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ERMANNO BAROVERO
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“…E il cielo cammina.”
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Si inaugura il
9/12/05 alle ore 18,30 la personale dell’ artista torinese
Ermanno Barovero, dal titolo “ …E il cielo cammina.”.
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Barovero, docente
dell’ Accademia Albertina di Torino, presenta una trentina di
dipinti recenti, tra i soggetti: paesaggi di Gallura, cieli,
roseti.
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La mostra è
accompagnata da un catalogo con testo di Clizia Orlando.
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Il critico scrive:
…Non sono più le lamiere che conoscevo segnate da rigonfiamenti
e lacerazioni, sono dipinti in cui si respira ancora una volta
la sua voglia di essere sincero con sé stesso.
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Nella rapida
successione dei colpi di spatola si libera il sentiero dell’
intricato rincorrersi di una mediterranea vegetazione o acquista
sostanza il cielo nelle stratificazioni cromatiche, atmosfere in
divenire da cui filtrano suggestioni ottocentesche da Constable
a Turner a Bocklin.Il colore diventa sonoro.
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Nella pittura di
Barovero si intersecano fantasia e ragione, gestualità e
sentimento; è in tale identità
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l’ emozione si
travasa e si tende, diventa energia ideale.
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Questa di Barovero
non è la prima tappa in Sicilia, sue opere erano già state
esposte con successo di pubblico e stampa nella galleria di
Franca Prati.
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Nel 1998 con “
Rose Rosae ” presentata da Nico Orengo, nel 2000 con “ Il
petalo, il vento, il sole ” presentato da Lino Agrò e nel 2003 “
La quinta stagione ” presentato Francesco Casorati, che in
quell’occasione scriveva …“ I quadri di Ermanno non sono opere
chiuse ma continuano a parlare linguaggi diversi e comunicano
altrettanti diversi stati d’ animo… .
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L’ esposizione si
protrarrà fino al 14/01/06.
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Catalogo in
galleria.
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Orari Galleria
9,30/13 – 16/20
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Era
l’ inizio dell’ estate del 1987 quando ho conosciuto Ermanno
Barovero.Facevamo parte della stessa commissione di maturità al
liceo artistico “Canina” di Casale.Ermanno arrivava da Torino
con il treno, io lo aspettavo alla stazione di Asti e poi in
macchina si raggiungeva la sede di esame.Andata e ritorno, una
buona ora di fitta conversazione ogni giorno; tra gli argomenti
più gettonati l’ arte, soprattutto quella contemporanea, un po’
di politica, le curiosità della gastronomia locale.
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Ricordo il sopralluogo fatto un pomeriggio, sulla strada del
ritorno, al santuario di Crea, tra le variegate espressioni del
manierismo piemontese (tra cui gli affreschi del Moncalvo) e
architetture di memoria romanica e rimaneggiamenti barocchi,
Barovero mi raccontava della sua arte, del suo modellare la
materia nella necessità di accrescere la voce della forma con
interventi cromatici.Lo ascoltavo.Mi coinvolgeva l’ entusiasmo e
la sincerità con cui spiegava il “sentire” di quelle sue
scelte plastiche, di una ricerca dettata da impulso viscerale e
non influenzata da mode del momento.
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Finita la maturità ai saluti si sono accompagnate le promesse di
rito “ci sentiamo presto!” .
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Ho
rincontrato in questi giorni Barovero, sono passati 18 anni.Se
cerco di materializzare questo tempo mi avvolge la vertigine.E’
impossibile, anche se può apparire retorico, sembra iei.
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Ermanno
mi ha chiesto di scrivere un testo per la personale che
allestirà alla galleria “Prati” di Palermo.L’ idea mi
entusiasma, ho conservato intatto il ricordo del collega-artista
estroverso e sensibile.
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Arrivo nello studio di corso Casale (è una coincidenza?!), sono
curiosa di vedere l’ evoluzione del suo fare artistico.
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La
porta dell’ atelier si apre e precipito nella pittura: trionfo
di colori, gestualità che stratifica la riflessione nella
materia, odore di trementina.
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Sento
affiorare dalla superficie di quelle tele l’ inconfondibile
personalità di Ermanno.
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Non
sono più le lamiere che conoscevo segnate da rigonfiamenti e
lacerazioni, sono dipinti in cui si respira ancora una volta la
sua voglia di essere sincero con se stesso, dichiarando il suo
“fare arte” come trasposizione di un sentimento puro: costruire
il proprio linguaggio espressivo recuperando in modo
rivoluzionario la pittura.
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Apprezzo questa scelta coraggiosa in tempi “un po’ confusi” per
l’ arte, dove, a volte, sulla scia di una ormai logora
avanguardia si vive un mesto dejà-vù camuffato nella
propria valenza da abili intrattenimenti dialettici.
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Barovero usa tele, colori, spatole, pennelli, li usa con
orgoglio, dando vita ad assolati paesaggi di Gallura, a cieli
che mutano nello smorzarsi o affermarsi della luce, a rose
tratteggiate nella loro fragile eleganza.
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Una
pittura vera, genuina in cui il soggetto viene dichiarato nella
sua inconfondibile identità.
