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L’artista Cornelio
Mario Petazzi in arte Elio Petazzi
(1912/1998)
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presentato dal Critico
Franco Bulfarini
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Elio
stendeva l’impasto cromatico dei pigmenti con tocchi
disinvolti dettati dall’esperienza, senza mai eccedere la
misura, con stile, per descrivere più che il reale in sé, le
emozioni raccolte dalla natura, dalle vedute, dalle marine,
dalle nature morte con fiori e soprattutto dall’animo
femminile.
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Mi è sempre gradito rendere
omaggio ad artisti come Elio Petazzi, che nel loro proporsi
hanno saputo mettere a frutto capacità innate, poi declinate
nel tempo e sedimentante con coerenza nell’alveo della
concretezza esecutiva, il tutto procedendo con umile
operosità.
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E’ grazie a doti straordinarie,
grande volontà e tenacia, che l’artista Petazzi seppe
esprimere per mezzo della sua pittura ma anche scultura e per
tanti anni con grande forza d’intento i suoi valori
distintivi: grazia, dolcezza, emozionalità, allegria,
bellezza e giocosità, nostalgia, tutto ciò a ben vedere indica
la sua pittura ed anche scultura. Egli seppe abbracciare la
causa dell’arte non solo intesa come esercizio tecnico e
propensione d’animo ma anche esercizio intellettuale alto, da
rendere con metodo classicheggiante, rivolgendo attenzione
alla cultura di un’arte italica che trovò massima esaltazione
nel Rinascimento e probabilmente esaurì la propria forza
propulsiva nei primi anni del ‘900, ma non per Petazzi. Egli
probabilmente presagì il suo destino già a quattro anni quando
ricevette come regalo la sua prima scatola di colori, si mosse
quindi con solerzia per quella via non facile, spesso
costellata di delusioni e di rinunce, volendo essere sempre
coerente con sé stesso, strinse i denti anche nei momenti
difficili della vita lanciando la sua sfida artistica ai
mostri sacri delle avanguardie del nuovo millennio. Contro
ogni pronostico seppe dimostrare nel corso della sua lunga e
movimentata carriera artistica non solo di avere qualità da
vendere, ma anche e soprattutto che l’arte come da lui intesa
aveva ancora molto da dire; grazie alla coerenza di una vita
spesa per l’arte, che tanto gli ritornò in termini di
riconoscimenti e consenso del pubblico e degli estimatori, non
pochi, oggi noi possiamo parlare di Elio Petazzi pittore e
scultore figurativo, come di una personalità significativa
nella scena artistica italiana del ‘900 e non solo italiana,
potendo affermare, che il ragazzo di Busto Arsizio seppe
esprimere note alte e melodiose nel suo lungo percorso
artistico, sempre ascendente.
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Elio percorse coerentemente le
ragioni della sua pittura, non volendo mai abbracciare mode o
cogliere tendenze, spesso comodo viatico per chi non possiede
mezzi adeguati e segue in alternativa la strada dei proclami,
oppure più adatte al filosofo che al pittore autentico.
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Petazzi non aveva necessità di
trovare scorciatoie in pittura, né le cercava, poiché la
natura lo aveva fornito quanto basta in termini di capacità
artistiche, gli bastava quindi poter dipingere il mondo
presente o recuperarne a pennellate le vestigia del passato,
cogliendo la lezione dei grandi per sviluppare il suo stile
ricco di plasticità, luminosità, penombre velate, freschezza
visiva, vivacità d’immagine ed emotiva. Egli esplorò un mondo
passato, di pittori eccelsi, da riprendere e rileggere in
chiave stilistica moderna ed odierna, rinnovata e
coinvolgente.
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Mai si abbandonò a scelte facili
se non tecnicamente banali, tanto meno si adagiò sugli allori
o lusinghe dei primi successi personali, anzi mantenne
costante la volontà di ridefinire con nuovi canoni dedotti
dall’esperienza il bello, con l’intento di esprimerlo in tutte
le sue forme in modo virtuoso, in un processo volitivo di
continuo perfezionamento.
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Petazzi studiò certamente con
interesse la storia dell’arte volendo confrontarsi
costantemente con i grandi di ogni tempo per pervenire al
consolidamento di uno stilema raro e prezioso che pochi eletti
a lui contemporanei seppero esprimere con tanta indiscutibile
qualità e piacevolezza.
