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CARAVAGGIO L’IMMAGINE DEL DIVINO
UNA MOSTRA
NON PRIVA DI INCERTEZZE DEDICATA AL GRANDE PITTORE LOMBARDO
Nel
“mostrificio” permanente che contraddistingue (nel bene e nel male)
la nostra attualità, un posto di assoluto rilievo spetta proprio a
Michelangelo Merisi, detto il Caravaggio.
In un contesto, come quello contemporaneo, in cui li PIL (Prodotto
Interno Lordo) costituisce una sorta di totem (e di tabù) per nulla
discutibile, qualsiasi “evento” culturale in grado di far girare del
denaro (magari pubblico) è generalmente oggetto d’un diffuso e
generalizzato consenso che va ben al di là del suo effettivo
spessore e della sua reale validità.
Non è un caso, per tanto, che all’interno di questo meccanismo
“produttivo” a sommi artisti come Caravaggio, van Gogh, Munch,
Modigliani o Schiele (per fare alcuni esempi illustri e
chiarificatori) venga addebitato un ruolo di primo piano, più in
ossequio a quel fin troppo propagandato “maledettismo” che li ha
resi arcinoti (e che quindi ne fa un potente strumento di richiamo
per le masse “mediaticamente” acculturate), che all’effettiva
possibilità di pervenire a significativi contributi o nuovi sviluppi
in termini di ulteriore conoscenza del loro preclaro operato
artistico ed intellettuale.
Detto in due parole, investire su Michelangelo Merisi si rivela
decisamente più “proficuo”, proprio in virtù della sua sbandierata
(e “spendibile”) rissosità, di quanto non lo sia, ad esempio,
puntare sul Veronese (che però, per una delle sue famose Cene,
finì davanti all’Inquisizione veneziana) o sul Carracci (che pure è
uno dei padri del Naturalismo seicentesco tanto quanto Caravaggio,
nonché del nascente Classicismo emiliano), poiché dotati d’un tasso
d’avventurosità esistenziale evidentemente più basso e
conseguentemente d’un ben minore appeal.
Premesso ciò, volendo entrare nella valutazione della mostra su
Caravaggio inaugurata il 14 dicembre al Museo Pepoli di Trapani (ove
sarà visibile fino al 14 marzo), va subito precisato che tale
iniziativa trova una sua parziale giustificazione soprattutto (o
forse soltanto) nell’indiscussa bellezza delle tele esposte (fra le
quali si annoverano degli assoluti capolavori), poiché tanto
l’allestimento, quanto il cosiddetto “fine scientifico”, a ben
guardare, suscitano più d’una perplessità.
Le opere esposte, infatti, sono solamente quattordici; per altro non
tutte riconducibili a un’indiscussa autografia (il Sant’Agapito,
o più probabilmente San Gennaro, per indicarne una, è di
attribuzione molto controversa) e inoltre selezionate secondo un
principio guida che non appare propriamente univoco (qualcuna, come
la prima versione de I Bari, è certamente del periodo “più
chiaro” che precede la latitanza, altre invece sono del periodo
successivo, decisamente assai “più cupo” sia dal punto di vista
luministico che da quello emotivo), infine esposte secondo un
criterio troppo spartano e comunque inadeguato alle giuste regole
ottiche di fruizione (poiché non sempre poste in una posizione che
ne consenta l’osservazione da una congrua distanza).
Fatte queste dovute “precisazioni”, la mostra tuttavia può
costituire non solo un’occasione di intenso godimento estetico, ma
anche – se approcciata con la dovuta attenzione e la giusta
preparazione – una parziale fonte di spunti di riflessione
sull’operato del Merisi, in grado di ridimensionare tutta quella
pubblicistica (anche coeva) che ha puntato quasi esclusivamente
sulla sua stravaganza e sul suo carattere violento quali prioritari
parametri di valutazione del suo fare artistico.
Non è un caso, per tanto, che il titolo di questa esposizione sia
“Caravaggio, l’immagine del divino”, proprio a conferma della
volontà di porre in evidenza quegli aspetti spirituali
dell’ispirazione caravaggesca, che costituirono, in effetti, il
principale “movente” delle originali ideazioni e dei conseguenti
gesti del grande pittore lombardo.
Spesso considerato blasfemo o del tutto irreligioso (per i clamorosi
rifiuti opposti ai suoi dipinti di soggetto sacro da parte di
svariati committenti), in realtà Caravaggio fu un sincero e convinto
uomo di fede, assai vicino alle posizioni degli Oratoriani e quindi
a quelle istanze neopauperistiche di “renovatio” della religione
cristiana propugnate da san Filippo Neri e dal cardinale Borromeo.
