri neo-manierismi della peggiore contemporaneità.
 
 
                                                                                                                      Salvo Ferlito

 

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RECENSIONI  FINO  AL  2010

 

 

EGON SCHIELE

(1890-1918)

5 giugno - 1. agosto 2004

In collaborazione con il Comune di Palermo, il Leopold Museum di Vienna dal 5 giugno al 1. agosto 2004 presenta per la prima volta a Palazzo Ziino un’ampia raccolta di opere, tratte dalla sua collezione, dell’espressionista austriaco Egon Schiele.
Per questa mostra sono stati selezionati 60 lavori del suo breve e affascinante periodo creativo. Tra i dipinti e i disegni si trovano alcuni pezzi di primaria importanza, come il primo dipinto espressionista “Nudo maschile seduto” (autoritratto) del 1910, oppure “Cardinale e monaca” del 1912.
Tutte le opere esposte provengono dall’ex raccolta privata del Prof. Rudolf Leopold. Il collezionista d’arte viennese cominciò la sua collezione già durante il periodo degli studi di medicina, all’inizio degli anni Cinquanta, quando Schiele era ancora in gran parte sconosciuto.
Nell’agosto del 1994 la raccolta, che comprendeva 5266 opere incentrate sull’arte austriaca del XIX e XX secolo (valore stimato: 570 milioni di Euro) fu inserita in una fondazione privata.
Oggi questa collezione unica, che include anche la più ampia raccolta di opere di Egon Schiele esistente al mondo, è visibile presso il Leopold Museum, inaugurato nel settembre 2001 nel Quartiere dei musei di Vienna.
   
Organizzazione:
Comune di Palermo
Assessorato alla Cultura
Ufficio Cultura e Spazi Espositivi
 
Orari:
Da martedì a domenica
dalle ore 9,30 alle ore 19,30
Lunedì chiuso
Informazioni:
Palazzo Ziino – Via Dante, 56 – Palermo
Tel. 091.7407610  -  Fax 091. 7405900
 