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Elio ha amato la pittura ed in
particolare la grande pittura figurativa, per intenderci
quella che va dal rinascimento al diciannovesimo secolo, lo si
comprende bene dai suoi dipinti. Al contempo seppe dimostrarsi
efficace e talentuoso scultore, altrettanto raffinato e
sensibile. Quello che non fece Petazzi è piegarsi ad un
rinnovamento in chiave avanguardistica dell’arte, ovvero
produrre un’arte che non sentiva propria o necessaria, poiché
lontana dalla sua volontà di contemplare il piacere visivo da
tradursi non solo in fatto meramente estetico ma in dono
emozionale.
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Egli inseguì le ragioni della
rappresentazione del vero perché in ciò trovava compiacimento
e coerenza con sé stesso, appagamento e serenità.
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Il suo cuore batté all’unisono
con la natura che seppe rappresentare in mille modi, non
avrebbe mai potuto svilirne la bellezza né distorcerne la
visione per inventare nuove strade, od esprimere pura
concettualità. Egli si mantenne a debita distanza dagli umori
decadenti che attraversavano il ventesimo secolo. Petazzi
viveva un mondo artistico diverso, fatto di virtuosismo, forse
un mondo da custodire, da proteggere, da mantenere dolce ed
incantato, pur anche favoleggiante, lontano dalle ossessioni
del tempo, dai fragori delle guerre, dalla disgregazione
sociale, come lontano volle tenersi dall’aggressione della
mala grazia, dai proclami di ogni genere. Per Elio l’arte è
altra cosa, è colore, è saper dipingere e questo significa
anche coniare linguaggi cromatici per perseguire valori
estetici, per innalzare sentimenti o voci liriche provenienti
da pensieri profondi sempre da tradurre in colore.
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Petazzi per tutta la vita scelse
una pittura del vero oggettuale ma non pregna solamente di
realtà esteriore, poiché il reale nelle mani dell’artista deve
depurarsi dal caos che lo imprigiona e trasferirsi sulla tela
come essenza pura, emozione, incantamento.
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La funzione dell’arte come la si
legge nelle sue opere mi pare non fosse quella meramente
imitativa del mondo, ma migliorativa della realtà visibile,
tale da rendere una realtà altra ben più elevata nel segno di
un’armonia costruita dal conio prezioso dell’artista che
diviene magico creatore di quelle immagini che tanto valgono
quanto empiono cuore ed animo.
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L’artista
Petazzi avallava le emozioni che sole rendevano la sintesi del
reale. Le cose del mondo sarebbero state dipinte e
reinterpretate con l’occhio interiore, per rendere valori
aggiunti atti a superare la mera volontà rappresentativa onde
forgiare e promuovere un’autentica dimensione visivo
poietica della realtà. Forse anche per le suddette ragioni
Elio fu artista ricercato, apprezzato, premiato ed ammirato
nel suo tempo, ed è per questo che ancora oggi la sua vicenda
appare importante, di rilievo, atta a stimolare riflessione in
molti artisti che hanno rinunciato a dipingere attratti da
un’arte immediata spesso troppo commerciale per essere
autentica, anteponendo alla pittura la pura creatività,
rinunciando quindi a quel modus pingendi che è anche
razionalità che per secoli parlò erga homnes ovvero si
rivolse a tutti e non solo come oggi spesso avviene e come già
avveniva nel secolo scorso a ristrette cerchie di specialisti
o cultori. Divertente a tal proposito ma anche ironico il film
con il grande Alberto Sordi “Dove vai in vacanza?”, dove,
raccontando le ferie di due “fruttaroli”, si arriva a
prendersi gioco pure della Biennale di Venezia, la moglie che
riposa fra opere d’arte viene scambiata per una
“originalissima performance contemporanea”.
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Con questo non intendo certo
banalizzare l’arte contemporanea né schierarmi contro
avanguardie o transavanguardie, concettualsimi o
performance art e tanto meno ho da ridire sull’arte
elettronica, cinetica od anche minimalista, né sono contro
alla storia dell’arte nel suo tratto più evolutivo, ovvero ciò
che ogni giorno sollecita il mercato a volte di valore a volte
molto meno, ma solo voglio affermare il ruolo importantissimo
di un pronunciamento, quello del pittore artista figurativo
che manterrà sempre un posto nella storia artistica di ogni
epoca, quando produca qualità e autenticità, non essendo
affatto disdicevole parlare di un’arte bella, di gusto,
sensibile ed atta ad elevare l’uomo rigenerandone lo spirito.
