RECENSIONI
FINO AL 2010 |
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(1890-1918)
5
giugno - 1. agosto 2004
- In
collaborazione con il Comune di Palermo, il Leopold Museum
di Vienna dal 5 giugno al 1. agosto 2004 presenta per la
prima volta a Palazzo Ziino un’ampia raccolta di opere,
tratte dalla sua collezione, dell’espressionista austriaco
Egon Schiele.
Per questa mostra sono stati selezionati 60 lavori del suo
breve e affascinante periodo creativo. Tra i dipinti e i
disegni si trovano alcuni pezzi di primaria importanza, come
il primo dipinto espressionista “Nudo maschile seduto”
(autoritratto) del 1910, oppure “Cardinale e monaca” del
1912.
Tutte le opere esposte provengono dall’ex raccolta privata
del Prof. Rudolf Leopold. Il collezionista d’arte viennese
cominciò la sua collezione già durante il periodo degli
studi di medicina, all’inizio degli anni Cinquanta, quando
Schiele era ancora in gran parte sconosciuto.
Nell’agosto del 1994 la raccolta, che comprendeva 5266
opere incentrate sull’arte austriaca del XIX e XX secolo
(valore stimato: 570 milioni di Euro) fu inserita in una
fondazione privata.
Oggi questa collezione unica, che include anche la più
ampia raccolta di opere di Egon Schiele esistente al mondo,
è visibile presso il Leopold Museum, inaugurato nel
settembre 2001 nel Quartiere dei musei di Vienna.
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- Organizzazione:
Comune di Palermo
Assessorato alla Cultura
Ufficio Cultura e Spazi Espositivi
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- Orari:
- Da
martedì a domenica
- dalle
ore 9,30 alle ore 19,30
- Lunedì
chiuso
- Informazioni:
- Palazzo
Ziino – Via Dante, 56 – Palermo
- Tel.
091.7407610 -
Fax 091. 7405900
-
- Ufficio
Cultura e Spazi Espositivi
- Tel.
091.7405910
-
- Sito
internet:
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EGON
SCHIELE
Se
c’è un tempo in cui la modernità ha mostrato tutte le sue
piaghe, rivelando una crisi già profonda e irreversibile, quel
tempo è stato – paradossalmente – la tanto decantata Belle
Epoque. Proprio nel bel mezzo del trionfo del mito della
macchina (si pensi ai tentativi pionieristici dei Wright, alle prime
corse automobilistiche, alla diffusione della cinematografia, della
elettricità o del telefono e alle conseguenti teorizzazioni
futuriste), concretizzazione e apoteosi del pensiero positivista e
quindi del fideismo nei confronti delle potenzialità di scienze e
tecnologie, proprio in quella euforica temperie, nel cuore
dell’Europa (nella cosiddetta “mittleuropa”), si andava
infatti profilando un tal malessere individuale (e con esso un
insieme di scompensi collettivi) da condurre non solo alla fine di
quel mondo (nell’immenso macello della prima guerra mondiale), ma
da aprire soprattutto la strada alle complesse problematiche della
contemporaneità.
Mentre
le orchestrine militari – dalle divise elegantemente rifulgenti
– andavano intonando marce e marcette più o meno cadenzate, e nei
palazzi nobiliari ci si inebriava dei valzer e delle polche degli
Strauss, dietro la dorata apparenza di prosperità tarli oscuri e
fantasmi d’ogni tipo operavano quella loro destabilizzante azione
(con tanto di allarmanti scricchiolii) che di lì a poco si sarebbe
manifestata in tutto il suo “boato” annichilente.
Scienziati,
pensatori e artisti – come Freud, come Kraus, Musil e Schinitzler,
come Klimt, Gerstl, Schomberg, Kokoschka e Schiele –, dando corpo
al loro immaginario (in termini teorici e formali), hanno infatti
saputo esprimere tutte le tensioni albergate sotto la coltre di
propagandistico (e ipocrita) ottimismo e si sono erti ad impietosi
analisti della propria epoca, di cui hanno lasciato una ricognizione
ben più attenta ed attendibile delle tante cronache ufficiali
elaborate dai contemporanei.