Ufficio Cultura e Spazi Espositivi
Tel. 091.7405910
  
Sito internet:
EGON SCHIELE
Se c’è un tempo in cui la modernità ha mostrato tutte le sue piaghe, rivelando una crisi già profonda e irreversibile, quel tempo è stato – paradossalmente – la tanto decantata Belle Epoque. Proprio nel bel mezzo del trionfo del mito della macchina (si pensi ai tentativi pionieristici dei Wright, alle prime corse automobilistiche, alla diffusione della cinematografia, della elettricità o del telefono e alle conseguenti teorizzazioni futuriste), concretizzazione e apoteosi del pensiero positivista e quindi del fideismo nei confronti delle potenzialità di scienze e tecnologie, proprio in quella euforica temperie, nel cuore dell’Europa (nella cosiddetta “mittleuropa”), si andava infatti profilando un tal malessere individuale (e con esso un insieme di scompensi collettivi) da condurre non solo alla fine di quel mondo (nell’immenso macello della prima guerra mondiale), ma da aprire soprattutto la strada alle complesse problematiche della contemporaneità.
Mentre le orchestrine militari – dalle divise elegantemente rifulgenti – andavano intonando marce e marcette più o meno cadenzate, e nei palazzi nobiliari ci si inebriava dei valzer e delle polche degli Strauss, dietro la dorata apparenza di prosperità tarli oscuri e fantasmi d’ogni tipo operavano quella loro destabilizzante azione (con tanto di allarmanti scricchiolii) che di lì a poco si sarebbe manifestata in tutto il suo “boato” annichilente.
Scienziati, pensatori e artisti – come Freud, come Kraus, Musil e Schinitzler, come Klimt, Gerstl, Schomberg, Kokoschka e Schiele –, dando corpo al loro immaginario (in termini teorici e formali), hanno infatti saputo esprimere tutte le tensioni albergate sotto la coltre di propagandistico (e ipocrita) ottimismo e si sono erti ad impietosi analisti della propria epoca, di cui hanno lasciato una ricognizione ben più attenta ed attendibile delle tante cronache ufficiali elaborate dai contemporanei.
Se Freud, attraverso l’ideazione delle teorie psicoanalitiche, giunge a scoperchiare il complesso di nevrosi che si agita come un verminaio sotto il manto inibitorio del conformismo vittoriano, e se Kraus, con i suoi aforismi fulminanti e con le sue opere di drammaturgo, arriva a disvelare l’inconsistenza d’un sistema e d’una società (l’impero austro-ungarico) ormai giunti al capolinea della storia, pittori come Gerstl, Schiele, Kokoschka e in parte anche Klimt, dal canto loro, danno visibilmente corpo a questo autentico tracollo epocale, portandone alla luce tutta la drammatica ed annichilente complessità.