Un compito che solo pochi eletti possono svolgere, coloro che
definirei “tanto bravi pittori da essere eccellenti artisti”.
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Non si vuole certo in questa sede
fermare il progresso o contestare i percorsi canonizzati della
storia dell’arte ma solo suscitare una riflessione poiché a
volte i sentieri del contemporaneo sembrano percorrere strade
che tanto vogliono porsi forzatamente innovative, tanto si
allontanano dalla vera creatività che è quella che proviene
dall’animo dell’artista, dai sentimenti e che si antepone al
nulla. L’invenzione o la provocazione quando non siano frutto
di attente e meditate considerazioni, legate ad un percorso
serio, forgiato nel sacrificio, abbinato ad uno spiccato
talento, rimangono spesso solo tentativi inespressi in mano ad
un mercato inflazionato non sempre sufficientemente serio.
Questo modo di procedere non fa bene all’arte e tanto meno
rende un servizio all’umanità, ma non vado oltre se non
affermando che su quanto ivi riferito si imporrebbe una
meditazione assai profonda che porterebbe troppo lontano, al
di là dei limiti necessariamente circoscritti di questo
lavoro.
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Petazzi dunque rientra a mio
modesto avviso nella cerchia di quegli artisti che hanno
sempre voluto rendere uno stile affrancato dalla banalità,
solo, e non è poco, con i mezzi della pittura, un’artista
innamorato del colore ed è per questa via che assurse a
testimone e porta bandiera forse involontario, della qualità
pingendi di cui tanti artisti italiani furono maestri
indiscussi.
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Voler dipingere bene ovvero alla
maniera canonica dei secoli d’oro della pittura, poteva già
nel secolo scorso sembrare scelta fuori moda od almeno contro
corrente, ma non per Petazzi e nemmeno per i suoi innumerevoli
estimatori e collezionisti convinti. Il Petazzi in tempo di
giovinezza aveva già ben presente la possibilità di apprendere
dall’esperienza Futurista, dal Cubismo di picassiano conio,
dalla metafisica di Giorgio De Chirico vedi “muse inquietanti”
dipinto nel 1918, per non parlare poi dell’espressionismo
astratto, introdotto dal grandioso Vasilij Kandinskij che ne
fu artefice, del Surrealismo, degli altri mille movimenti e
tendenze come il rigore matematico della pittura concepita da
Piet Mondrian e quindi che dire dell’esperienza informale e di
Jackson Pollock, della Pop Art di Warhol e amici. A questo
punto ci si potrebbe chiedere: ma Petazzi come viveva tutto
ciò? Ovviamente non vi è una risposta, ritengo tuttavia che ad
Elio ciò non interessasse, poiché non avrebbe mai potuto
abbandonare il bello pittorico a scapito di proclami culturali
o della ricerca finalizzata alla speculazione intellettuale.
Per Petazzi una pecora doveva essere dipinta in modo che
apparisse veritiera, carica di enfasi, di armonia e non poteva
apparire come un punto nello spazio, ed una donna pure doveva
trasmettere passione, gentilezza, tenerezza, vivacità, non da
tradursi in una figura scomposta o deforme. Petazzi rimase
sempre ancorato saldamente alla pittura ad olio da stendere
nel segno della maniera, nel modo tradizionale pur nell’alveo
ricercato di un preciso e conclamato stilema.
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Come ritenere questo suo modo
coerente di procedere una manchevolezza? Non lo penso, anzi
trovo questa scelta legittima e distintiva, e per questa via
un punto di forza. Egli amava la pittura ed in particolare la
pittura ad olio, con i suoi rituali di preparazione dei fondi,
con la possibilità di dimostrarsi virtuosi nel rappresentare e
non solo nell'ideare, null’altro lo avrebbe distratto, ed in
questo certo andava contro la storia, almeno quella del '900,
soprattutto del secondo novecento, ma credo che di ciò fosse
pienamente consapevole, aveva fatto una scelta precisa, una
promessa a se stesso volendo proporsi quale portavoce della
bella pittura che mai avrebbe contraddetto. Mi pare anche che
a ben vedere oggi che le nebbie del ‘900 si stanno sfoltendo e
diradando sia pur lentamente, si possa meglio comprendere il
valore di coerenza espressa dal Petazzi. L’operoso e virtuoso
Elio Petazzi è certamente da considerare protagonista e porta
bandiera di un’arte solida, convincente, che non deve
giustificarsi perché ha in sé i valori della bellezza e della
poesia che sono trasversali alle epoche e sempre avranno
validi proseliti, dunque Elio fu ligio per una vita intera
nelle sua idea d’arte e di questo, visto gli esiti, bisogna
rendergliene giusto merito.