Se
Freud, attraverso l’ideazione delle teorie psicoanalitiche, giunge
a scoperchiare il complesso di nevrosi che si agita come un
verminaio sotto il manto inibitorio del conformismo vittoriano, e se
Kraus, con i suoi aforismi fulminanti e con le sue opere di
drammaturgo, arriva a disvelare l’inconsistenza d’un sistema e
d’una società (l’impero austro-ungarico) ormai giunti al
capolinea della storia, pittori come Gerstl, Schiele, Kokoschka e in
parte anche Klimt, dal canto loro, danno visibilmente corpo a questo
autentico tracollo epocale, portandone alla luce tutta la drammatica
ed annichilente complessità.
Già
Klimt – che per Schiele fu un riferimento –, nella suadenza
“jugendstil” e bizantineggiante dei suoi raffinatissimi
soggetti, mostrando l’intensa componente tanatologica celata nelle
pieghe della beltà dei corpi femminili, aveva di fatto aperto la
via – pur nei limiti imposti dalla estenuato estetismo
secessionista – a quel crudo Espressionismo destinato a divenire
il principale manifesto di denuncia nei confronti d’un ordine di
valori ormai corroso ed obsoleto.
Ma
è soprattutto Schiele, col suo linguaggio dirompente e radicale,
a sviluppare ed a portare alle estreme conseguenze quanto già
in embrione nel lessico klimtiano.
Nella
disseccata nodosità dei corpi nudi, nonostante qualche permanenza
di scorie secessioniste (nel gioco di tessere policromatiche che
anima le vesti ed i tessuti o nell’accostamento quasi astratto
delle vedute), si riflette con ossessiva precisione tutta la
virulenza d’una condizione
personale (ma paradigmatica d’uno scompenso collettivo) vissuta
come trappola o pania terribilmente soffocante. Eros e thanatos, più
che convivere (in un rapporto freudianamente quasi equilibrato), si
contendono il soma dei soggetti – raffigurati singolarmente o in
coppie di mummificati amanti – con una ormai fin troppo netta
prevalenza della morte sulla spinta vitale dell’amore. Anzi, la
sessualità pare farsi riuscita allegoria di quel “falso
movimento”, di quell’ostentato vitalismo (esibito in ogni dove),
che alla fine si palesa come mero spreco usurante e iterativamente
senza senso.
Il
grafismo nevrile, al contempo rarefatto ed incisivo, peculiare
dell’intera produzione di Egon Schiele, è dunque strumento
altamente funzionale allo scavo della psiche operato per progressiva
rimozione (e consunzione) del “superfluo” che, appesantendo i
corpi, ne scherma totalmente l’interiorità. Come se Schiele
avesse trovato il modo ottimale per evidenziare quella nascosta
sofferenza, che la “maschera” corporea pare sottrarre
all’impietosa azione dell’occhio indagatore.
Non
sappiamo cosa sarebbe stato dell’opera del pittore austriaco se
avesse vissuto più a lungo, sottraendosi alla mannaia della
spagnola (la terribile pandemia influenzale che decimò milioni di
persone sul finire del primo conflitto mondiale) e potendo così
portare a piena maturazione le sue notevoli intuizioni artistiche.
La sua pittura sembrava infatti orientarsi verso uno scioglimento
delle tensioni ed aprirsi ad una più serena visione della vita. Il
proprio ritratto insieme alla moglie ed al figlioletto (in verità
non ancora nato e del quale Edith era in attesa), eseguito con
modalità grafiche e coloristiche assai meno incisive e decisamente
più delicate, rivela infatti una proiezione verso un futuro ricco
di grandi aspettative e di desiderate gioie familiari.