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Rimango abbagliata da tanta forza gestuale e ricchezza cromatica.Il
pittore non si limita a contemplare la “veduta” attraverso un
atteggiamento di intimistico lirismo, ma partecipa con
appassionato animismo al tormento o alla quiete che lo circonda,
rimanendo ogni volta sorpreso di fronte alle sfumature di un
nuovo scenario.
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Barovero gioca, nell’ assoluta padronanza dei propri mezzi, con
lo spessore materico manifestato con intenzione plastica, alcuni
ciuffi d’ erba, alcuni cumuli nuvolosi, qualche vermiglio
petalo, sembrano oltrepassare la superficie del dipinto per
presentarsi in un accenno tridimensionale allo spettatore.
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Nella
rapida successione dei colpi di spatola si libera il sentiero
dall’ intricato rincorrersi di una mediterranea vegetazione o
acquista sostanza il cielo nelle stratificazioni cromatiche,
atmosfere in divenire da cui filtrano suggestioni ottocentesche
da Constable a Turner a Bocklin.Il colore diventa sonoro.
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Mosso
da un’ intrinseca forza interiore, il profilo dell’ opera
lievita liberando un sentimento di tattile partecipazione e
allora gialli e arancioni rivestono di calore fili d’ erba e
arbusti, verdi, rossi, blu danno sostanza ad un orizzonte più
lontano.Il cielo ora abita la quasi totalità dello spazio
dipinto, ora si aggrappa, quale sottile lembo, alla cornice
della tela: in quel brandello d’ infinito il suggerimento a
osare oltre.
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Il
ritmo che sostiene gli accordi timbrici della sua pittura dà
vita alla fisionomia di una rosa, può essere il trittico dove si
afferma, nella solitaria postura del soggetto, l’ essenza di un
messaggio carico di valenza semantica o una “cascata di rose”
sulle grandi superfici telacee, immagine davanti alla quale lo
spettatore resta intrappolato dalla raffinata iperbole.
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Nella
pittura di Barovero si intersecano fantasia e ragione,
gestualità e sentimento; è in tale identità l’ emozione si
travasa e si tende, diventa energia ideale e allora ci lasciamo
trascinare in questo vortice pittorico-poetico perché ora
sappiamo che <…il cielo cammina>.
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Clizia Orlando
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PERSONALE
DI MIMMO GERMANA'
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La
vivacità cromatica, la corposa pastosità della stesura, la
figurazione sintetica ma palese sono tutti chiari indizi d’una
impellente e incoercibile esigenza di pittura.
Proprio il bisogno di riperimetrare la traduzione delle dinamiche
psico-affettive entro i limiti d’un intelligibile “mestiere” –
esente dunque da intellettualismi o concettualismi esasperati e di
sorta – ha fatto di Mimmo Germanà uno degli artefici di quel
ritorno alla prassi pittorica più classica, che è stato il tratto
distintivo della cosiddetta Transavanguardia.
Dismesse le armi – in vero alquanto spuntate – dello
sperimentalismo accanito e spesso onanisticamente fine a sé
stesso, sul volgere del secolo scorso, a partire dagli anni ’80,
una intera e nuova generazione di artisti si è infatti resa
dichiaratamente protagonista di quel rilancio delle pratiche
artistiche più “fabbrili” – in senso tecnico e linguistico –, che
ha scardinato l’irrigidito determinismo (in termini di diacronico
susseguirsi di cause ed effetti) tipico dell’incedere bipolare
delle avanguardie, introducendo quell’ottica sincronica (di
coesistenza dei più svariati orientamenti) ancora pienamente in
atto nel panorama della contemporaneità.
All’obbligo dialettico, e più sovente polemistico, che aveva
imperato per quasi tutto il novecento, si è andato così
sostituendo quel caratteristico nomadismo culturale – per usare la
classica espressione tanto cara al teorico della Transavanguardia
Achille Bonito Oliva – che ha legittimato il famelico eclettismo
imperante ancora oggi nell’operare di tanti artisti. Guardare al
passato (oltre che al presente) da allora non è più stato in alcun
modo un limite o una remora, bensì una prassi operativa
autorizzata da quella crisi delle ideologie (a torto considerate
idee forti, trattandosi piuttosto di sclerotizzati schematismi)
dalla quale è poi discesa una più autonoma ideazione, in grado di
consentire l’accesso a fonti estremamente diversificate con una
progettualità del tutto svincolata da obblighi di appartenenza e
quindi esente da proclami programmatici.
Si spiega in questi termini, alla luce d’una compiuta liberazione
mentale e gestuale da risacche movimentistiche, l’articolato fare
artistico di Mimmo Germanà, il cui agire è stato improntato ad una
ampiezza di sguardo non coercisa o inibita da argini linguistici
di tipo dogmatico.
Non può quindi sorprendere il disinvolto recupero – o più
propriamente il riciclaggio – dell’acceso cromatismo delle
avanguardie di primo ‘900, che ha contraddistinto e permeato nel
profondo l’intera sua pittura durante gli anni ’80 e fino ai primi
anni ’90, quando la morte lo ha prematuramente stroncato,
cancellandolo dal panorama dell’arte italiana a soli 48 anni.