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La vita di Petazzi fu
avventurosa, mai dimessa, coraggiosa, mai rinunciataria. Egli
fu sempre pronto a raggiungere nuovi obiettivi, ad accettare
nuove sfide cromatiche, conscio dei propri mezzi ed indomito,
battagliero sulle ragioni della pittura e della pittoricità.
Ma andiamo ora ad analizzare in concreto le opere di Elio
Petazzi, sono certamente doni visivi impreziositi come non
mai da un’eleganza di forte impatto emozionale. L’ammirazione
sorge spontanea di fronte a passaggi cromatici stucchevoli
che lasciano nel fruitore immediate sensazioni estatico
cromatiche.
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I pigmenti Petazzi li trattava
con dovuto rispetto utilizzando una gamma cromatica estesa sia
nei colori caldi che freddi, ed operando in modo attento e
misurato, le tinte erano prima di certo intuite, poi stese e
rese con acclarata disinvoltura e slancio passionale. Le
cromie ben amalgamate sulla tavolozza venivano “riversate”
anche a mezzo di abili tocchi di spatola in regime di
completa spontaneità sulla tela in un fluire apparentemente
convulso, ma in realtà ben istintivamente preordinato e
diretto al raggiungimento del fine ultimo del dipingere che
sempre è quello di far innamorare altri del proprio lavoro
artistico.
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La leggerezza del tocco o la
disinvolta movenza della spatola si sposavano ad una tavolozza
ricca ed originale sempre imbandita a festa, sempre pronta a
dare il meglio di sé, nel raffinamento delle rotte artistiche
e delle intenzioni contenutistiche e della composizione, una
tavolozza destinata a farla da padrona sul biancore della
tela. Il risultato tanto atteso, desiderato e sperato è
espresso in ogni opera di questo artista con un’orchestrazione
della composizione emotivamente alta, fortemente sentita ed
attenta, tanto da lasciare poco al caso.
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Nelle sue opere Elio Petazzi
ritengo intendesse far rifluire una resa connaturata di
eleganza e fervore immaginifico, tale da far intendere anche
ai meno esperti delle cose dell’arte l’indiscutibile qualità
del proposito ed anche del prodotto ed alfine la sua
personalità forte e decisa gli consentì di perseguire
dissoluto la sua strada lontano da correnti e schiamazzi.
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Petazzi nel suo operare appare
grande osservatore che tuttavia riesce a decodificare
l'immagine assunta sulla retina onde rifugiarsi in una
rappresentazione depurata di ciò che non è utile all'effetto,
ma introducendo al contempo ciò che poteva dare utilità
all'insieme, come energetiche e smaliziate rifiniture, o
tocchi apparentemente casuali ma determinanti.
Quando l’opera ne
abbisognava l’artista Elio Petazzi era presente, riuscendo
senza troppi patemi d’animo né esitazioni ad imporre i suoi
ritmi del colore, le sue imprimiture coinvolgenti che
esaltavano e esaltano anche oggi la dimensione visiva e
sensitiva del fruitore anche meno attento.
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Le opere di Elio Petazzi sono
esempio di maestria ed efficacia interpretativa del soggetto,
come appare con chiarezza nei ritratti, sono coinvolgenti
forse anche perché in esse vige un lato elegiaco ed
incantatore, che colpisce il subconscio di chi vi si accosta.
Petazzi tese per tutta la vita ad utilizzare un linguaggio
solido, sempre più attrattivo che consentisse agli astanti
osservatori l'immediata sintonia emozionale con l'opera.
