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Sagome
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L’incorporeità
come metafora d’una identità dai connotati sempre più incerti
ed irrisolti.
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Sembra essere
proprio questa la principale – benché non unica – chiave di
lettura della ricerca fotografica condotta in questi anni da
Antonio Sammartano.
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Ridotti a pure
sagome scialbate, ed estrapolati dal contesto circostante
attraverso l’esclusivo contrasto di colore (il bianco
mortuario delle figure che si staglia sui dettagli grigio-neri
degli sfondi), i personaggi raccontati dall’artista trapanese
si collocano infatti a pieno titolo in quell’ambito di analisi
della crisi dell’io contemporaneo, che contraddistingue larga
parte della produzione artistica attuale (in ambito visivo e
non soltanto in quello).
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Una attenta
investigazione – quella sui meccanismi di dissoluzione
dell’individualità fino agli estremi della totale
inconsistenza – sviluppata in un’ottica di diacronica
continuità (seppur in termini di confronto e di dialettica)
con la tradizione già storicizzata, rispetto alla quale – in
definitiva – essa si pone come naturale e doverosa evoluzione
tecnica e linguistica. E questo non solo per quegli aspetti di
sperimentazione di tutte le possibili e ottimali soluzioni di
carattere formale (però mai debordanti in esiti sterilmente
formalistici) che caratterizzano il fare artistico di Antonio
(rimarcandone per altro la natura elettiva di pittore), ma
soprattutto (e primariamente) per quella capacità di
rovesciamento dei termini della problematica nel loro opposto
speculare, la quale è propria d’un approccio che compendi i
modelli elaborati nel passato, oltre – ovviamente – a quelli
della stretta attualità.
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Se dalla
statuaria classica (si pensi al paradigmatico canone
policleteo), fino alle riprese neo-platoniche del leonardesco
Uomo vitruviano o del michelangiolesco Adamo
della Sistina, è tutto un riproporre l’idea di una umanità
quale compiuto riflesso d’una superiore bellezza e perfezione,
viceversa, a partire dal Manierismo (si guardi alla
esemplificativa costruzione-decostruzione della figura umana
attuata dall’Arcimboldo), proprio la ritrattistica (col suo
attento impianto fisiognomico) e più in generale la
dettagliata rappresentazione del corpo (e in senso lato della
corporeità) divengono progressivamente la fedele cartina di
tornasole di quella dinamica disgregativa dell’io profondo
(con tutto il corteo di lacerazioni interiori, inquietudini,
ubbie e nevrosi responsabili dell’ingravescente sbiadimento
della personalità) i cui catastrofici sviluppi agitano,
destabilizzandola, l’intera architettura della nostra odierna
società. Basterebbe volgere lo sguardo all’impietosa ed
analitica pittura di Francis Bacon, per capire quale distanza
siderale intercorra fra l’artista contemporaneo e quello di
cinquecento anni fa (per non parlare di quella che separa
dalla classicità greco-romana); quante “incrollabili” certezze
siano franate nel frattempo, lasciando pieno campo a quella
inquietante ed atterrente indeterminatezza dei ruoli e dei
sembianti (individuali e collettivi) cui nessuno oggigiorno
riesce più a sottrarsi.
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Non sorprende
dunque più di tanto, che Antonio Sammartano, il quale è
artista calato pienamente nelle problematiche della
contemporaneità, abbia messo in atto questo acuto scandaglio
dell’immagine corporea, evidenziandone, senza alcun
infingimento o artificio di retorica, la riduzione a mera
traccia ectoplasmica, ormai orbata del suo peso psichico e
sociale.
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Bloccate in una
rigidità didascalica da reclame pubblicitaria, le sagome di
Sammartano si sottraggono quindi a qualsiasi possibile
sviluppo narrativo (incluso quello che potrebbe aggiungere il
fruitore), in una palese acinesia emotiva ed affettiva che
denuncia l’assoluta vacuità dell’uomo post-moderno.
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E’ in tal senso
– cioè nel constatare l’impossibilità di qualsivoglia dinamica
intrapsichica e relazionale dei suoi eterei personaggi –, che
Antonio pone in atto quel pieno rovesciamento dei termini
della problematica in questione nel suo estremo ed antipodico
inverso speculare.
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L’abituale
analisi della “presenza al mondo” (in tutte le possibili
scansioni cui la tradizione ed il contingente ci hanno
abituati) cede infine il passo alla desolata e desolante presa
d’atto d’una “assenza” divenuta irrimediabile.