Già Klimt – che per Schiele fu un riferimento –, nella suadenza “jugendstil” e bizantineggiante dei suoi raffinatissimi soggetti, mostrando l’intensa componente tanatologica celata nelle pieghe della beltà dei corpi femminili, aveva di fatto aperto la via – pur nei limiti imposti dalla estenuato estetismo secessionista – a quel crudo Espressionismo destinato a divenire il principale manifesto di denuncia nei confronti d’un ordine di valori ormai corroso ed obsoleto.
 Ma è soprattutto Schiele, col suo linguaggio dirompente e radicale,  a sviluppare ed a portare alle estreme conseguenze quanto già in embrione nel lessico klimtiano.
Nella disseccata nodosità dei corpi nudi, nonostante qualche permanenza di scorie secessioniste (nel gioco di tessere policromatiche che anima le vesti ed i tessuti o nell’accostamento quasi astratto delle vedute), si riflette con ossessiva precisione tutta la virulenza d’una  condizione personale (ma paradigmatica d’uno scompenso collettivo) vissuta come trappola o pania terribilmente soffocante. Eros e thanatos, più che convivere (in un rapporto freudianamente quasi equilibrato), si contendono il soma dei soggetti – raffigurati singolarmente o in coppie di mummificati amanti – con una ormai fin troppo netta prevalenza della morte sulla spinta vitale dell’amore. Anzi, la sessualità pare farsi riuscita allegoria di quel “falso movimento”, di quell’ostentato vitalismo (esibito in ogni dove), che alla fine si palesa come mero spreco usurante e iterativamente senza senso.
Il grafismo nevrile, al contempo rarefatto ed incisivo, peculiare dell’intera produzione di Egon Schiele, è dunque strumento altamente funzionale allo scavo della psiche operato per progressiva rimozione (e consunzione) del “superfluo” che, appesantendo i corpi, ne scherma totalmente l’interiorità. Come se Schiele avesse trovato il modo ottimale per evidenziare quella nascosta sofferenza, che la “maschera” corporea pare sottrarre all’impietosa azione dell’occhio indagatore.
Non sappiamo cosa sarebbe stato dell’opera del pittore austriaco se avesse vissuto più a lungo, sottraendosi alla mannaia della spagnola (la terribile pandemia influenzale che decimò milioni di persone sul finire del primo conflitto mondiale) e potendo così portare a piena maturazione le sue notevoli intuizioni artistiche. La sua pittura sembrava infatti orientarsi verso uno scioglimento delle tensioni ed aprirsi ad una più serena visione della vita. Il proprio ritratto insieme alla moglie ed al figlioletto (in verità non ancora nato e del quale Edith era in attesa), eseguito con modalità grafiche e coloristiche assai meno incisive e decisamente più delicate, rivela infatti una proiezione verso un futuro ricco di grandi aspettative e di desiderate gioie familiari.
Un destino, forse crudele o semplicemente puntuale (nel segnare con la fine d’un’epoca anche quella di chi l’aveva preannunciata), lascia irrisolto questo quesito, consegnando a soli 28 anni Egon Schiele alle pagine più importanti della nostra storia.vai alla scheda personale di Salvo Ferlito