Questo artista ci conduce, con la sua profonda sensibilità,
nella dimensione privilegiata del pensiero, come risultato
dell’elaborazione forma immagine. I colori stesi a pennello o
a spatola a seconda dei generi e dei soggetti proponevano
frequentemente articolate composizione, specie nelle opere
rifacentesi ai Testi Sacri od in quelle a carattere
mitologico.
Ma poi che dire dei nudi
femminili ed anche sia pure in misura minore (non per qualità)
maschili, ove l’incarnato delle figure a volte diafano, talora
splendente è quanto mai legato al raggiungimento del perfetto
equilibrio fra luci ed ombre. Un operare pittorico spesso
suggestionante ed affabulatore, ove movimenti sinuosi, quasi
svirgolati, a volte repentini ricordano i modi del Ferrarese
Giovanni Boldini, il pittore delle dame francesi, ma Petazzi
più spesso volle esprimere un valore a sé.
Eppure quel valore non
sgorgò per caso, dietro erano certamente ore ed ore di
ricerca, di studio sia del disegno che della tecnica pittorica
o scultorea. Certamente anche la sua frequentazione
accademica, sia pure di breve periodo, deve aver influito in
tal senso. Un lavoro che scrutava umilmente il passato,
rielaborandolo interiormente per rispettarne i canoni nel
tentativo poi di una rilettura alla sua maniera. Forte dovette
essere il richiamo del Rinascimento, dei Manieristi, del ‘600
e ‘700. Quanto devono aver influito l’osservazione di artisti
del calibro di Guido Reni, del Parmigianino, del Guercino, del
Correggio, ma anche dei Francesi di ogni epoca apprezzati
durante i suoi trascorsi a Parigi. Eppure Petazzi riesce a non
legarsi fino in fondo a quei mondi passati o paralleli da cui
si sentiva attratto e di cui in parte è portatore, i mondi
della tradizione, della forma, del colore in studio o dal vero
"en plein air" alla maniera degli impressionisti.
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Elio Petazzi non si
lasciò mai traviare o
prendere troppo la mano da nessun altro artista o tendenza
artistica, anche se certamente conosceva tutto di tutti,
certamente sapeva di Telemaco Signorini, di Gaetano Previati,
e certamente ben conosceva i pittori tutti "della macchia", i
grandi Toscani, le cui tracce sono visibili in numerose opere
soprattutto di paesaggio. Le sue giovani donne dipinte, le
tante modelle rese con disinvolta eleganza in pose naturali e
pure originali, tali da superare i canoni di un mero
classicismo, ci appaiono sempre splendenti e sensuali, ma mai
volgari, coniate in una luce nuova degli incarnati. Nei nudi
di cui era maestro manca ogni morbosità, ma vi si percepisce
una grande carica di sensualità.
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Le modelle in posa che si offrono
alla carezza del pennello non mancano di un sorriso di
un’enfasi anche lieve di consapevole mondanità, pur legata ad
una traccia sempre presente di velata malinconia, forse
presagio di un’emancipazione alle porte o in stato di
avanzamento, forse effettivo ultimo baluardo di un mondo in
via di declino, opere queste che parlavano e parlano già un
lessico moderno, esprimendosi come anticipazione di nuovi
costumi, nuovi modi di essere e di apparire, quelli della
televisione , quelli dei rotocalchi per non arrivare alle
veline. Sono donne che appaiono sicure, disinvolte, che hanno
classe, che sanno cogliere il loro ruolo, altro che marginale.
Petazzi ritrae un mondo al femminile che lo affascina, che lo
incanta fornendone una lettura delicata e vibrante, facendo di
quelle nudità così ingenuamente ma altrettanto maliziosamente
esposte il leit motiv privilegiato di una comunicazione
emozionale. Le sue appaiono come bambole moderne, icone del
cinema o femmine fatali di riviste patinate, tante Marilyn
Monroe che fanno sognare per sottacere la loro fragile natura
di fondo. Petazzi le descrive con affetto, probabilmente vi
riversa il suo amore di artista, ne esalta la femminilità
l’esuberanza giovanile, pur esprimendola con sensuale
raffinatezza.