Fauves (e Matisse sopra tutti) ed espressionisti d’area germanica
(il Blau Reiter in particolare) paiono essere stati i riferimenti
preferiti e quasi obbligati, in quanto fonte elettiva di
suggestioni coloristiche di pura intensità e dallo squillo
estroflesso fino agli estremi della violenza pervasiva. Ma anche
la sintesi di tratto e la stesura corposa – a momenti di gran
pastosità – testimoniano un ripensamento di quelle esperienze di
innovativa dirompenza, rispetto alle quali Germanà si pone quale
indipendente e originale interprete, capace di aggirare le insidie
del citazionismo filologico e del mero ossequio museale. Se è vero
che il Girotondo si presenta quale riconoscente ed ammirato
tributo a Matisse, è altrettanto vero che nelle insistite
sarabande coloristiche di stampo neo-fauve (si guardi alla figura
di Senza titolo del 1983, costruita con nevrili e ben misurate
sciabolate di colore) e neo-espressionista Germanà riesce ad
introdurre e ad infondere, con gran abilità, quel soffio
tipicamente insulare, che ha nella resa abbacinata delle cromie il
suo tratto distintivo e dominante.
Nessuna mediterraneite acuta, ma una fisiologica
neo-mediterraneità – nel solco, per l’appunto, di Matisse, ma
anche della tradizione pittorica siciliana – che trova nelle
epifanie dei rossi, dei gialli, degli arancioni, dei verdi puri e
dei cupi azzurri il suo compiuto e pieno concretarsi.
Ecco allora la bellissima Fontana blu del 1990 o ancora il
monumentale rosseggiare della peculiare figura femminile in
Fontana del 1991 o il vivacissimo (e chagalliano) Etna del 1997
restituirci una dimensione di insularità pencolante fra il
vagheggiamento onirico proprio della condizione dell’emigrato (Germanà
ha vissuto a Milano) e la pertinente enucleazione del dato
emozionale insito nell’immaginario autoctono.
Pittura meticcia e contaminata, dunque, questa di Mimmo Germanà ,
che , nella armoniosa ibridazione di pulsioni e intuizioni
personali con i cascami di avanguardie ormai elette a consolidata
tradizione, ha partecipato e continua a partecipare – in maniera
fondante – alle complesse meccaniche della temperie artistica
attuale. Una temperie nomadica fino alla zingaresco (e come tale
punteggiata di crasi impreviste e spesso assai fertili), in cui la
frontalità oppositiva ha ormai lasciato pieno campo ad una più
avvolgente lateralità di accostamenti, consentendo infine innesti
e fagocitazioni un tempo impensabili, ma che sono il vero sale
estetico della nostra convulsa contemporaneità.
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PERSONALE DI BRUNO CARUSO
“SAN GIORGIO ED ALTRI CAVALIERI DI BRUNO CARUSO”
per tutto il mese di maggio
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La capacità di “ripensare” i grandi
“topoi” dell’arte del passato è da sempre uno dei caratteri fondanti
del fare artistico di Bruno Caruso.
Non nuovo, dunque, a imprese di tal fatta – basti ricordare Alla
Maniera Spagnola, per averne piena contezza – il grande artista
palermitano, su specifica richiesta di privati committenti, ha
infatti ideato e realizzato una ennesima e nuova variante pittorica
sul tema di San Giorgio e il drago, così confermando la sua spiccata
e qualitativa inclinazione per il fertile dialogo con il “museo”, e
quindi con tutte le pregresse trattazioni dei soggetti “classici”
che egli ama prendere in esame.
Forte di una tecnica raffinata e virtuosistica, in grado di
mantenere inalterata la propria efficacia visuale senza cedere a
indulgenze leziosistiche o di maniera, Caruso, anche in questa
occasione, entra in “medias res” con quel piglio incisivo e sicuro
che lo caratterizza abitualmente, offrendo una personale
riproposizione dell’eterno scontro fra bene e male dall’inequivoca e
smagliante cifra stilistica. Il cavallo rampante (secondo una
tradizione che parte da Paolo Uccello, passa per il bassorilievo di
Donatello, fino a giungere alla declinazione operata dal giovane
Sanzio), l’intensa espressività del cavaliere, l’aspetto grottesco
del drago, il forte impianto grafico (benché si tratti di un
dipinto), il minuzioso e quasi fiammingo gusto del particolare,
nonché il colorismo assai brillante sono infatti riconducibili a
quel caratteristico lessico figurativo, peculiarmente dipanato fra
caricaturale deformazione espressionistica (si pensi alla sua tipica
gorgone Medusa) ed impareggiabile capacità di scavo psicologico (ben
ravvisabile nei tanti ritratti di intellettuali, artisti e amici di
cui è stato autore), che ne hanno fatto e continuano a farne uno dei
più rilevanti esponenti delle arti visive insulari e nazionali del
secondo novecento e dei nostri giorni.