 

   

 

D. Cambellotti
"Targa Florio 1907"
G.Balla 
"Motivi di forme rumore"
G.Grosso 
"Ritratto di VIncenzo Florio"
 VINCENZO FLORIO 
E L’ILLUSIONE DELLA MODERNITA’  

Il cognome Florio evoca ancor oggi l’immagine di una Palermo moderna e cosmopolita. L’immagine – per l’appunto – della Palermo “fin de siecle”, meta obbligata delle elites europee dell’epoca (dal kaiser ai reali d’Inghilterra) e capitale internazionale della mondanità e della nascente Art Nouveau.

Non stupisce, quindi, che a Vincenzo Florio, uno degli assoluti protagonisti di quel tempo, venga dedicata una intera mostra (visibile a palazzo Ziino fino al 31 agosto), in grado di ricostruirne il ruolo e il percorso personale, nonché di rievocare i fasti d’un mondo e d’un ambiente capaci di segnare, nel bene e nel male, in maniera indelebile la vita cittadina ed insulare.

La parabola dei Florio – poiché di parabola si tratta, con tanto di ascesa, picco e declino – è infatti un topos indiscusso di quelle dinamiche socio-culturali che, negli ultimi due secoli, hanno accompagnato, in Sicilia ed anche altrove, il rapido formarsi di ingenti patrimoni e di imperi economici.

Simile, per molti aspetti, alla vicenda di altri nuovi ricchi, quella dei Florio è la classica “scalata” degli ultimi arrivati (nel senso stretto del termine, poiché giunsero a Palermo dalla natia Calabria solo a fine ‘700) che, grazie al loro ingegno e al loro inoppugnabile talento mercantile ed imprenditoriale, riescono a toccare il vertice assoluto della piramide sociale. Non a caso, da semplici droghieri, quali furono agli esordi, nel volgere d’un secolo divennero – insieme a pochi altri, per lo più inglesi come i Whitaker – i dominatori incontrastati del panorama economico e socio-culturale della loro epoca.

Ma non dissimilmente da altri recenti possessori di imperi finanziari (si pensi agli Agnelli), purtroppo anche i Florio non seppero resistere alle “sirene” del “bel mondo” aristocratico, di fatto stemperando il loro energico spirito alto-borghese nelle anergiche mollezze tipicamente nobiliari. Non è pertanto senza motivo, che questa mostra – attentamente curata da Marina Giordano – sia incentrata proprio su Vincenzo, ultimo rampollo della dinastia (figlio di una d’Ondes Trigona e marito di una Alliata), chiamato dalla sorte a vivere gli effimeri bagliori d’un inarrestabile crepuscolo.

Nei suoi poliedrici interessi si trovano a convivere, in una ossimorica miscela, slanci imprenditoriali e lussi signorili, intuizioni e sagacie proprie dei borghesi e frivolezze squisitamente gentilizie. Ecco allora l’interesse per la pittura, coltivato in prima persona sia quale praticante che come mecenate (con una apertura avanguardistica verso il Futurismo, attestata dalle molte tele di importanti futuristi siciliani e continentali in esposizione), associarsi alla pratica e alla promozione di attività sportive (la Targa Florio sopra tutte) divenute ben presto memorabili. Ma anche mondanità fatue e dispendiose, ritualità molto autocompiaciute proprie dell’alta società (però vissute con qualche tocco di critica ironia) e una certa indifferenza per la realtà sociale circostante – ma si sa noblesse oblige – non sufficientemente bilanciata da quel gusto per la modernità troppo incentrato sugli esclusivi interessi della classe dirigente.