Un
destino, forse crudele o semplicemente puntuale (nel segnare con la
fine d’un’epoca anche quella di chi l’aveva preannunciata),
lascia irrisolto questo quesito, consegnando a soli 28 anni Egon
Schiele alle pagine più importanti della nostra storia.
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- D.
Cambellotti
- "Targa
Florio 1907"
- G.Balla
- "Motivi
di forme rumore"
- G.Grosso
- "Ritratto
di VIncenzo Florio"
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- VINCENZO
FLORIO
- E
L’ILLUSIONE DELLA MODERNITA’
Il
cognome Florio evoca ancor oggi l’immagine di una Palermo moderna
e cosmopolita. L’immagine – per l’appunto – della Palermo
“fin de siecle”, meta obbligata delle elites europee
dell’epoca (dal kaiser ai reali d’Inghilterra) e capitale
internazionale della mondanità e della nascente Art Nouveau.
Non
stupisce, quindi, che a Vincenzo Florio, uno degli assoluti
protagonisti di quel tempo, venga dedicata una intera mostra
(visibile a palazzo Ziino fino al 31 agosto), in grado di
ricostruirne il ruolo e il percorso personale, nonché di rievocare
i fasti d’un mondo e d’un ambiente capaci di segnare, nel bene e
nel male, in maniera indelebile la vita cittadina ed insulare.
La
parabola dei Florio – poiché di parabola si tratta, con tanto di
ascesa, picco e declino – è infatti un topos indiscusso di quelle
dinamiche socio-culturali che, negli ultimi due secoli, hanno
accompagnato, in Sicilia ed anche altrove, il rapido formarsi di
ingenti patrimoni e di imperi economici.
Simile,
per molti aspetti, alla vicenda di altri nuovi ricchi, quella dei
Florio è la classica “scalata” degli ultimi arrivati (nel senso
stretto del termine, poiché giunsero a Palermo dalla natia Calabria
solo a fine ‘700) che, grazie al loro ingegno e al loro
inoppugnabile talento mercantile ed imprenditoriale, riescono a
toccare il vertice assoluto della piramide sociale. Non a caso, da
semplici droghieri, quali furono agli esordi, nel volgere d’un
secolo divennero – insieme a pochi altri, per lo più inglesi come
i Whitaker – i dominatori incontrastati del panorama economico e
socio-culturale della loro epoca.
Ma
non dissimilmente da altri recenti possessori di imperi finanziari
(si pensi agli Agnelli), purtroppo anche i Florio non seppero
resistere alle “sirene” del “bel mondo” aristocratico, di
fatto stemperando il loro energico spirito alto-borghese nelle
anergiche mollezze tipicamente nobiliari. Non è pertanto senza
motivo, che questa mostra – attentamente curata da Marina Giordano
– sia incentrata proprio su Vincenzo, ultimo rampollo della
dinastia (figlio di una d’Ondes Trigona e marito di una Alliata),
chiamato dalla sorte a vivere gli effimeri bagliori d’un
inarrestabile crepuscolo.
Nei
suoi poliedrici interessi si trovano a convivere, in una ossimorica
miscela, slanci imprenditoriali e lussi signorili, intuizioni e
sagacie proprie dei borghesi e frivolezze squisitamente gentilizie.
Ecco allora l’interesse per la pittura, coltivato in prima persona
sia quale praticante che come mecenate (con una apertura
avanguardistica verso il Futurismo, attestata dalle molte tele di
importanti futuristi siciliani e continentali in esposizione),
associarsi alla pratica e alla promozione di attività sportive (la
Targa Florio sopra tutte) divenute ben presto memorabili. Ma anche
mondanità fatue e dispendiose, ritualità molto autocompiaciute
proprie dell’alta società (però vissute con qualche tocco di
critica ironia) e una certa indifferenza per la realtà sociale
circostante – ma si sa noblesse oblige – non sufficientemente
bilanciata da quel gusto per la modernità troppo incentrato sugli
esclusivi interessi della classe dirigente.