A conferma e rinforzo visuale dell’unicità del suo gesto artistico,
nello specifico di questa esposizione, concorrono ampiamente anche
le opere – per così dire – preparatorie del San Giorgio, della cui
genesi descrivono dettagliatamente (e quasi filologicamente) l’iter
articolato e progressivo, maturato per prove, approcci e tentativi,
rappresentati da numerosi schizzi e disegni acquerellati, come nella
migliore tradizione d’ogni “pictor optimus” di rinascimentale
ascendenza. Ecco allora la versione con un nudo Giorgio de Chirico
che si slancia verso il drago o quella ancor più “vignettistica” con
l’altro nume tutelare, Giorgio Morandi (anche qui l’onomastica non
pare per nulla casuale), che a cavallo d’un asinello, mulinando una
ramazza, scaccia un gatto in una piazza di Bologna. E non manca
neppure una complessa dissertazione equestre (concepita per il Palio
senese del 1985), immaginificamente operata costruendo la figura del
cavallo attraverso la sommatoria di singole parti costituite da
altrettanti piccoli animali, quasi a voler far confluire in una
fantasiosa crasi il rigoroso retaggio leonardesco degli studi per il
monumento allo Sforza ed il visionario e destabilizzante approccio
arcimboldesco improntato alla simultaneità di unico e molteplice.
Un ensemble di grafica e pittura – questo esposto alla galleria
Prati – che offre ai visitatori una ampia panoramica sull’arte di
Bruno Caruso e che per tanto rappresenta una piccola antologica,
abbracciando – grazie ai prestiti di numerosi collezionisti – un
arco temporale che dagli esordi giunge fino ai nostri giorni.
Dalle nature morte alle dissertazioni spagnolesche (l’allucinato
Sant’Ignazio di Lodola che caccia il diavolo come don Chisciotte),
dall’Emiro Giafar all’Imperatore Federico II (rivisitati con forte
taglio psicologico), fino alla splendida e quasi metafisica tela
raffigurante un ormai classico deposito di legnami (Tavole del
1958), questa esposizione permette dunque di ripercorrere le tappe
della carriera di uno dei maestri siciliani del novecento, e
attraverso essa una significativa parte della storia dell’arte
insualere degli ultimi decenni.
Una mostra di notevole valore e grande interesse, realizzata per
altro senza alcun pubblico contributo, a dimostrazione di come sia
possibile fare buona cultura quando si è animati da idee chiare e
ferrea volontà.
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ANDREA CUSUMANO
Posters |
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Contemperare
una forte componente gestuale e un ben più misurato esercizio
figurativo è l’arduo funambolismo cui Andrea Cusumano pare aver
votato il suo intero fare artistico.
Incline per natura a enfatizzare l’aspetto più squisitamente
fabbrile del proprio gesto, pur tuttavia egli non si sottrae agli
obblighi d’una progettualità profondamente meditata, grazie alla
quale disciplinare i propri slanci ideativi, riconducendoli in un
più perimetrato ambito di figurazione.
Nasce, dunque, da queste esplicite premesse la crasi peculiare di
forma e di materia che contraddistingue la più recente produzione di
Cusumano, ovvero quei “Posters”, attualmente esposti alla galleria
Prati, nei quali egli ha profuso la sua spiccata ed inquieta verve
ritrattistica.
Non nuovo, in vero, alla prassi del ritratto – già declinata nella
variante autoritrattistica in una precedente mostra nella stessa
galleria –, l’artista palermitano ha in questo caso attinto alla
copiosa fonte della pubblicità, per trarne spunti grafici entro i
quali riversare la corposa intensità della propria pennellata.
La patinata ed incorporea levità di tante immagini pubblicitarie
(spesso sconfinante nell’assoluta inconsistenza estetizzante) ha
quindi costituito il “vacuo” presupposto dal quale muovere per
pervenire a un progressivo e ben più significativo spessore
pittorico e soprattutto psicologico, in grazia del quale conferire
adeguato contenuto a quanto abitualmente destinato a rimanere in
superficie e senza peso. Ne è derivata una fresca e assai vivace
sequenza di ritratti giovanili, nei quali l’alternarsi di stesure
screziate e scabrose (a tratti anche turbinose oppure maculari) e
ancora l’espressionistica vivezza delle soluzioni coloristiche e
soprattutto le notevoli dimensioni dei volti effigiati riscattano
ogni personaggio dalla effimera levità cartacea delle origini,
conducendolo in una rinnovata dimensione ove vivere d’una vita
propria e paradossalmente più reale.
Una dimensione nella quale la pittura si fa penetrante strumento di
scavo ed analisi psicologica, riuscendo a declinare con convincente
ed avvincente funzionalità un’ampia gamma di sfumature emozionali ed
affettive. Tristezza, stupore, sgomento, felicità si alternano
infatti nelle mimiche facciali di questi giovani soggetti, i cui
sguardi volti agli osservatori si rivelano capaci di innescare un
coinvolgente meccanismo simpatetico, come è tipico della migliore
tradizione ritrattistica.
“Fondendo la dimensione materica e sensuale della pittura con la
dimensione puramente grafica e rappresentativa della pubblicità” –
sono parole dell’artista –, Andrea Cusumano conferma come l’intero
corpus delle attuali arti visive non possa più prescindere da
contaminazioni e meticciati di varia provenienza, e ciò, pur
tuttavia, senza mai rinnegare il fondamentale ruolo esercitato dalla
tradizione del passato. Proprio la capacità di dialogare col “museo”
(spesso in termini di estrema asprezza dialettica), innestando nei
suoi perimetri tutti i possibili agenti contaminanti desunti dalla
contemporaneità, costituisce il presupposto obbligato – in possesso
del solo vero artista – da cui muovere per superarne gli steccati e
per aggiornarne tematiche e stilemi. Una prerogativa, che questa
carrellata di ritratti conferma pienamente, a dimostrazione di
quanto sia possibile apportare ulteriori contributi ad un genere già
ampiamente sfruttato e consolidato e soprattutto di come le vie
della più interessante sperimentazione percorrano oggi i territori
inevitabili della figuratività.