La tanto celebrata Palermo (e Sicilia) “fin de siecle” è infatti una terra martoriata da arretratezza e povertà, con un tasso di analfabetismo straripante e condizioni igieniche pietose, e nelle quale la maggior parte della popolazione vive in uno stato di mera sussistenza e del tutto tagliata fuori dalle conquiste moderne vanto e merito dei Florio. Ma una modernità intesa come status symbol, come lusso per pochi eletti, senza ampie ricadute sociali, è più il segno del permanere di vecchi privilegi, che l’avvisaglia di un avanzante rinnovamento radicale.

Un limite operativo e di vedute nel quale, forse, è da cercare, al di là delle congiunture sfavorevoli, il vero motivo del tramonto di questa – comunque grande – dinastia di imprenditori.

 


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"Il senso e l’idea" 

FRA SOGNO E VISIONE, IL FREDDO UNIVERSO MENTALE DI BRECCIA

Di Pier Augusto Breccia una cosa si può dire con certezza: si tratta di un eccellente grafico, sostenuto da una tecnica mirabile.

Una tecnica al servizio d’un incontenibile afflato visionario, in grado di produrre un allucinante – ma un po’ freddo – universo parallelo ove tutto è improntato a geometrica ed armonica euritmia.

Nelle incredibili immagini di Breccia, infatti, confluisce un anelito alla perfezione, attestato dalla estrema precisione e finitezza del tratteggio (anche nella pittura ad olio) e da un gusto architettonico altamente descrittivo che ha i suoi referenti nella grande tradizione quattro-cinqucentesca (come non pensare alla “città ideale”, da alcuni attribuita a Piero della Francesca), ma anche nei capricci architettonici sei-settecenteschi, nelle vedute piranesiane, e infine nelle misteriche costruzioni dechirichiane e nelle deliranti strutture “non sense” di Escher.

Una filiazione, quella dalla inquietante (per il suo mettere a nudo i limiti percettivi e cognitivi della mente e quindi i nostri fondamenti logici) grafica di Escher, che Breccia tenderebbe – almeno a parole – a ridimensionare, ma che appare assai evidente, in tutto il suo portato formale, in molte delle opere in esposizione fino al 27 aprile a Palazzo Ziino. Da “Waterville” ad “Exodus”, da “Gli scalatori del cielo” ad “Aut-Aut”, da “Labirinto n.1” e “Labirinto n.2” fino a “Complessità” e “Salomone”, è infatti tutto un continuo riferirsi al grande olandese, del quale, però, a onor del vero, Breccia non riesce a riproporre a pieno la penetrante capacità di destabilizzare mentalmente l’osservatore.

E tutto ciò, nonostante (o forse per) l’adozione del colore, il quale, pur accattivando ed irretendo i riguardanti, finisce anche con l’acuire le componenti didascaliche, facendo di queste immagini delle eleganti e un po’ algide illustrazioni, assai adatte a delle pubblicazioni di fantascienza o di letteratura favolistica per l’infanzia. Un dato che pare rafforzato da un complesso e alquanto retorico ridondare di simboli e metafore – ricorrono spesso le figure del funambolo e dell’acrobata, come a rimarcare la condizione di assoluta precarietà dell’esistenza umana –, le quali senza dubbio emanano un suadente magnetismo, ma che pure sottraggono scioltezza alla narrazione, di fatto alquanto appesantendola.

Ciò nonostante, l’articolata poetica di Breccia merita notevole attenzione, non fosse altro che per la sua capacità di distogliere la psiche di chi la accosta dal banale grigiore quotidiano, per ricondurla in un mondo parallelo di pura fantasia e idealità, ove l’incanto e l’arcano la fanno comunque da padroni.

Forte d’una vasta cultura medica (Breccia è un cardiochirurgo), l’artista ama infatti punteggiare le sue opere di molteplici elementi bio-molecolari, quali le strutture capsidiche virali (si guardi la superficie del pianeta in “Exodus” o ancora lo slancio delle svettanti architetture in “Central Park”) o le spirali degli acidi nucleici (come nel vorticoso “Abisso”), quasi sospinto dalla ferma volontà di dimostrare come tutto sia inevitabilmente sottoposto anche a ferrei e indiscutibili principi architettonici promananti da un imperscrutabile assoluto.