La
tanto celebrata Palermo (e Sicilia) “fin de siecle” è infatti
una terra martoriata da arretratezza e povertà, con un tasso di
analfabetismo straripante e condizioni igieniche pietose, e nelle
quale la maggior parte della popolazione vive in uno stato di mera
sussistenza e del tutto tagliata fuori dalle conquiste moderne vanto
e merito dei Florio. Ma una modernità intesa come status symbol,
come lusso per pochi eletti, senza ampie ricadute sociali, è più
il segno del permanere di vecchi privilegi, che l’avvisaglia di un
avanzante rinnovamento radicale.
Un
limite operativo e di vedute nel quale, forse, è da cercare, al di
là delle congiunture sfavorevoli, il vero motivo del tramonto di
questa – comunque grande – dinastia di imprenditori.
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"Il
senso e l’idea"
FRA
SOGNO E VISIONE, IL FREDDO UNIVERSO MENTALE DI BRECCIA
Di
Pier Augusto Breccia una cosa si può dire con certezza: si tratta
di un eccellente grafico, sostenuto da una tecnica mirabile.
Una
tecnica al servizio d’un incontenibile afflato visionario, in
grado di produrre un allucinante – ma un po’ freddo – universo
parallelo ove tutto è improntato a geometrica ed armonica euritmia.
Nelle
incredibili immagini di Breccia, infatti, confluisce un anelito alla
perfezione, attestato dalla estrema precisione e finitezza del
tratteggio (anche nella pittura ad olio) e da un gusto
architettonico altamente descrittivo che ha i suoi referenti nella
grande tradizione quattro-cinqucentesca (come non pensare alla “città
ideale”, da alcuni attribuita a Piero della Francesca), ma
anche nei capricci architettonici sei-settecenteschi, nelle
vedute piranesiane, e infine nelle misteriche costruzioni
dechirichiane e nelle deliranti strutture “non sense” di Escher.
Una
filiazione, quella dalla inquietante (per il suo mettere a nudo i
limiti percettivi e cognitivi della mente e quindi i nostri
fondamenti logici) grafica di Escher, che Breccia tenderebbe –
almeno a parole – a ridimensionare, ma che appare assai evidente,
in tutto il suo portato formale, in molte delle opere in esposizione
fino al 27 aprile a Palazzo Ziino. Da “Waterville” ad “Exodus”,
da “Gli scalatori del cielo” ad “Aut-Aut”, da
“Labirinto n.1” e “Labirinto n.2” fino a “Complessità”
e “Salomone”, è infatti tutto un continuo riferirsi al
grande olandese, del quale, però, a onor del vero, Breccia non
riesce a riproporre a pieno la penetrante capacità di
destabilizzare mentalmente l’osservatore.
E
tutto ciò, nonostante (o forse per) l’adozione del colore, il
quale, pur accattivando ed irretendo i riguardanti, finisce anche
con l’acuire le componenti didascaliche, facendo di queste
immagini delle eleganti e un po’ algide illustrazioni, assai
adatte a delle pubblicazioni di fantascienza o di letteratura
favolistica per l’infanzia. Un dato che pare rafforzato da un
complesso e alquanto retorico ridondare di simboli e metafore –
ricorrono spesso le figure del funambolo e dell’acrobata, come a
rimarcare la condizione di assoluta precarietà dell’esistenza
umana –, le quali senza dubbio emanano un suadente magnetismo, ma
che pure sottraggono scioltezza alla narrazione, di fatto alquanto
appesantendola.
Ciò
nonostante, l’articolata poetica di Breccia merita notevole
attenzione, non fosse altro che per la sua capacità di distogliere
la psiche di chi la accosta dal banale grigiore quotidiano, per
ricondurla in un mondo parallelo di pura fantasia e idealità, ove
l’incanto e l’arcano la fanno comunque da padroni.