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KLAUS KARL MEHRKENS |
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L’armonico
comporsi delle giovanili membra testimonia d’una profonda
inclinazione per la classicità. La “Grosse figur” dipinta da Klaus
Karl Mehrkens (non a caso scelta da Franca Prati come
manifesto-invito della mostra) non è infatti che la riproposizione –
in forma aggiornata e attualizzata – di quei “kouroi” della Grecia
antica, ancor oggi percepiti quali simboli di corporea euritmia e di
apollinea beltà.
Sbaglierebbe non poco, però, chi credesse di avere a che fare con un
tipico pittore “ancronista”, artefice d’una stucchevole rievocazione
manieristica di gusto classicista. Piuttosto, è giusto ribadire che
dell’antichità Mehrkens recupera lo spirito e la metrica, offrendo
una “misura” parimenti declinata in tutte le varianti di tema e di
linguaggio. Sicchè, non è questione di lessici o soggetti, quanto
invece di raffinata e non comune capacità di coordinare il segno ed
il colore, giungendo a quella equilibrata sintesi di forma e
contenuto che rende la pittura di grande qualità.
E Mehrkens è certamente “pictor optimus”, in grado di agire come
pochi l’incisivo grafismo con cui contorna teste e corpi, senza che
ciò implichi alcuna costrizione del colore in griglie troppo rigide
di tipo “secco e statuino”. Non sorprende, pertanto, che le figure –
siano esse intere o parcellizzate al solo volto – giammai appaiano
drasticamente perimetrate, venendo piuttosto elaborate attraverso la
riuscita integrazione dei tratteggi con lo sfumato amalgamarsi delle
morbide nuances.
D’altronde, la piena dimestichezza col composito orchestrarsi delle
cromie è un dato ampiamente percepibile anche (e soprattutto)
nell’insieme di dipinti di palese impianto informale, nei quali la
stesura, pur nel proprio libero fluire, risponde sempre a una
consapevole armonia tonale, frutto d’una assoluta demiurgia che
lascia poco spazio a qualsivoglia compulsione gestuale.
Bisogna però volgersi agli splendidi paesaggi, per cogliere in tutta
la sua compiuta perfezione il pieno dispiegarsi dell’alchimia
pittorica di Mehrkens.
Tutti giocati su sapienti tonalismi (ognuno è articolato sulle
sfumature timbriche d’una predominante cromatica), compositivamente
organizzati su altissimi orizzonti (quindi privilegiando la
componente ctonia) ed animati da impercettibili architetture
(tuttavia risaltanti in virtù dell’intrinseco lucore che le
impregna), essi riproducono geografie e topografie interiori, per le
quali il dato sensoriale della visione è solo un incipit da cui
procedere lungo un cammino di elaborazione intensamente emozionale
del parvente aspetto di realtà.
Grazie ad artisti come Mehrkens, dunque, la pittura si ripropone con
tutta la sua soggiogante forza visuale di trasfigurazione,
confermando – al di là del risibile pretesto dei “limina”
linguistici – quell’incorrotto potere affabulatorio che ne fa a
tutt’oggi un’imprescindibile ed insostituibile strumento di racconto
ed espressione del modo assolutamente soggettivo di guardare
l’oggettività.
fino alla fine di luglio
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- GIORGIO CATTANI
- "ATTRAVERSO TERRE PERSE"
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Che
Giorgio Cattani ami affidare al segno graffitistico l’intera sua
poetica è un dato palese e inoppugnabile.
Tuttavia, sarebbe erroneo e riduttivo inquadrare il suo profondo
fare artistico nei limiti d’un lessico – il graffitismo, per
l’appunto – dalla sintassi spesso estemporanea, se non addirittura
semplicistica.
I segni di Cattani, infatti, non incidono una superficie “piatta” e
“sprovvista di spessore” – nel senso formale e simbolico dei termini
–, ma piuttosto paiono emergere da una articolata tessitura, nella
quale la nebulosità delle stesura coloristica è funzionale alla
strutturazione visuale di una dimensione prettamente
onirico-visionaria. Immagini evocate, dunque, ma al contempo
evocanti; e questo grazie ad una articolata scansione della
superficie, operata ricorrendo ad una variegata modalità di
tecniche, ibridate e mescolate con una non comune sapienza
narrativa. Misurati inserti materici, applicazioni cartacee, colori
talora campiti densamente e talaltra stesi con andamento tonalmente
nebuloso, segni e tracce d’ogni genere, sagome e figure varie,
contribuiscono, infatti, alla costruzione di un “logos visuale”, in
grado di trasmettere l’idea compiuta d’un processo di pensiero che
si esprime per sinossi, con un sincronismo ottico pertinente a
quella che appare come una fertile simultaneità ideativa.