Parlare dunque di Breccia, definendolo un metafisico o un surrealista, è forse semplicistico; ma proprio a questo filone delle arti visive, sviluppatosi nel secolo trascorso, è d’obbligo ascriverne la variegata produzione, senza però che una tal tassonomia costituisca alcuna diminutio.

Proseguire nel solco d’una tradizione che ha fatto del disvelamento delle proiezioni immaginifiche, oniriche e allucinatorie il suo carattere fondante ci pare comunque una scelta meritevole di lode, maxime in un’epoca in cui il gretto pragmatismo viene propagandato in maniera fin troppo ossessiva e tracotante, coartando sempre più i margini del sogno e della visione.


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Gli addii di Ettore e Andromaca

 

L'enigma du retour

“Miti, enigmi, inquietudini”
IL RITORNO DEL “METAFISICO”
de CHIRICO NELLA SUA SICILIA
 
Le muse inquietanti“Et quid amabo nisi quod aenigma est?” (e che cosa amerò se non ciò che è enigma?).
In questa frase, incisa nel 1911 sulla cornice di un autoritratto, si può racchiudere tutto il senso della pittura di Giorgio de Chirico.
Il mistero, l’arcano che si nasconde ineffabilmente nelle pieghe dell’apparenza circostante, è dunque il tratto distintivo della grande intuizione dechirichiana: quella “metafisica” che lo ha consacrato agli altari dell’arte d’ogni tempo.
Una invenzione cui viene reso giusto omaggio con la mostra “Miti, enigmi, inquietudini”, promossa e allestita a palazzo Ziino dalla Associazione Amici delle Arti e visitabile fino al 6 gennaio.
Proprio a proposito della nascita della “metafisica” così scriveva Giorgio de Chirico intorno al 1911: “…ero seduto su una panca al centro di piazza Santa Croce a Firenze…Il sole autunnale, caldo e forte, rischiarava la statua e la facciata della chiesa. Allora ebbi la strana impressione di guardare quelle cose per la prima volta, e la composizione del dipinto si rivelò all’occhio della mia mente. Ora, ogni volta che guardo questo quadro, rivedo ancora quel momento. Nondimeno il momento è un enigma per me, in quanto esso è inesplicabile. Mi piace chiamare enigma l’opera da esso derivata”.
Fu in quella fase fiorentina che nacque il tema delle piazze, di quegli spazi animati da forti contrasti chiaroscurali in cui spoglie e rigorose architetture classicheggianti (che tanta parte ebbero nel suggerire l’urbanistica fascista), algide statue marmoree e treni sfreccianti sullo sfondo si compongono così magistralmente, da indurre nell’osservatore un soggiogante senso di sospensione temporale.
Come ha giustamente sottolineato Calvesi, curatore della mostra, questo singolarissimo linguaggio rappresentava una vera anomalia nel panorama delle avanguardie del primo novecento. Il mantenimento della forma, a fronte di un prevalente orientamento contrastante della coeva pittura francese, poneva infatti de Chirico in netta controtendenza, ancorandolo piuttosto alla tradizione iconografica tedesca. E in effetti, la cultura germanica, letteraria e pittorica, annoverante Nietzsche e Schopenhauer, Bocklin e Klinger, miscelata alle influenze dell’ambiente fiorentino, di Papini innanzitutto, costituì il referente prioritario cui de Chirico guardò ai fini della sua crescita individuale. Una fonte cui attingere, probabilmente, anche spunti di sapore psicoanalitico, visto che dal “primato della volontà sull’intelletto”,di schopenhaueriana matrice, Freud potrebbe aver tratto la sua fondamentale idea di inconscio.
Non a caso i surrealisti, che dello svelamento del “rimosso” fecero una bandiera, riconobbero in de Chirico il naturale nume tutelare, per poi scaricarlo, accusandolo di essere divenuto un rimbambito, all’incipit degli anni ’20, allorché il maestro operò il suo ritorno all’ordine.
“Ritorno al mestiere”, come egli stesso ebbe a definirlo, ed al “museo”; con tanto di recupero di elementi archeologici, cavalli su spiagge e duelli gladiatori, che andavano a sostituire piazze e manichini col fine dichiarato di svelare quelle doti di “pictor optimus”, il cui possesso - in vero - più d’uno contestava (memorabili le stroncature di Longhi e, successivamente, della Bucarelli).
Dell’evoluzione (o involuzione, secondo alcuni) della sua pittura, quest’allestimento dà ampio conto, annoverando inoltre i ripetuti ritorni alla “metafisica” (con le repliche che tanto alimentarono le dicerie e polemiche sui suoi falsi autografati), le incursioni nel lessico barocco (la velazqueziana “Forgia di Vulcano” del 1949) e le tangenze surrealistiche dei parquet trasformati in specchi d’acqua e del mobilio collocato en plein air.
Proprio i “Bagni misteriosi” e i “Mobili nella valle”, col loro spiazzante sovvertimento dei riferimenti ottici e spaziali, aiutano a porre in evidenza uno degli aspetti meno celebrati dell’arte di de Chirico, ovvero quella tagliente ironia (forse un portato del suo sangue siciliano) che sempre lo caratterizzò tanto nell’arte, quanto nella vita.
Uno strumento irrinunciabile per chi aborrì implacabilmente ogni mediocrità e mitomania.
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ARNOLD SCHOMBERG
 