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Il
Petazzi dei corpi femminili compenetrati nel paesaggio come
nell’opera “nudo” (op. n. 316 – anno 1952 - cm. 50x40) mi
ricorda opere di Pierre Auguste Renoir e quindi anche il suo
modus operandi ove il taglio appare decisamente
impressionista, così come l’opera “Bagnanti” ( op. n. 343 -
anno 1965 (cm. 50x40), tipico soggetto alla Renoir. Se gli
incarnati sono addolciti da passaggi morbidi, delicati gli
sfondi alberati e boschivi sono resi con tocchi veloci che
rendono i colori primari vibranti e la scena suggestiva, che
intendono raccogliere luci ed ombre, per rendere viva l’opera
colta nei modi impressionisti ove i colori alla distanza
trovano fusione ed armonia.
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Altre volte accade che tutto si
stemperi in vedute che parrebbero appannaggio di un mondo
epico ove rintracciare la mitica Arcadia come narrata
dallo storico greco Polibio, (vissuto nel II secolo a. C.).
Stucchevole anche l’opera “Lia” (op. n. 314 – anno 1950 -
cm. 50x40) ove l’artista si avvale di una misura diversa nel
rendere il viso, concependo un singolare e sapiente gioco di
velature che rendono questo ritratto introspettivo e
lievemente malinconico, quasi a presagire i mali del nostro
tempo: la solitudine e la depressone, mali che Petazzi ritengo
presagisse già reali negli anni ’50.
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Stupenda per il piacere visivo
che arreca l’opera “Bimba con tutù” (op. n. 135 - anno 1970 -
cm. 70x50), il confronto va con Edgar Degas, un confronto a
livello molto alto che trova massima esaltazione in “Prova di
danza” (op. n. 318 - 1972 - cm. 50x40), “Ballerine” (op. n.
347 – anno - cm. 50x40), “Gruppo di ballerine” (op. n. 108 -
cm. 100x70) e tante altre opere analoghe che oggi sono
appannaggio di attenti collezionisti privati.
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Fra i vari generi trattati
dall’artista non mancano di suscitare interesse opere
descrittive di danze in costumi d’epoca, una riflessione su
balli popolari quali il flamenco, la danza tipica
dell'Andalusia, fortemente influenzata dal popolo nomade dei
Gitani e divenuta emblema della Spagna. In queste opere Elio
raccoglie l’enfasi della festa, le musicalità dedotte dal
senso di movimento introdotto nelle opere, da notare la
descrizione sempre precisa degli abiti, ove l’impianto
cromatico sostiene la passionalità della danza.
Petazzi è anche artista
che contempla sé stesso, non mancano diversi autoritratti ove
bene si evince la sua personalità forte e determinata, ma pur
sempre umile e mai sazia di apprendere e di fare.
Mi è gradito ora parlare
di altre opere come le nature morte e del Petazzi pittore dei
fiori, capace di coglierne il profumo, grazie alla forza e
brillantezza creata dai contrasti cromatici nella definizione
delle forme e dei petali. Opere come “vaso di Rose” (op. n.
167 – cm. 70x50) o “fiori di Lillà” (op. 171 - cm. 70x50),
sono più che sufficienti a descrivere la bravura ed il talento
del pittore Petazzi nel descrivere la natura sia essa natura
morta o paesaggio. Veniamo ora alle sue marine per la maggiore
realizzate negli anni ’60 ove il Petazzi appare in veste
neoromantica, quando esalta i flutti che si infrangono sugli
scogli con senso di fragore tale da farci sentire partecipi
ed immersi nella scena, si crea quel senso panico, quel
timore per la forza immane della natura incontrollabile quel
senso di infinito che ci lascia pieni di stupore ed al
contempo attoniti.
Natura che ci svela altri aspetti
nelle scene equestri in riva al mare, le sue stupende
“Cavalcate” in riva al mare, sono queste ultime probabilmente
le opere in cui maggiormente l’artista doveva riconoscersi,
poiché ne ricordano il carattere forte e ribelle, ma
fondamentalmente di uomo autenticamente “libero” come lo può
essere il vento che queste opere lasciano percepire nel suo
fluire, nel suo insinuarsi ed apparire alla ribalta fra le
chiome sciolte di fascinose Amazzoni. Fra queste opere, forse
più dolci e pacate appaiono “Passeggiata dopo la tempesta”
(op. n. 133 - cm. 70x100) e “Cavalcata” (op. n. 128 - cm.