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La ricerca
sull’essere abdica così all’amara constatazione del non
essere, imponendo all’artista affabulatore la recisa
regressione a mero notificatore d’una inaccettabile realtà.
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- MICHAEL
OBERLIK
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- LEGGENDO
OBERLIK
- Raccontare
(e raccontarsi) per immagini è da sempre il vero fine
perseguito dai pittori.
- E’
proprio alla scoperta dell’enorme potere di significazione
insito in semplici graffiti o tracce incisi su una roccia che
si deve la nascita della pittura, ovvero di uno dei più
straordinari strumenti d’espressione mai concepiti dalla
mente umana. Il grande artificio della scansione affabulatoria
(e illusoria) delle superfici, attraverso un sistema di segni
via via organizzati in lessici dalla sintassi sempre più
complessa (e in quanto tali in grado, nei millenni, di
procedere da semplici e primitive descrizioni a sempre più
articolate e mimetiche rappresentazioni, fino a giungere a
forme espressive altamente concettuali e maggiormente astratte
dalla verità ottica), costituisce infatti la grande alchimia
di quest’arte ingannevole e pur tuttavia incredibilmente
capace di irretire con le sue infinite combinazioni verbali e
le sue molteplici sfumature narrative.
- Una
vis evocativa della quale Michael Oberlik ha una tale
consapevolezza, da aver voluto ideare e inevitabilmente
impaginare in forma di racconto questa sua ultima serie di
dipinti, la cui sequenza espositiva, non a caso, risponde a
criteri di logica visiva tipici d’una compiuta narrazione.
- La
suddivisione delle opere in un prologo e tre libri (più varie
annotazioni), la geometrica segmentazione in più parti delle
stesse (quasi a figurare un ideale succedersi di pagine),
l’adozione d’un linguaggio astratto ma dal forte impianto
segnico (a mo’ di immaginifica scrittura), la tendenza a non
recludere il pensiero nel perimetro che delimita i supporti,
l’articolarsi delle cromie – quadro dopo quadro –
secondo meccanismi contenutistici propri d’una trama che si
evolve, il marcato dinamismo visuale, tutto, insomma,
contribuisce a una ideale e simbolica strutturazione delle
tele – singolarmente prese e soprattutto nel loro insieme
– nei termini d’una sorta di mirabolante manoscritto, nel
quale il pittore austriaco ha riversato una fedele
trascrizione della sua fantasiosa e tumultuante personalità.
Una trascrizione che si avvale d’un lessico tendenzialmente
espressionista (nei modi e nelle forme dell’Espressionismo
astratto storico di matrice mittle-europea) e che tuttavia,
pur propendendo per esiti informali (con tutto l’implicito
corteo di contenuti emozionali estroflessi ed esibiti),
giammai giunge a rinnegare integralmente la figurazione, di
cui mantiene invece palesi tracce residuali, ben riconoscibili
nell’insistito ricorrere di biomorfismi ed antropomorfismi.
- In
tal senso, la pittura di Michael Oberlik si pone in
quell’ambito linguistico (coerente con la tradizione
espressionista, ma con ibridazioni da graffitismo contingente
di ascendenza nord-americana) che fa del recupero di
suggestioni primitive ed aborigene un cardine fondante,
attorno al quale sviluppare l’intero ordito della propria
narrazione.
- Scandendo,
col bituminoso e pigmentato incedere delle corpose e nere
pennellate, la superficie delle tele (e con essa l’accesa
tessitura coloristica), il reticolare insieme segnico si offre
per tanto alla visione quale sistema di repere, in grado di
guidare l’osservatore in una caleidoscopica lettura di
enigmatici grafemi.
- Scrittura
incantata ed irretente – questa di Oberlik – alla cui
ipnotica energia dà un decisivo contributo, ai fini della
“termica affettiva”, l’articolato ed alternato (libro
per libro, capitolo per capitolo) uso del colore. Se nei
quattro capitoli del primo libro è infatti tutto un
susseguirsi di variegate e vivacissime cromie (gialli e
rosso-arancioni accostati ai neri lineari e maculari ed a più
aeree spaziature), altrove, a partire dal prologo e
soprattutto col procedere della restante narrazione, si
registra viceversa il prevalere di tinte dominanti (come i
rossi rugginosi e i grigi), tendenti ad occupare – con poche
interferenze biancastre ed azzurrognole – la totalità delle
campiture interposte fra i tracciati. Il che pare avvenire in
ottemperanza ad un iter emozionale, di cui l’artista
austriaco descrive la ritmica pulsante con una grafia
fortemente gestuale, ove il mistilinguismo tecnico è la nota
imperativa. Non a caso, quindi, pennellate nevrili si
alternano a più misurati inserti, scolature di colore
controbilanciano stesure più composte, e improvvisi scarti
materici (ottenuti con dovizia di pulviscolari pigmenti)
violano aree più seriche e serene, quasi a volere dare corpo
visuale al multiforme e complesso incedere delle proprie
cinetiche intrapsichiche.