E’ la “felix Austria” – che, danzando sulle note dei valzer straussiani, si avvia alla catastrofe del primo conflitto mondiale – lo scenario su cui si dipana la vicenda artistica ed umana di Arnold Schomberg, musicista artefice dello scardinamento del sistema tonale, ma anche pittore dalle non comuni capacità espressive.
Un contesto – la Vienna in cui egli vive ed opera – nel quale ribollono e vanno maturando istanze e fermenti radicalmente innovativi, in grado di segnare profondamente la cultura del tempo e dei decenni a venire. Fra questi, basti ricordare la psicoanalisi freudiana, destinata – nel bene e nel male – a marcare uno spartiacque non solo nella concezione “scientifica” di psiche, ma più in generale nel comune modo di “pensare” i meccanismi basilari della mente. L’irruzione dell’inconscio si innesta infatti con forza dirompente, amplificandoli ed accelerandoli, su autonomi processi di svecchiamento ed emancipazione delle arti dalle pastoie d’un accademismo ormai sterile ed obsoleto. E’ l’epoca di Klimt, di Schiele, di Kokoscha e di Gerstl, artisti che consumano lo strappo con la tradizione, dando il via – attraverso la Secessione, ancora impregnata di estetismo simbolista – ad una radicale palingenesi ben presto confluente nell’alveo espressionista.
“L’Espressionismo non vive in una torre d’avorio” afferma battagliero Oscar Kokoscha; come a voler sintetizzare l’irruente dirompenza d’un fare artistico destinato a snudare i meandri più oscuri della psiche e così a smantellare convenzioni e ipocrisie dell’Europa vittoriana. Si spiega in questi termini l’estremizzazione di quel senso di morte, già aleggiante sulle inquietanti figure muliebri di Klimt, fino allo sconfinamento – sulla scorta della teoria freudiana che indica in eros e thanatos le due principali forze propulsive dei processi psichici – nella scarnificata (e scandalosissima per i benpensanti di allora) figurazione erotica di Egon Schiele. Uno scandaglio impietoso delle dinamiche mentali che raggiunge livelli parossistici nel cromatismo acceso di Kokoscha o nei sulfurei ed alienati autoritratti di Gerstl (che fu amante della moglie di Schomberg e che da questo amore fu travolto fino a giungere al suicidio).
In questa intensissima temperie si inserisce l’attività pittorica di Arnold Schomberg, artista assai più noto come musicista che come pittore; ma capace di figurare a buon diritto fra i migliori “analisti” della psiche, attraverso un’impietosa e reiterata “autoanalisi”.
Sono infatti gli autoritratti l’ossatura portante di una mostra (visibile a Palazzo Ziino fino al 31 agosto) che ripercorre puntualmente il rapporto del compositore col proprio “io”. Tratteggiati a grafite o ad inchiostro o ancora a pastello, tutti appaiono dominati da una ossessiva volontà di autoscavo psicologico, come dimostra l’impietosa fisiognomica tendente a sconfinare nella resa allucinata. Un gusto per la deformazione (ormai francamente espressionistica) che si afferma con inoppugnabile evidenza anche nei molteplici ritratti di amici e conoscenti. Da quello di von Zemlinsky a quello di Malher (che pare una maschera mortuaria), da quello decisamente “mostruoso” di una ignota fanciulla alle feroci caricature dei critici, fino agli inquietanti “sguardi” (fra i quali l’arcinoto “Sguardo rosso”, ove le fattezze si dissolvono in una delirante impronta ectoplasmica di sofferenza psichica), è tutto un crescendo di destrutturazione delle “maschere” volto a evidenziare la “nuda veritas” delle “facies” interiori.
Un processo che raggiunge il suo acme sconvolgente nella serie delle “Visioni”, con gli occhi che galleggiano in un plasma coloristico, ed anche in “Carne” e “Mani”, nei quali la liquefazione formale si attua in un vortice angoscioso che rimanda a Edward Munch.
“La musica di Schomberg – scrive Kandinskij – ci introduce in un nuovo regno, dove le esperienze musicali non sono acustiche bensì puramente psichiche”.
La sua pittura ne è la prova inconfutabile.
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"Autoritratto"
olio su tela 120x 75
MICHELE DIXIT Ritratti (1927-1942) documenti di un epoca (fino al 5 maggio, ogni giorno, tranne il lunedì, dalle 9,30 alle 19)
 