Una impostazione compositiva quasi “ipertestuale”, che tuttavia mai
rinnega (bensì esalta) il valore iconico dei segni, alcuni dei quali
ricorrenti con cadenza pressoché ossessiva. Pianoforti, vasi,
tavoli, profili antropomorfi, lucertole, tori (con un dichiarato
ossequio a Picasso nella citazione della testa taurina abbozzata con
sellino e manubrio di bicicletta) si fanno quindi cifra e traccia
peculiare d’un linguaggio assai meticcio, ma dall’eloquio raffinato
e al contempo misterioso e impenetrabile, in cui il gioco dei
rimandi costringe ad una molteplicità di sguardi e di letture.
Narrazione in sé conclusa, eppure sempre aperta nella misura
consentita dall’arcano che la permea. Mappatura d’un iter
esistenziale ed ideativo, ove ogni minimo tratteggio si fa eco
destinato a permanere oltre il mero contingente.
fino al 30 aprile
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- GUIDO BARAGLI
"BIANCHE - tele e collages"
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Sono
già diversi anni, che la produzione artistica di Guido Baragli pare
concentrata e quasi ripiegata, prevalentemente, sul genere della
natura morta. Sarà per il suo dividersi fra Palermo e Bologna –
città, quest’ultima, in cui vive ed ha uno studio –, ma nel suo
incedere pittorico gli echi morandiani paiono farsi sempre più
pressanti e coinvolgenti.
E’ come se il rigore totemico e un po’ ieratico degli assemblaggi di
vasi, bottiglie e barattoli del grande pittore bolognese continuasse
a risaccare nella psiche di Baragli, condizionandone – nel senso
migliore del termine – ed indirizzandone il gesto artistico verso
forme di purità sempre più eleganti e rarefatte.
Quella di Baragli è, infatti, una pittura orchestrata attraverso un
processo di interiore decantazione e quasi ultrafiltrazione dei
modelli morandiani, i quali, ridotti alla loro essenza fantasmatica,
ricompaiono sulle bianche carte del pittore palermitano nei termini
di una sintesi estrema ed assoluta, davvero capace di restituire al
meglio la silente totemicità dell’oggetto divenuto soggetto per mano
dell’artsista.
Proprio per questo, Baragli ricorre alla scarna metrica della cromia
binaria, al basilare contrasto del bianco e nero, quale elettivo
strumento di trasfigurazione del dato reale (ottico-percettivo) in
una riuscita proiezione del personale rapporto emozionale e,
soprattutto, cognitivo con l’arcano che impregna nel profondo gli
oggetti-soggetti da lui rappresentati.
Il bianco violato da pochi tratti di nero, la predominante grigia
ottenuta per trasudazione dal nero dello sfondo attraverso il bianco
o, viceversa, il bianco a spezzare la monotimia dei neri e dei
grigi, qualche impalpabile tocco di giallo ottenuto col solo olio,
il tutto nel gioco lieve e sottile dei collages e delle tecniche
miste, fra ruvidezze cartacee e sapienti scarti materici, ci
restituiscono un teatro di ombre, nel quale singoli fiori, canestri
di frutta, bicchieri, tazze o bottiglie, paiono recitare, con
allusivo simbolismo, l’iterativa pièce dell’ineffabile sense-non
sense insito nelle cose e, per induzione, nel mondo intero.
Una recita che Baragli ha saputo regolare con regia assai sapiente,
spogliando il contesto visuale d’ogni superflua ridondanza e
affidando la dialettica ragione-emozione, alla sola bipolarità
cromatica e agli improvvisi inserti di materia sulla levigata
politezza degli sfondi. Il tutto con una raffinatezza estetica, che
costituisce l’ulteriore conferma della maturità di un artista
davvero in grado di racchiudere intere narrazioni in pochi, ma
intensissimi grafemi.
dal 5 dicembre 2003
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ERMANNO BAROVERO
LA QUINTA STAGIONE |
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Di
Ermanno Barovero colpisce la non comune capacità di interagire con
la natura circostante, senza che ciò comporti, però, alcuno
scadimento nel naturalismo fotografico più vieto ed usurato.
Nei suoi dipinti, infatti, il pittore piemontese ama rifuggire da
ogni mera e semplicistica rappresentazione di carattere “formale”,
preferendo enucleare, grazie all’impeto cromatico, la carica emotiva
che ribolle in ognuno dei soggetti immortalati.
Proprio per questo, viene spontaneo – come già detto in precedenza –
l’accostamento all’ultimo Monet, all’impressionistica manifestazione
di quell’esprit del mondo naturale, che il sommo artista transalpino
seppe operare per progressivi sfaldamenti di colore e per
dissoluzione delle forme in baluginii sfocanti.
Analogamente Barovero, nel suo incedere pittorico attraverso
intensissime sarabande coloristiche, orchestrate – con regia assai
sapiente – oscillando fra permanenze figurative e sconfinamenti
astratti, riesce a pervenire alla “pura essenza” delle cose, di cui
viene esplicitata apertamente la termica affettiva che le impregna
nel profondo.