- Nel
pieno rispetto di ormai consolidate correnti di pensiero
letterario ed artistico-visivo, anche quello di Michael
Oberlik si pone, dunque, come un “raccontare” e
principalmente un “raccontarsi” del tutto aperto, cui
l’osservatore è chiamato a dare un personalissimo finale.
Ed è proprio qui, lungo l’ineffabile limen fra
l’immaginario dell’artista e quello del fruitore, che la
pittura compie la sua incredibile alchimia; proprio in questo
arcano insondabile, nel quale la soggettività dell’autore
si incontra con quella dell’osservatore-lettore, dando luogo
a quella irripetibile crasi simpatetica che trasforma un
semplice intreccio di segni e di colori in una affermazione di
condivisa identità.
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GIOVANNA
FRA
Segni
in attesa
- 1.
Consapevole dei
processi interminabili della cosiddetta “pittura
d’azione” Giovanna Fra coltiva le forme
dell’irrazionale, fissa nel colore le fluide energie dello
spazio, mescolando elementi psichici e fisici in un divenire
di possibilità che guidano
l’esercizio del gesto.
- Nel
rafforzare le ragioni del dipingere, l’artista non
vorrebbe mai esaurire l’esperienza del segno, il
dialogo con lo stupore della superficie da cui ha origine il
viaggio della pittura, dentro e fuori i perimetri stabiliti
della visione.
- In
questa tensione illimitata, l’immagine segue orientamenti
diversi che coincidono con le dinamiche dell’atto
creativo, tracce di pensiero volano nell’aria, segni in
attesa di altri segni, corpi sospesi, a distanza da tutto.
- Giovanna
Fra ama l’autonomia del colore da qualunque vincolo
tecnico e ideologico, riconosce la ricchezza della
tradizione ma anche il ruolo decisivo degli esperimenti
pittorici che ne rendono complessa l’identità, infinita
la sua persistenza tra i linguaggi mutevoli dell’attualità.
In questo senso, non è interessata a misurare la visione
interiore con il metro delle nuove tecnologie, è sempre più attratta
dall’estrema avventura del colore, da impulsi
immaginativi che non trovano risposta, tracce visibili di un
cammino fatto di silenzi e di muti pensieri, un cammino che
non ha via d’uscita.
- Come
potrebbe del resto averne se l’autentica pittura è sempre
all’inizio di se stessa, se il suo incanto affonda le
radici nella terra dell’invisibile, là dove l’immagine
non ha limiti e attende sempre di venire alla luce.
- Questa
coscienza dei valori pittorici sostiene la vocazione a
sprofondare nell’esperienza del colore come continuo
interrogarsi intorno alla sua funzione comunicativa, sospesa
tra espressione soggettiva e volontà affrontare problemi di
ricerca che non tramontano, questioni che rinnovano
l’utopia della pittura attraverso la verifica di emozioni
non separabili dai percorsi del tempo interiore.
- Si
tratta di dare un personale contributo alle persistenti
dialettiche dell’arte informale: gesto-materia,
segno-azione, colore-traccia, macchia-luce,
espansione-rarefazione, tramiti inesauribili di un colloquio
con la fisicità dinamica del dipingere.
- Al
tempo stesso: la pittura medita sui propri esiti e tende
senza dogmatismi verso la parte più recondita di se stessa,
come per guardarsi agire dentro il mistero delle forme,
respirando l’aria del proprio segreto rivelarsi.
- Mentre
asseconda il movente gestuale della pittura, Giovanna Fra
capta nuovi equilibri, traiettorie inesplorate, segrete
oscillazioni tra il dilatarsi degli elementi primari e il
loro viscerale richiudersi nell’ombra del colore.