Forte
d’una vasta cultura medica (Breccia è un cardiochirurgo),
l’artista ama infatti punteggiare le sue opere di molteplici
elementi bio-molecolari, quali le strutture capsidiche virali (si
guardi la superficie del pianeta in “Exodus” o ancora lo
slancio delle svettanti architetture in “Central Park”) o
le spirali degli acidi nucleici (come nel vorticoso “Abisso”),
quasi sospinto dalla ferma volontà di dimostrare come tutto sia
inevitabilmente sottoposto anche a ferrei e indiscutibili principi
architettonici promananti da un imperscrutabile assoluto.
Parlare
dunque di Breccia, definendolo un metafisico o un surrealista, è
forse semplicistico; ma proprio a questo filone delle arti visive,
sviluppatosi nel secolo trascorso, è d’obbligo ascriverne la
variegata produzione, senza però che una tal tassonomia costituisca
alcuna diminutio.
Proseguire
nel solco d’una tradizione che ha fatto del disvelamento delle
proiezioni immaginifiche, oniriche e allucinatorie il suo
carattere fondante ci pare comunque una scelta meritevole di lode,
maxime in un’epoca in cui il gretto pragmatismo viene
propagandato in maniera fin troppo ossessiva e tracotante,
coartando sempre più i margini del sogno e della visione.
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- Miti, enigmi,
inquietudini
- IL RITORNO DEL
METAFISICO
- de CHIRICO NELLA SUA SICILIA
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- Et quid amabo nisi quod aenigma est? (e che
cosa amerò se non ciò che è enigma?).
In questa frase, incisa nel 1911 sulla cornice di un autoritratto, si può racchiudere
tutto il senso della pittura di Giorgio de Chirico.
Il mistero, larcano che si nasconde ineffabilmente nelle pieghe dellapparenza
circostante, è dunque il tratto distintivo della grande intuizione dechirichiana: quella
metafisica che lo ha consacrato agli altari dellarte dogni tempo.
Una invenzione cui viene reso giusto omaggio con la mostra Miti, enigmi,
inquietudini, promossa e allestita a palazzo Ziino dalla Associazione Amici delle
Arti e visitabile fino al 6 gennaio.
Proprio a proposito della nascita della metafisica così scriveva Giorgio de
Chirico intorno al 1911:
ero seduto su una panca al centro di piazza Santa
Croce a Firenze
Il sole autunnale, caldo e forte, rischiarava la statua e la facciata
della chiesa. Allora ebbi la strana impressione di guardare quelle cose per la prima
volta, e la composizione del dipinto si rivelò allocchio della mia mente. Ora, ogni
volta che guardo questo quadro, rivedo ancora quel momento. Nondimeno il momento è un
enigma per me, in quanto esso è inesplicabile. Mi piace chiamare enigma lopera da
esso derivata.
Fu in quella fase fiorentina che nacque il tema delle piazze, di quegli spazi animati da
forti contrasti chiaroscurali in cui spoglie e rigorose architetture classicheggianti (che
tanta parte ebbero nel suggerire lurbanistica fascista), algide statue marmoree e
treni sfreccianti sullo sfondo si compongono così magistralmente, da indurre
nellosservatore un soggiogante senso di sospensione temporale.
Come ha giustamente sottolineato Calvesi, curatore della mostra, questo singolarissimo
linguaggio rappresentava una vera anomalia nel panorama delle avanguardie del primo
novecento. Il mantenimento della forma, a fronte di un prevalente orientamento
contrastante della coeva pittura francese, poneva infatti de Chirico in netta
controtendenza, ancorandolo piuttosto alla tradizione iconografica tedesca. E in effetti,
la cultura germanica, letteraria e pittorica, annoverante Nietzsche e Schopenhauer,
Bocklin e Klinger, miscelata alle influenze dellambiente fiorentino, di Papini
innanzitutto, costituì il referente prioritario cui de Chirico guardò ai fini della sua
crescita individuale. Una fonte cui attingere, probabilmente, anche spunti di sapore
psicoanalitico, visto che dal primato della volontà sullintelletto,di
schopenhaueriana matrice, Freud potrebbe aver tratto la sua fondamentale idea di
inconscio.