Si tratti di “Trionfi” floreali, matericamente estroflessi sulle
monocromatiche campiture degli sfondi, o di sconfinati “Orizzonti”
marini, la cui cupa azzurrità è come screziata dall’oro di aerei
bagliori solari, o ancora di “Cieli a Isola rossa”, ridotti al
rigoroso contrasto di turbinose trame coloristiche, o – per finire –
di maestose rappresentazioni delle stagioni, accecanti
nell’accensione timbrica delle messi riarse (“La Cicala”) o
pienamente coinvolgenti il riguardante nella terrea e malinconica
tessitura del fogliame macerato (“La Talpa”), la natura trasfigurata
da Barovero pulsa d’una forza primigenia e dionisiaca, venendo così
restituita a una visione che, pur nella possanza delle immagini,
rifugge da prevedibili cliché, per approdare piuttosto a una resa
depurata d’ogni retorica e sempre contenuta nel perimetro elegante
del riuscito e armonico equilibrio fra il concretarsi della forma e
il suo dissolversi negli impasti del colore.
Barovero si conferma, dunque, artista di estrema qualità, davvero in
grado di “ripensare” generi – fin troppo abusati – quali il
paesaggio o la natura morta, aggiungendovi un “plus-valore” che apre
nuovi orizzonti e che conferma l’indiscussa centralità della pittura
– e quindi del “mestiere” – nel panorama artistico attuale.
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dal 7 al 31 novembre 2003
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NICOLA MARIA MARTINO
"APPRODI" |
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Nicola
Maria Martino è quel che si dice un grande affabulatore.
I colori vivaci, la levità dei tratti, l’irretente delicatezza delle
forme ne fanno infatti un suadente narratore, in grado di tessere
autentici incanti visuali capaci di irretire con un tono quasi
favolistico.
Proprio la tavolozza, dominata da tonalità solari – gialli, celesti,
rossi, rosa, verdi e blu – stese con sottili giochi timbrici in
ampie campiture, determina quel dominante senso di leggiadria ottica
che avvolge la vista degli astanti come assorbendoli nella
trasognata dimensione narrativa scandita dall’autore. A interrompere
questa assoluta purità cromatica, solo piccole e infantili
architetture, casette eteree e appena tratteggiate, fari
multicolori, qualche barca a vela (non a caso, nei titoli, ricorre
il tema dell’approdo), templi classici, aeroplanini e biciclette, in
una rilettura aggiornata del tema del ritorno, di quella nostalgia
(per l’appunto “il dolore dovuto al desiderio del ritorno”) che
dall’epoca di Omero (ed anche prima) costituisce un topos di ogni
epica e poetica del Mediterraneo. Perché Nicola Maria Martino è a
tutto tondo – e nell’accezione più elevata del termine – un pittore
mediterraneo, dotato dei mezzi che consentono la vera esaltazione
dei colori e della luce delle nostre terre, tessendo storie minimali
e mai estroflesse – intessute, si suppone, di ricordi lontani ed
anche prossimi – che ci prendono per mano, riconducendoci alla
nostra pura essenza, imprescindibile, per natura e tradizione, dal
contesto della nostra formazione biologica e culturale.
Dunque una pittura elegiaca – in questi dipinti di Martino, visibili
fino al 31 maggio alla galleria Prati –, sottile e delicata, giammai
tetra o languorosa, ma sempre incantata ed aeriforme, a conferma di
come il preservare in età adulta un vitale immaginario fanciullesco
sia, ad onta d’ogni dubbio, una delle doti degli artisti più
autentici e maturi.
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Alla galleria Prati fino al 31 maggio
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Personale di NINO
PEDONE
fino al 15 marzo 2003 |
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Nella
binaria euritmia del rigoroso contrasto di bianchi e neri si dipana
il fine spiritualismo di Nino Pedone.
Forte di una approfondita conoscenza dell’arte del passato – egli è
infatti un apprezzato restauratore di dipinti antichi –, Pedone
appare in grado di infondere alle sue opere una inusitata e armonica
“misura” di stampo – per così dire – protorinascimentale, atta a
rappresentare la sua personale idea del sacro secondo un canone
d’assoluta classicità.
Monumentali, eppur leggiadre figure femminili paiono così emergere
dal nero degli sfondi, come sbozzate nel bianco candore di blocchi
marmorei. Un impianto scultoreo, nel quale la vis plastica non pare
mai esorbitare, rimanendo sempre contenuta nel perimetrale abbraccio
della circostante scurità, quasi a circoscrivere idealmente e
simbolicamente le delicate ierofanie.
Annunciazioni, gestanti, maternità esprimono pertanto una rinnovata
e inusuale capacità di rilanciare i temi sacri, a dimostrazione
della loro inalterata e sempiterna attualità. Non è dunque un caso –
come detto –, che Pedone guardi all’arte del passato, e soprattutto
alla tradizione scultorea del Laurana e agli equilibri compositivi
di tipo pierfrancescano, riproponendone, pur in un adeguamento ai
nostri tempi, tutto l’intonso rigore e la misurata austerità. Un
riferimento acclarato e dichiarato in dipinti quali “Colloquio fra
Francesco Laurana ed Eleonora d’Aragona”, ove il profilo della nota
regina aragonese (visibile, negli originali busti, a Palazzo
Abatellis, qui a Palermo, ed al museo Jacquemart André, a Parigi) si
staglia sul nero dello sfondo, evocato come un ectoplasma con pochi
e assai precisi tocchi di pennello.
Una sapiente pennellata, che in più d’una occasione dà il senso del
“levare”, in una sorta di picchettamento riconducibile all’operare
d’una sgorbia. Nel plasticare le sue figure femminili, Pedone riesce
così a insufflare un senso di religiosa tenerezza, che ne bilancia,
ossimoricamente, la conclusa monumentalità.