- Il
suo impegno va oggi consolidandosi intorno a nuove ragioni
percettive, verso la compresenza di molteplici registri, non
solo l’astratto e l’informe ma anche il fluido e
l’aeriforme, lo statico e il dinamico, la concentrazione
del colore nella lieve sostanza del visibile e la sua
estatica espansione verso l’infinito.
- Questa
direzione di ricerca è parallela agli echi cromatici del
ciclo “Rumore bianco” già avviato nel 2002 (citazione
preziosa di un famoso libro di Don DeLillo), non è dunque
separabile dalle risonanze dei segni che in un precedente
scritto ho definito “note di colore sul pentagramma della
pittura, evocazioni del suono collegate ad una vibrazione
cromatica”.
- Allora
come oggi la dimensione di ricerca è pervasa da una
profonda inquietudine, dal disorientamento della propria
ragion d’essere, dalla verità inesprimibile che sta nel
profondo dell’inconscio, pensiero incrinato dal dubbio, in
attesa che altre visioni prendano corpo attraverso il rumore
bianco del gesto.
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- 2.
La fase di passaggio verso gli ultimi dipinti si affida alla
compresenza di elementi costruttivi e di tracce vaganti,
astratte fissità del colore e segni che fluiscono in
campo aperto, opposte tensioni dove l’immobilità del
colore dipinto in modo uniforme si stacca dai flussi
disgregati delle impronte.
- Non
a caso, la
presenza di brevi inserti geometrici si contrappone alle
tracce e ai sedimenti informali, ne arrestano le fluenze, si
sovrappongono alle espansioni, fissano il perimetro della
superficie, quasi per misurare l’istante del gesto con
riferimenti spaziali che esprimono una diversa tensione del
dipingere.
- In
questo clima di lavoro convergono tutte le prove pittoriche
del passato, infatti fin dai primi anni novanta Giovanna Fra
lavora sulla sensazione primaria del colore, sulla complicità
esistenziale dell’immagine, sulla materia come evento che
si modifica nel tempo quotidiano della vita.
- Il
soggetto pittorico si è successivamente spostato dalle
evocazioni naturalistiche del visibile ai processi interni
della materia, per rivelare lo spazio di congiunzione degli
elementi primari: l’aria ineffabile della superficie e la
messa a fuoco del colore, le scosse irripetibili del segno e
i tremori sottili della luce, la lieve densità del pigmento
e la precaria stabilità del vuoto.
- In
questa pittura che oscilla tra presenza e assenza, il colore
ha vita propria, mescola
oscurità splendenti e ombre luminose, densi vapori e umori
terrestri, macchie trascoloranti e brezze leggere, stimoli
persistenti dello sguardo.
- Tutto
ciò comporta un processo di lavoro che produce risultati ad
insaputa dell’artista, sta alla sua velocità
d’esecuzione il compito di farli emergere, anche il tempo
di riflessione gioca un ruolo decisivo, l’importante è
alternare stati diversi, creare pause dentro le
stratificazioni legate al divenire del colore.
- La
pittura si nutre di pittura, non ha cose da raccontare che
non siano quelle che scaturiscono dalla vita delle forme,
tuttavia l’abbandono del referente non è mai dato per
scontato, infatti la memoria del veduto non limita
l’autonomia del colore. Sciami di segni entrano ed escono
dalle geometrie instabili,
immagini in fluttuazione
salgono verso l’alto oppure sconfinano oltre
l’orizzonte, al di là della terra e dello sguardo,
appaiono e si dissolvono seguendo l’atto di stendere il
colore, ogni volta conquistato con l’immediatezza del
gesto.
- Il
riferimento al paesaggio è puro pretesto, è luogo
inafferrabile del tempo dove il presente della pittura si
avvera, eco di energie invisibili, tramite verso quella
parte non ancora svelata che l’artista indaga come
sostrato del visibile.
- Di
fronte alle morfologie astratte del paesaggio, di cui la
pittura gestuale e informale si è da sempre nutrita,
Giovanna Fra non ha esitazioni e neppure pregiudizi ma
esprime un’adesione verso ulteriori presagi espressivi.
- Ne
prosegue infatti l’esperimento ben sapendo che si possono
dipingere cieli come solchi accesi di rosso, orizzonti come
segni anneriti dal tempo, territori come
leggere impronte di grigio, modi pittorici capaci di
disgregare l’immagine ma non l’avventura del colore, la
magia legata al gesto imponderabile del dipingere. Con carte
imbevute di essenze cromatiche l’artista crea forme che
non sono solo il risultato di un personale metodo operativo
ma diventano preludio di visioni musicali, di contrappunti e
disarmonie, di schegge dissonanti che indagano lo spazio e
ne rivelano misure inconsuete.