Non a caso i surrealisti, che dello svelamento del rimosso fecero una
bandiera, riconobbero in de Chirico il naturale nume tutelare, per poi scaricarlo,
accusandolo di essere divenuto un rimbambito, allincipit degli anni 20,
allorché il maestro operò il suo ritorno allordine.
Ritorno al mestiere, come egli stesso ebbe a definirlo, ed al
museo; con tanto di recupero di elementi archeologici, cavalli su spiagge e
duelli gladiatori, che andavano a sostituire piazze e manichini col fine dichiarato di
svelare quelle doti di pictor optimus, il cui possesso - in vero - più
duno contestava (memorabili le stroncature di Longhi e, successivamente, della
Bucarelli).
Dellevoluzione (o involuzione, secondo alcuni) della sua pittura,
questallestimento dà ampio conto, annoverando inoltre i ripetuti ritorni alla
metafisica (con le repliche che tanto alimentarono le dicerie e polemiche sui
suoi falsi autografati), le incursioni nel lessico barocco (la velazqueziana Forgia
di Vulcano del 1949) e le tangenze surrealistiche dei parquet trasformati in specchi
dacqua e del mobilio collocato en plein air.
Proprio i Bagni misteriosi e i Mobili nella valle, col loro
spiazzante sovvertimento dei riferimenti ottici e spaziali, aiutano a porre in evidenza
uno degli aspetti meno celebrati dellarte di de Chirico, ovvero quella tagliente
ironia (forse un portato del suo sangue siciliano) che sempre lo caratterizzò tanto
nellarte, quanto nella vita.
Uno strumento irrinunciabile per chi aborrì implacabilmente ogni mediocrità e mitomania.
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- ARNOLD SCHOMBERG
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E la felix Austria che, danzando sulle note dei valzer
straussiani, si avvia alla catastrofe del primo conflitto mondiale lo scenario su
cui si dipana la vicenda artistica ed umana di Arnold Schomberg, musicista artefice dello
scardinamento del sistema tonale, ma anche pittore dalle non comuni capacità espressive.
Un contesto la Vienna in cui egli vive ed opera nel quale ribollono e vanno
maturando istanze e fermenti radicalmente innovativi, in grado di segnare profondamente la
cultura del tempo e dei decenni a venire. Fra questi, basti ricordare la psicoanalisi
freudiana, destinata nel bene e nel male a marcare uno spartiacque non solo
nella concezione scientifica di psiche, ma più in generale nel comune modo di
pensare i meccanismi basilari della mente. Lirruzione
dellinconscio si innesta infatti con forza dirompente, amplificandoli ed
accelerandoli, su autonomi processi di svecchiamento ed emancipazione delle arti dalle
pastoie dun accademismo ormai sterile ed obsoleto. E lepoca di Klimt, di
Schiele, di Kokoscha e di Gerstl, artisti che consumano lo strappo con la tradizione,
dando il via attraverso la Secessione, ancora impregnata di estetismo simbolista
ad una radicale palingenesi ben presto confluente nellalveo espressionista.
LEspressionismo non vive in una torre davorio afferma battagliero
Oscar Kokoscha; come a voler sintetizzare lirruente dirompenza dun fare
artistico destinato a snudare i meandri più oscuri della psiche e così a smantellare
convenzioni e ipocrisie dellEuropa vittoriana. Si spiega in questi termini
lestremizzazione di quel senso di morte, già aleggiante sulle inquietanti figure
muliebri di Klimt, fino allo sconfinamento sulla scorta della teoria freudiana che
indica in eros e thanatos le due principali forze propulsive dei processi psichici
nella scarnificata (e scandalosissima per i benpensanti di allora) figurazione erotica di
Egon Schiele. Uno scandaglio impietoso delle dinamiche mentali che raggiunge livelli
parossistici nel cromatismo acceso di Kokoscha o nei sulfurei ed alienati autoritratti di
Gerstl (che fu amante della moglie di Schomberg e che da questo amore fu travolto fino a
giungere al suicidio).