Per quanto sempre mantenuto sotto traccia, il tratteggio, operato
giocando con il nero circostante e sfumando tonalmente il bianco,
risulta costantemente decisivo, a conferma d’una grande padronanza
del disegno. Una dote espressa pienamente nella poca, ma
significativa grafica presente in galleria, nella quale la capacità
di rappresentare con un semplice contorno fisionomie e caratteri –
si guardino le eteree immagini muliebri o i morbidi dormienti –
attesta con chiarezza una statura tecnica di non comune qualità.
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GAETANO COSTA |
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Il
disegno come elettivo mezzo di espressione; quale prioritario filo
conduttore che unifica le diverse anime - grafica, fotografia e
pittura - del suo fare artistico. Perché Gaetano Costa è
fondamentalmente un talento grafico, che però ha saputo estendere
questa sua naturale inclinazione ad altri ambiti, advenendo ad esiti
di non meno alta qualità.
Come egli stesso afferma, il tracciare segni sulla carta si
accompagna a un fisiologico piacere del "fare" dai contenuti quasi
terapeutici. Una valenza curativa - nel senso più elevato del
termine - che evidentemente gli ha consentito di agire le tensioni
ideative tumultuanti nella sua giovane e fertile psiche, così da dar
forma assai compiuta a un complesso immaginario affinatosi
nell’alveo storico della transizione dal simbolismo
all’espressionismo.
Nelle opere recentemente esposte alla galleria Prati (dai disegni di
piccolo formato alle fotografie ritoccate a mano ed ai dipinti di
grandi dimensioni) è infatti evidente e dichiarata l’attenta
riflessione sui modelli di Beardsley e di Schiele, di Schomberg e di
Munch. Tutti artisti dai quali Costa ha saputo mutuare le doti di
empatia, necessarie per scandagliare senza remore i recessi più
profondi dell’interiorità, e soprattutto i moduli linguistici,
benché rielaborati con autonomia in una funzionale miscellanea di
forza visuale e ricercatezza estetica.
Ne consegue un tratto segnico di estrema accuratezza, riconducibile
- come detto -, nella forma e contenuto, ai modelli di Aubrey
Beardsley (alle illustrazioni per la Salomè di Wilde e per la
Lisistrata di Aristofane), dei quali ripropone quella elegante e
insidiosa ambiguità circonfusa di sensuale e irretente magnetismo.
La trama fittissima, da ragno infaticabile, si alterna all’accecante
biancore degli sfondi, in un bipolare alternarsi di horror vacui e
cupio dissolvi, che al contempo affascina e inquieta l’osservatore.
Un dato riscontrabile anche nelle fotografie, ove il disegno si
sovrappone come un merletto alle figure, rivelando forti suggestioni
ad opera dell’arte primitiva, quasi fosse un linguaggio tatuato
quale quello dei Maori.
Tuttavia è nella pittura, che l’iter di Costa pare giungere a pieno
compimento, a indicazione d’una riuscita crasi fra segno e
pennellata, fra rigorosa bicromia e pienezza del colore.
La superficie pittorica appare infatti scabrata a più riprese, come
cesellata da un susseguirsi di incisioni (soprattutto nella resa dei
panneggi) che producono un effetto "braille" di tattile e materica
evidenza. E tutto ciò senza scadere, ad onta delle parvenze, nel
decorativismo di maniera; perché il tratteggio insistito ed
ossessivo ha sempre una valenza strutturale più che formale, dando
peso e carattere - anche in termini percettivi - all’articolata
tavolozza e assumendo i connotati di una irrinunciabile cifra
stilistica.
Un grafismo, talora esasperato, che non altera però la diretta
percezione degli aspetti psico-affettivi, di quei sensi di
solipsistico ripiegamento su sé stessi e di esclusione da ogni
ambito relazionale che permeano in profondo i personaggi. Piuttosto,
ne deriva un contrasto assai straniante fra lo smorto incarnato
delle figure, spesso smunte e ossute, e l’opulenza traboccante di
vesti e drappeggi, elaborati ed operati in un incredibile profluvio
di cromatici ricami. Coppie di amanti assorti e rattrappiti in un
bloccato abbraccio mortuario (omaggio dichiarato a Schiele), ma
illuminati dal colore delle vesti e dei panneggi riccamente
istoriati, o smagrite fanciulle contratte in posture di patologica
chiusura (alla Munch), e tuttavia incorniciate da tessuti
vivacissimi, si susseguono a soggetti più dinamici, in un percorso
che rimarca la maturata "equivalenza terapeutica - sono parole di
Costa - fra grafica e pittura".
Una conquista, quella della pittura, che sembra completarsi in quei
dipinti su carta nei quali il gesto artistico si dispiega in piena
libertà, non più costretto da vincoli di sorta, esprimendo tutto il
suo "furor" orgasmico e dionisiaco attraverso pennellate (ed anche
unghiate) inferte sul supporto fino a bucarlo.
Opere nelle quali il suddetto solipsismo tende a debordare - anche
in virtù d’una prevalente scurità - in una franca angoscia,
confermando una statura da artista ormai maturo.
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