- Anche
se la mano controlla le consistenze del colore, l’immagine
genera continui mutamenti che fissano i
rapporti transitori
tra i pesi della materia e gli slittamenti del vuoto,
tra la precisione delle geometrie e l’impalpabile
leggerezza delle
forme: l’inesprimibile prende corpo nella tangibile
presenza cromatica.
- Il
nero-luce svanisce
nei vapori del rosso, uno stuolo di macchie s’infiltra nel
silenzio della superficie, il riverbero mentale del bianco
dilaga oltre il perimetro della tela, gli aloni del segno
danno la sensazione di una dilatazione infinita.
- Del
resto, la stesura dei pigmenti si modifica in corso
d’opera, tracce inconfondibili lasciano filtrare zone
vuote generate dal pieno, ogni minimo respiro del colore
invita l’occhio ad esplorare punti di forte concentrazione
oppure a vagare sul limite dell’immagine che sfuma, perde
consistenza, diventa aerea, si sposta verso la parte meno
visibile, fino
ad annullarsi.
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- 3.
L’incontro con queste dinamiche avviene sia in presenza di
forti contrasti -dualismo del rosso e del nero- sia
all’interno della stessa luce, come in alcune opere
dedicate completamente al nero, ai palpiti di nero nel nero,
ai soffi di luce che affiorano dall’oscurità. Talvolta
azzurri bagliori emergono nella sfera nebulosa del notturno,
appena sfiorati dalle variazioni di materia.
- D’altro
lato, come si diceva, avvengono incontri imprevisti tra il
nero e il rosso che transita, trasale, slitta, si muove
rapidamente da un punto all’altro, trascinato lungo un
orizzonte immaginario oppure attirato da una vertigine
scoscesa. Immagine
che rapidamente si consuma, svanisce ma trova sempre
l’energia per stare sospesa, in attesa di imporre il
proprio assolo nell’aria raggelata di bianco.
- All’opposto,
tracce disgregate volano su orizzonti densi di luce, luce
dentro luce, sempre e solo chiarore indefinito che accoglie
l’istante del suo trasalire verso il buio. Da una rigorosa
campitura di nero cadono lembi di colore, macchie di
calcolata sensibilità che stanno nel palmo delle mani, come
una cascata di frammenti che vengono da ogni dove, in
effetti si
staccano dal limite dei margini per depositarsi su chissà
quale piano, non importa saperlo.
- Ecco
infine una serie di piccole superfici di legno che
l’artista intende come appunti di un diario intimo le cui
pagine stanno sulla parete come una scrittura veloce,
linguaggio immediato della precarietà, impronte del corpo
cromatico che si alleggeriscono placandosi nel vuoto.
- La
possibilità è quella di osservare queste brevi sensazioni
pittoriche una alla volta oppure nell’ambito di una
composizione dove esse agiscono a diversi livelli di
lettura, come segni in attesa, frammenti
di una totalità che unisce la misura dello spazio
ambientale al sentimento infinito del cosmo.
- Queste
minime pagine di pittura somigliano agli attimi di viaggio,
a quei tracciati
involontari che nascono col pensiero rivolto altrove, con la
memoria segnata
da ricordi improvvisi, senza esitazioni, senza neppure il
rischio di perdere il filo dello spazio e del tempo.
Nell’atto di segnare la superficie con
ritmi improvvisi che si consumano sotto lo sguardo
Giovanna Fra ha l’aria di immaginare la dimensione
dell’altrove, eppure lo spazio è senza tregua, sempre
presente nella coscienza dell’artista come vastità fisica
dell’immaginazione.
- Basta
l’incontro fra due segni a creare un precipizio, basta il
loro separarsi improvviso a rendere incerto il controllo
della visione, d’altro lato è sufficiente lasciar cantare
il vuoto per trovare l’energia necessaria ai brevi scatti
del colore.
- Di
fronte all’evento della pittura l’artista coltiva un
silenzioso riserbo, non ha bisogno di teorizzare e neppure
di parlare personalmente, le basta credere nei mezzi
pittorici per avvicinarsi alla sua verità. Il bisogno è
quello di scavare nel fondo più autentico dell’emozione
pittorica, per rimanere coinvolta
nel processo d’invenzione della materia, fino a
fare emergere l’esperienza dello smarrimento come valore
costruttivo della pittura.