70x100), ove il ricordo va ai pittori toscani della macchia
(i Macchiaioli). Passiamo ora ad analizzare i tanti paesaggi
spatolati come “Paesaggio Ligure” (op. n. 214 - cm. 70x50) che
mi appare egregio esempio di cosa si può fare di bello e di
toccante, con i colori ad olio. In questo villaggio Petazzi si
ritrova, ritrova il senso della vita, le luci meravigliose di
una regione unica per quando la natura si sia dedicata ad
essa: la Liguria, cui certamente l’opera fa omaggio.
Che dire poi di “Veduta
Campestre” (op. n. 179 - cm. 50x70) ove l’occhio si nutre
vorace del piacere retinico di una veduta agreste con
sfondo collinare, rivolta all’estasi della poesia.
Anche “ Paesaggio invernale” (op. n. 218 – cm. 70x50) è reso
con una delle tecniche preferite, quella dei colori ad olio
distesi con le spatole. Qui emergono colori puri e fortemente
pervasivi, lucenti all’inverosimile, ove i tocchi nervosi ma
puliti, ricchi di toni e forza espressiva, rendono la scena
invernale altro che cupa, una vera festa per lo spirito
dell’osservatore.
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Poi ancora “Riflessi sul lago”
(op. n. 186 – 50x70) che illustra il lago stesso nelle sue
nebbiose lontananze e brumose ombreggiature cui fanno eco
colline e montuosità. Il tutto è espresso tanto soavemente da
placare lo spirito più iracondo, ove i riflessi rendono
altrettante riflessioni, che pur avvalendosi di lieve afflato
malinconico, trovano nella dolcezza estrema dell’approdo
coloristico quel senso di profonda pacatezza che assurge a
pura serenità, un'estasi dei sensi da condividere con chi si
soffermi ad osservare.
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Ma veniamo ora ai fuochi
artificiali di una pittura svolta per una vita a 360°, ovvero
percorsa in tutte le direzioni in un’espansione continua ed
incontenibile di chi vuole sempre porsi nuove sfide
probabilmente per mantenere alta quella tensione emotiva che
sola induce a creare. Bisogna pensare al nuovo ciò che è
oltre, ecco il motore propulsivo, come per l’alpinista che
ricerca sempre nuove vette da sfidare e vincere. Parliamo
quindi del periodo che definirei monumentale nella
rappresentazione vedutista: le vedute cittadine ed in
particolare quelle veneziane e parigine. Vedasi ad esempio
“Venezia” (op. n. 308 - anno 1975 - cm. 50x40), un dipinto che
nulla ha da invidiare ai grandi oli del passato e mi riferisco
in particolare ai grandi vedutisti veneziani del '700 da
Francesco Guardi a Giovanni Antonio Canal detto il Canaletto
(1697-1768). Eppure non vi è imitazione né simile pretesa,
Petazzi ridefinisce la luce riconducendola all'interpretazione
impressionista, alla Claude Monet o alla Camille Pissarro, pur
rendendo giustizia alla sacralità monumentale della Venezia
patrimonio dell’umanità ove il valore ricercato è certamente
più simbolico che positivista. Ora non mi rimane che
soffermarmi sulle opere, di certo capolavori, come “Vegliardo”
(op. n. 226 – anno 1973 - cm. 100x70) o “I Suonatori” – anno
1965 – cm. 100x70), come “Il Voto” (op. n. 125 - anno 1970 –
cm. 100x70). Qui la resa cromatica ed il patos emotivo la
forte introspezione, lasciano evincere palesandole in modo
certo doti di ritrattista e pittore di scene non comuni se non
del tutto eccezionali. Petazzi si rifà poi ai Testi Sacri
affrontando tematiche della fede col dovuto rispetto e
l’ossequiosa partecipazione descrittiva ed emotiva. Tutto
nell’opera di Petazzi è teso a far trasalire l’osservatore,
per poi legarlo all’immagine, vi è il Petazzi spesso
impressionista, che cerca la luce oltre gli spazi angusti
dello studio, la rilegge la interpreta la svela come
nell’opera “Notre Dame” (op. n. 62 - anno 1975 – cm. 100x70),
anche se Petazzi più che la luce esprime il colore che deve
emergere ricco padrone indiscusso della scena ed in questo il
ricordo va più che in avanti all’indietro si riporta sul
maestro dei maestri
“Eugène Delacrois”. Vi sono poi
opere di transumanza ove la vita mesta ed umile dei pastori
viene letta con tutto quel rispetto e quella partecipazione da
farmi ricordare la nota poesia "Pastori" di Gabriele