In questa intensissima temperie si inserisce lattività pittorica di Arnold
Schomberg, artista assai più noto come musicista che come pittore; ma capace di figurare
a buon diritto fra i migliori analisti della psiche, attraverso
unimpietosa e reiterata autoanalisi.
Sono infatti gli autoritratti lossatura portante di una mostra (visibile a Palazzo
Ziino fino al 31 agosto) che ripercorre puntualmente il rapporto del compositore col
proprio io. Tratteggiati a grafite o ad inchiostro o ancora a pastello, tutti
appaiono dominati da una ossessiva volontà di autoscavo psicologico, come dimostra
limpietosa fisiognomica tendente a sconfinare nella resa allucinata. Un gusto per la
deformazione (ormai francamente espressionistica) che si afferma con inoppugnabile
evidenza anche nei molteplici ritratti di amici e conoscenti. Da quello di von Zemlinsky a
quello di Malher (che pare una maschera mortuaria), da quello decisamente
mostruoso di una ignota fanciulla alle feroci caricature dei critici, fino
agli inquietanti sguardi (fra i quali larcinoto Sguardo
rosso, ove le fattezze si dissolvono in una delirante impronta ectoplasmica di
sofferenza psichica), è tutto un crescendo di destrutturazione delle maschere
volto a evidenziare la nuda veritas delle facies interiori.
Un processo che raggiunge il suo acme sconvolgente nella serie delle Visioni,
con gli occhi che galleggiano in un plasma coloristico, ed anche in Carne e
Mani, nei quali la liquefazione formale si attua in un vortice angoscioso che
rimanda a Edward Munch.
La musica di Schomberg scrive Kandinskij ci introduce in un nuovo
regno, dove le esperienze musicali non sono acustiche bensì puramente psichiche.
La sua pittura ne è la prova inconfutabile.
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- "Autoritratto"
- olio su tela 120x 75
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- MICHELE DIXIT Ritratti (1927-1942) documenti di un
epoca (fino al 5 maggio, ogni giorno, tranne il lunedì, dalle 9,30 alle
19)
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Lo sguardo fiero volto allosservatore, quasi a coinvolgerlo nel proprio
mondo dartista. Così si ritraeva - ritto innanzi al cavalletto - Michele Dixit nel
1932, in una posa classica da pittore daltri tempi, che sembra voler rivendicare un
indiscusso status da creativo.
Un ruolo - quello giocato sullo scenario artistico insulare del 900 - cui viene oggi
tributato un giusto omaggio, grazie alla mostra Ritratti (1927-1942) documenti di un epoca
visibile.
Nato nel 1908 - ed ancora saldamente sulla breccia -, Michele Dixitdomino (è questo il
suo vero nome) si è formato in quella temperie che ha visto fronteggiarsi le tarde
propaggini del paesaggismo siciliano ottocentesco - ormai scadute a schema consunto e
ripetitivo - con le istanze di rinnovamento che animavano molti giovani artisti locali,
insofferenti delle pastoie dellaccademismo ed affascinati - seppur tardivamente
rispetto al loro insorgere - dalle avanguardie di inizio secolo.
In questo senso, la vicenda di Dixit è esemplare. Egli è stato infatti allievo di Ettore
De Maria Bergler, a sua volta discepolo e convinto epigono del Lojacono, nonché cantore
della Palermo fin de siecle, ma anche amico e collaboratore di Pippo Rizzo,
uno degli artefici - in vero un po attardati - della diffusione in terra di Sicilia
del verbo futurista marinettiano.