- Non
a caso, il senso di questi lavori è affidato ad un termine
di intensa verità poetica, “docile fibra”, ricavato da
un verso di una poesia giovanile di Ungaretti (16 agosto
1916). In questa immagine Giovanna Fra identifica la propria
sensibilità creativa, il senso di precarietà di fronte
alla dimensione dell’universo, il sentimento del tempo che
scorrendo leviga le cose e segna i passaggi della vita:
l’immagine del fiume Isonzo in cui il poeta meglio si
riconosce.
- Sul
filo di questa citazione l’artista sente la pittura come
docile fibra dell’universo, dunque, tacito ritmo che si
allarga nello spazio alla scoperta dei valori essenziali del
comunicare, emozione che scaturisce dal sentimento
originario dell’esistenza come attesa di significati che
rimandano ad altri significati. Da questi sottili fili
letterari nascono gli attuali lavori di Giovanna Fra,
immagini appena toccate dal segno e dal colore, vibrazioni
di un processo pittorico circolare e avvolgente, profondo
tentativo di vivere la pittura al di fuori di ogni calcolo
linguistico, come autentica esperienza dell’inconscio che
affiora e si proietta nell’ignoto.
- E’
per questo che l’immagine non ha limiti, può vaporizzarsi
nella grande dimensione dell’ambiente oppure concentrarsi
su brevi intuizioni percettive, sempre efficaci nel condurre
il lettore verso la conoscenza interiore dello spazio,
là dove si acuisce il desiderio di scorgere, anche
solo per un attimo, quello che ancora non si vede e che
forse non potrà mai rivelarsi completamente.
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Claudio
Cerritelli
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- FRANCESCO
PAOLO MADONIA
- Per
aspera ad astra
dal 31/10/2004
al 30/11/2004
- Le
concrezioni materiche, i pigmenti combusti, le ricorrenti
scabrosità testimoniano d’un fremito ideativo non confinabile
nelle angustie della figurazione classica.
- La
scelta astrattista di Giovanni Francesco Paolo Madonia nasce,
dunque, da una dichiarata insofferenza verso lessici vissuti
come griglie troppo rigide ed anaelastiche, e in quanto tali
incapaci di condensare al meglio l’acre distillato
dell’interiorità.
- Eppure,
classificare il gesto artistico di Madonia come semplice
“informale materico” significherebbe incorrere in una
tassonomia ovvia e un po’ schematica, di certo non in grado di
esaurire pienamente la complessità immaginifica sottesa al suo
operato.
- L’insistita
polimatericità dei suoi dipinti, l’alternarsi di aggetti più
o meno prominenti, l’estroflessa plasticità che quindi anima
le superfici dei supporti, il lavico coagularsi dei pigmenti
sotto l’incedere dell’azione combustiva, tutto concorre a
rimarcare una consapevole progettualità che, pur
nell’inesausto anelito alla ricerca, rifugge da
improvvisazioni estemporanee e non sufficientemente cogitate.
Nessun “furor dionisiaco”, dunque, nessuna trance “medianico-creativa”,
nessun “dripping” incontrollato da “trip psicotropico”,
bensì un’ideazione meditata e pausata, che pare procedere per
sedimentazione di immagini ed emozioni, poi trasfigurate e
tradotte con un approccio di speculativa e lucidissima
sperimentazione.
- Non
è un caso, quindi, che in riferimento alla sua arte Tommaso
Romano abbia giustamente parlato di “lucida consapevolezza
delle tante ombre nel cammino, delle memorie ancestrali da
dipanare, di caverne da esplorare e labirinti da cui
fuoriuscire”, come a testimoniare la percepibile evidenza
d’un iter accidentato, umano ed artistico, che infine si
ricompone scientemente nella simbolica e concreta asperità
delle stesure. Asperità che non nega, nonostante la palese
inclinazione per l’informale, il permanere di suggestioni e
reliquati di figuratività; anzi pare esaltarne la valenza
fantasmatica di evocazioni mnemoniche, affioranti dal grumo
scuro dei vissuti attraverso un percorso che ne preveda la
progressiva abrasione d’ogni vana ridondanza, fino alla
radicale enucleazione dei contenuti più intimi e profondi.