Dannunzio, per dire che la poesia c’entra molto con questo
pronunciamento lirico terrigno ed al contempo etereo ove
prospettive infinite descrivono nel percorso de i pastori il
sublimato percorso dell’artista stesso nell’abbisogna di
forgiare di continuo nuove forme espressive alla ricerca del
convincimento assoluto di aver raggiunto il tocco migliore il
più definito approdo formale. Che umanità appare nell’opera
“La Stanchezza” (op. n. 303 - cm. 50x40), ove un pastore
ripreso in primo piano, quasi in modo cinematografico porge
una mano alla fronte ed al contempo si appoggia con maggior
forza al bastone e ove la pecora stessa posta sulla destra
dell’immagine pare nella sua staticità comprendere quel
momento di inerzia. La fatica viene espressa, in queste opere,
ma anche la leggiadria appare indistintamente come nell’opera
”Pastorella” (op. n. 302 - cm. 40x50) ove il movimento della
ragazza, fluido ed al contempo scattante ne evidenzia la
giovine età, ma anche ne preordina il futuro, ove innanzi a
lei appare una pecora in primo piano che lecca il suo agnello
con tenerezza. Ecco allora poter rintracciare un altro aspetto
non di poco conto nell’arte di Petazzi un momento simbolista
che lo avvicina ai Previati, ai Pelizza da Volpedo ed ancor
più ai Segantini, pur senza gli esiti divisionisti propri di
quest’ultimo, rimanendo la pittura di Petazzi anche in queste
esternazioni sempre sé stessa, nel suo stilema personalissimo
e già ben definito.
Forse in queste scene di
pastorizia vi si rintraccia qualche riferimento al Pavullese
Gino Covili, scorporandone ovviamente l’impronta naif, volendo
porre a caposaldo il rispetto e l’attenzione alle tematiche di
quel mondo umile che il Nostro seppe cogliere con tanta
strepitosa fermezza d’intento tale da indurre pervadenti e
travalicanti espressioni emozionali. Stupenda di questo
periodo anche l’opera “Tenerezze” (op. n. 304 - cm. 50x40) ove
il pastore accarezza le sue pecore che in fondo sono la sua
vita come, parlando sempre in metafora, l’artista accarezzi la
sua tela con l’imprimitura dei suoi colori per esaltare
l’umanità e i valori di una civiltà che a lungo ha fatto
crescere l’Italia e di cui ancor oggi in certi angoli della
Sardegna o del Centro e Sud Italia troviamo riscontro.
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Che dire poi ancora dei paesaggi
puramente naturalistici? Forse che traggono spunto dalla
realtà dei nostri monti e laghi per poi esprimersi
semplicemente in afflato cromatico rivolto a certificare la
voce del poeta, il senso nostalgico romantico della natura
vista certamente con amore con senso di appartenenza, non solo
come fonte di ispirazione ma anche di contemplazione e
congiunta ammirazione.
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Vi è grande l’impronta
impressionista vige già la sintesi, il bisogno di uscire dalla
definizione dello specifico per far emergere un discorso
corale nell’immagine ove non vi sia assolo ma composizione,
ove ogni parte della tela è opera in sé depurata dal
particolare e ricondotta ad esaltare le parti circostanti,
vedasi a tal proposito l’opera “Scogli” (op. n. 217 – cm.
70x50) o ”Sponda Ligure” (op. n. 189 – cm. 50x70). A questo
punto non posso non notare l’influsso dell’800 Italiano ed in
particolare della pittura “Macchiaiola” come già asserito, che
seppe operare con tanta stupefacente bellezza ed
appropriatezza in Toscana, basti citare fra i tanti Telemaco
Signorini, Silvetro Lega e che dire di Giovanni Fattori.
Eppure se molto vi si rintraccia, allo stesso tempo si sente
in Petazzi il bisogno di nuovi approdi di un nuovo e diverso
modo di esprimersi. Egli ha osservato con dedizione e
rispetto il passato dell’arte ma per spirito di pura
conoscenza, poiché lo sguardo al fine si è sempre rivolto al
suo presente ove come pochi è riuscito a concretizzare grazie
ad una vita artistica intensa ed una umana avventurosa ed
appassionata, la sua peculiare lezione di stile e coerenza.
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Franco Bulfarini
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