Proprio alla luce di questa vicinanza “militante” a tali correnti
controriformistiche ispirate ai valori del primo Cristianesimo, il
Merisi introdusse nelle sue tele quelle tipiche figure di umili e di
mendici, capaci di rimarcare l’assunto cardine dell’Evangelo secondo
il quale <<gli ultimi saranno i primi>> e che lo hanno reso arcinoto
sin dalla sua epoca, facendone – più a torto, che a ragione –
un’icona del ribellismo antiecclesiale d’ogni tempo. Basta, infatti,
guardare i pastori della Adorazione di Messina, per avere
piena conferma di come il crudo “naturalismo” seicentesco, di cui
Caravaggio fu uno degli indiscussi iniziatori, risponda più a
criteri eminentemente dottrinari, che ad un irriguardoso desiderio
di porre alla berlina il verbo religioso. Un dato che si evince con
chiarezza ancor più lampante allorché ci si accosti ai dipinti di
tematica francescana (di cui questa mostra offre una selezione
estremamente interessante ed indicativa), ove, non a caso,
l’esaltazione dei valori pauperistici del proto-Cristianesimo trova
la sua più fedele e convincente rappresentazione proprio nel corpo
“consunto” di quel santo che di essi si fece vessillifero e strenuo
sostenitore.
L’ascetismo mistico ed emaciato (ben visibile nel San Francesco
in meditazione di Carpineto Romano, così come nell’omonima tela
di Cremona), il peculiare uso della luce quale simbolo di grazia
vivificante in contrasto alle tenebre circostanti alludenti
all’insensibilità al richiamo della fede (perfettamente
esemplificato dal San Francesco riceve le stimmate di Udine),
la rarefazione degli assetti compositivi tendente quasi al
metafisico (tipica degli anni estremi della latitanza e delle
crescenti inquietudini legate al “bando capitale” che li
caratterizzarono) sono, infatti, i connotati salienti di queste
opere di matrice francescana, considerabili a tutti gli effetti come
una compiuta ed impareggiabile traduzione visuale della profonda e
sentita religiosità del grande maestro di origine lombarda.
Se è indubbiamente vero, dunque, che egli seppe condurre con
modalità stilistiche del tutto autonome ed innovative (anche per i
suddetti aspetti dottrinari) la pittura del suo tempo dalle morte
gore delle ultime e stanche propaggini del tardo Manierismo alle
dirompenti soluzioni lessicali del Naturalismo, è anche vero che
senza il retaggio della tradizione lombarda (e della sua
consuetudinaria attenzione per il dato di “natura”), senza il
colorismo di ascendenza veneta (in particolare di Tiziano e
Tintoretto) e senza le premesse “chiaroscurali” di artisti quali il
Savoldo (non a caso operante fra Lombardia e Veneto durante il ‘500)
difficilmente Michelangelo Merisi avrebbe potuto e saputo
“sincretizzare” un tale linguaggio peculiare, destinato a divenire
il prioritario (se non esclusivo riferimento) per gran parte degli
artisti italiani ed europei della prima metà del Seicento
Lo stesso “stravolgimento mentale” (di cui spesso parlano le fonti
dell’epoca, alimentando quel mito dell’artista “genio e sregolato”
del quale non a caso i romantici fecero il loro ideale precursore)
va a sua volta ampiamente ridimensionato e collocato nella temperie
del periodo storico, che – come narrato dal Manzoni ne I Promessi
Sposi o, più recentemente, da film come Mission o come il
Destino d’un guerriero – fu contraddistinto da un assai
malinteso “senso dell’onore” e da un inevitabile e consequenziale
tasso di violenza bruta e dissennata. Il famigerato Ranuccio
Tomassoni (la cui uccisione da parte del Merisi causò l’arcinota
condanna a morte, nonché la successiva fuga a Napoli, poi a Malta,
quindi in Sicilia, ancora a Napoli, fino alla morte a Porto Ercole),
infatti, non era per nulla uno “stinco di santo” e, men che mai, una
povera “vittima sacrificale”, essendo piuttosto ascrivibile ad una
categoria che oggi definiremmo di pregiudicati o di “mezzi
mafiosetti”.
Se, dunque, vi può essere un fondato motivo per vedere questa mostra
trapanese dedicata all’arte del Merisi, questo (oltre all’ovvio
desiderio di contemplare alcuni esempi di splendida pittura ed alla
possibilità di vedere o rivedere le collezioni del Museo Pepoli) va
ricercato soprattutto in una possibile occasione di rilettura più
attenta e consapevole dell’operato d’un artista troppo spesso
travisato e distorto per fini “pubblicistici” (e “pro domo
propria”), la cui vera grandezza sta invece nell’aver saputo
supportare l’originale raffinatezza del proprio gesto artistico con
un notevole spessore intellettuale (fortemente impregnato di
religiosità), com’è tipico di tutti coloro che, pur incarnando
fedelmente lo “spirito del tempo”, hanno avuto la rara dote di
consegnare le loro idee all’immortalità.
Salvo Ferlito
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