Lo sguardo fiero volto all’osservatore, quasi a coinvolgerlo nel proprio mondo d’artista. Così si ritraeva - ritto innanzi al cavalletto - Michele Dixit nel 1932, in una posa classica da pittore d’altri tempi, che sembra voler rivendicare un indiscusso status da “creativo”.
Un ruolo - quello giocato sullo scenario artistico insulare del ‘900 - cui viene oggi tributato un giusto omaggio, grazie alla mostra Ritratti (1927-1942) documenti di un epoca visibile.
Nato nel 1908 - ed ancora saldamente sulla breccia -, Michele Dixitdomino (è questo il suo vero nome) si è formato in quella temperie che ha visto fronteggiarsi le tarde propaggini del paesaggismo siciliano ottocentesco - ormai scadute a schema consunto e ripetitivo - con le istanze di rinnovamento che animavano molti giovani artisti locali, insofferenti delle pastoie dell’accademismo ed affascinati - seppur tardivamente rispetto al loro insorgere - dalle avanguardie di inizio secolo.
In questo senso, la vicenda di Dixit è esemplare. Egli è stato infatti allievo di Ettore De Maria Bergler, a sua volta discepolo e convinto epigono del Lojacono, nonché cantore della Palermo “fin de siecle”, ma anche amico e collaboratore di Pippo Rizzo, uno degli artefici - in vero un po’ attardati - della diffusione in terra di Sicilia del verbo futurista marinettiano.
Proprio nell’arte del ritratto - in cui Dixit ha eccelso -, seppur senza slanci avanguardistici e con un linguaggio figurativo d’assoluta leggibilità (e classicità), filtrano quelle pulsioni verso il nuovo che andavano profilandosi nel panorama artistico insulare della prima metà del ‘900.
Per quanto paradossale possa apparire, fu per l’appunto il linguaggio novecentista - improntato al ritorno alla “vera tradizione italiana”, quella di Giotto, Masaccio e Piero della Francesca -, che altrove segnava un pieno ritorno all’ordine dopo la sbornia delle avanguardie, ad essere adottato da Dixit quale personale mezzo di svecchiamento della pittura locale. Quel lessico, che ben presto sarebbe diventato lo stile ufficiale del fascismo pittorico, venne abbracciato ai fini di una progressiva emancipazione dai vezzi del pur glorioso liberty palermitano - del quale il De Maria fu fra i principali interpreti insieme al Basile - e dalle pastoie d’un paesaggismo per lo più spento e stiracchiato. A tal proposito, appare paradigmatica la vicenda del ritratto a figura intera di Topazia Alliata, che il De Maria, complice la madre dell’aristocratica modella (e compagna d’accademia), considerò “legnoso, privo d’ogni morbidezza pittorica, e, poco somigliante”, inducendo Dixit a renderlo mutilo ed a salvarne il solo volto. Nello sguardo carico di mistero della Alliata, rivolto fisso al ritrattista (e quindi all’osservatore), nella sua straniante penetranza, ma anche nella plastica volumetria della figura, affiora con chiarezza il determinante influsso di Casorati, la cui presenza a Palermo tra il ’28 e il ’29, rafforzata dall’arrivo della tela “Gli scolari” (acquistata dalla Civica Galleria D’Arte Moderna), impresse un segno assai profondo nell’immaginario dell’allor giovane pittore.
Una adesione - quella al novecentismo - che avvenne senza brusche cesure, e che non comportò mai una completa rinuncia agli insegnamenti del maestro De Maria. La raffinata resa fisiognomica dei personaggi - si guardino i due “Ritratti di Livio Crisà”, a carboncino e pastello, realizzati nel ’27 - e la capacità di scavo psicologico - come nel caso del “Tipo nordico”, tracciato a carboncino nel ’31 - sono infatti un portato del magistero esercitato dal De Maria, che, non a caso, è stato il principale ritrattista della Belle Epoque palermitana (lo attestano i dipinti a pastello raffiguranti i duchi di Madrid e Franca Florio).
Con gli anni ’30, la svolta novecentista - comprovata da opere quali “Pausa dalla lettura” e “Ritratto al balcone” - giunse alla completa maturazione, però declinata in termini sommessi ed antieroici e, pertanto, assai distanti dalla imperante retorica di regime (appena ravvisabile negli scultorei “Atleti”, disegnati a sanguigna nel ’32, o in figure di lavoratori tipo il “Pastore siciliano”, dipinto a olio nel ’35). Prevalsero piuttosto immagini familiari di marcato sapore intimistico - “Donna che cuce” del ’33,”Donna che lavora a maglia” del ’33, “Mia madre” del ’35, “Testa di uomo” del ’32, “Laura che cuce” del ’36 -, nelle quali i personaggi appaiono ripiegati su se stessi, di lato o di spalle rispetto al riguardante, come ad escluderlo dal proprio mondo interiore. L’impianto compositivo è assai semplificato, le forme plasticamente vigorose - in ciò recuperando anche l’insegnamento dello scultore Aristide Campini, altro suo maestro all’Accademia -, la stesura solida e compatta, le atmosfere pausate. Un universo a parte, senza squilli né fanfare, costellato di gesti e sentimenti quotidiani e strutturato in una solida trama di legami affettivi.
Un universo - e questa è, forse, l’unica critica che si può muovere a Dixit - fin troppo depurato da contaminazioni esterne, avulso da una storia - quella del ventennio fascista - il cui rovinoso e drammatico scorrere ha lasciato rovine e cicatrici visibili ancor oggi.
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