Proprio nellarte del ritratto - in cui Dixit ha eccelso -, seppur senza slanci
avanguardistici e con un linguaggio figurativo dassoluta leggibilità (e
classicità), filtrano quelle pulsioni verso il nuovo che andavano profilandosi nel
panorama artistico insulare della prima metà del 900.
Per quanto paradossale possa apparire, fu per lappunto il linguaggio novecentista -
improntato al ritorno alla vera tradizione italiana, quella di Giotto,
Masaccio e Piero della Francesca -, che altrove segnava un pieno ritorno allordine
dopo la sbornia delle avanguardie, ad essere adottato da Dixit quale personale mezzo di
svecchiamento della pittura locale. Quel lessico, che ben presto sarebbe diventato lo
stile ufficiale del fascismo pittorico, venne abbracciato ai fini di una progressiva
emancipazione dai vezzi del pur glorioso liberty palermitano - del quale il De Maria fu
fra i principali interpreti insieme al Basile - e dalle pastoie dun paesaggismo per
lo più spento e stiracchiato. A tal proposito, appare paradigmatica la vicenda del
ritratto a figura intera di Topazia Alliata, che il De Maria, complice la madre
dellaristocratica modella (e compagna daccademia), considerò legnoso,
privo dogni morbidezza pittorica, e, poco somigliante, inducendo Dixit a
renderlo mutilo ed a salvarne il solo volto. Nello sguardo carico di mistero della
Alliata, rivolto fisso al ritrattista (e quindi allosservatore), nella sua
straniante penetranza, ma anche nella plastica volumetria della figura, affiora con
chiarezza il determinante influsso di Casorati, la cui presenza a Palermo tra il 28
e il 29, rafforzata dallarrivo della tela Gli scolari (acquistata
dalla Civica Galleria DArte Moderna), impresse un segno assai profondo
nellimmaginario dellallor giovane pittore.
Una adesione - quella al novecentismo - che avvenne senza brusche cesure, e che non
comportò mai una completa rinuncia agli insegnamenti del maestro De Maria. La raffinata
resa fisiognomica dei personaggi - si guardino i due Ritratti di Livio Crisà,
a carboncino e pastello, realizzati nel 27 - e la capacità di scavo psicologico -
come nel caso del Tipo nordico, tracciato a carboncino nel 31 - sono
infatti un portato del magistero esercitato dal De Maria, che, non a caso, è stato il
principale ritrattista della Belle Epoque palermitana (lo attestano i dipinti a pastello
raffiguranti i duchi di Madrid e Franca Florio).
Con gli anni 30, la svolta novecentista - comprovata da opere quali Pausa
dalla lettura e Ritratto al balcone - giunse alla completa maturazione,
però declinata in termini sommessi ed antieroici e, pertanto, assai distanti dalla
imperante retorica di regime (appena ravvisabile negli scultorei Atleti,
disegnati a sanguigna nel 32, o in figure di lavoratori tipo il Pastore
siciliano, dipinto a olio nel 35). Prevalsero piuttosto immagini familiari di
marcato sapore intimistico - Donna che cuce del 33,Donna che
lavora a maglia del 33, Mia madre del 35, Testa di
uomo del 32, Laura che cuce del 36 -, nelle quali i
personaggi appaiono ripiegati su se stessi, di lato o di spalle rispetto al riguardante,
come ad escluderlo dal proprio mondo interiore. Limpianto compositivo è assai
semplificato, le forme plasticamente vigorose - in ciò recuperando anche
linsegnamento dello scultore Aristide Campini, altro suo maestro allAccademia
-, la stesura solida e compatta, le atmosfere pausate. Un universo a parte, senza squilli
né fanfare, costellato di gesti e sentimenti quotidiani e strutturato in una solida trama
di legami affettivi.
Un universo - e questa è, forse, lunica critica che si può muovere a Dixit - fin
troppo depurato da contaminazioni esterne, avulso da una storia - quella del ventennio
fascista - il cui rovinoso e drammatico scorrere ha lasciato rovine e cicatrici visibili
ancor oggi.
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