- Sicchè,
tracce di paesaggi e vedute, forse portato di pregresse
esperienze personali (il nostro pittore è originario di San
Giuseppe Jato) o semplicemente frutto di vivida immaginazione,
paiono baluginare qui e là nella sofferta e tormentata resa dei
materiali, restituendo all’osservatore visioni dipanate su
quel labile confine che separa il dilavato ricordo dalla franca
allucinazione. E tutto ciò, senza mai indulgere a liquorosità
affettive ed a liquidità pittoriche, ma sempre con
un’attitudine – per così dire – costruttiva, nella quale
l’aspetto “fabbrile-efestino” è del tutto preminente,
quasi a ribadire la predetta (e imprescindibile) natura
“progettuale” che sta a monte d’ogni vero gesto artistico.
- Così
facendo, Giovanni Francesco Paolo Madonia rinverdisce non
soltanto la componente manuale del fare arte, ma soprattutto la
sua natura “alchemica” (e non solo per le tecniche adottate)
ed il suo essere un procedere “per aspera ad astra”, grazie
al quale la mera sensazione ottica, elaborata nelle traiettorie
neurali oculo-corticali, diviene, come per magia, pura
proiezione di soggettività. E proprio in questo crogiolo, in
cui il dato sensoriale si coniuga con l’emozione fino a
tradursi in sentimento cognitivamente compiuto e definito, che
ribolle e si conforma la magmatica poetica di Madonia.
- Poetica
dalle declinazioni “ctonie” e “vulcaniche”, la cui
dirompente vis ottica mai rinnega, ma anzi conferma
l’incorrotto ruolo demiurgico dell’artista contemporaneo.
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MARIO
BARONE
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"Cieli in una stanza"
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- Dal
30 maggio al 19 giugno 2004.
- Nuvole
in fuga verso un altrove non meglio definito.
- Addensate
in grigi cumuli o disperse e rarefatte sull’intonsa
superficie cartacea dei supporti, le nuvole dipinte da Mario
Barone paiono infatti procedere per autonome cinetiche
inerziali di matrice intrapsichica, di fatto estranee
all’impetuoso agire di qualsivoglia forza “naturalmente
eolica”.
- Quello
naturalistico è dunque un semplice pretesto; un presupposto
narrativo, dal quale il nostro pittore ama idealmente muovere
nei suoi percorsi immaginifici di progressivo straniamento
dall’ambito “terreno”, evidentemente vissuto come troppo
angusto e costrittivo. Gli “aerei” paesaggi che ne sono
scaturiti hanno pertanto una preminente valenza
allegorico-simbolica, davvero in grado di travalicare il mero
dato percettivo e fotografico, in funzione dell’esclusiva
proiezione dei vissuti affettivo-emozionali.
- Si
spiega in questi termini l’adozione assai frequente di
orizzonti ribassati – incombenti su più o meno cupe
azzurrità marine o su grigi profili rocciosi appena ravvivati
da cespugli –, grazie ai quali lo stacco ascensionale delle
nubi assume una evidenza ottica (e soprattutto metaforica)
ancora più marcata. In tal modo, Barone pare voler guidare il
nostro sguardo all’interno d’un paesaggio (perché, in
fondo, d’un unico paesaggio si può parlare, sebbene
declinato in molteplici varianti) che è innanzitutto
“panorama interiore” (della psiche o dello spirito, a
seconda delle ottiche), però riportato nei modi e nelle forme
dell’apparente ossequio alla natura.
- In
tal senso, la scelta di un linguaggio aeriforme e rarefatto,
supportato da una tecnica adeguata (ovvero da un acquarello
tonalmente diluito su ampi spazi, coi pigmenti stesi a macchie
in maniera anche discontinua), si rivela pertinente e
funzionale al coinvolgimento (sensoriale e cognitivo) degli
osservatori, magneticamente richiamati all’interno di un
contesto più intimistico e soggettivo, che strettamente
materiale. Un lessico non estemporaneo ed immediato, ma
maturato per lenta e progressiva decantazione del colore,
altrove – per l’esattezza in opere pregresse –
dispiegato con inusitata compattezza e intensità.
- Anche
in quelle gouaches, in vero, la fedeltà vedutistica al
paesaggio non era che un puro espediente per dissertazioni
eminentemente simboliche e tendenzialmente astratte, dovute al
comporsi quasi geometrico delle spesse campiture o a
sfrangiamenti timbrici simil-divisionisti. Tuttavia,
procedendo qualitativamente “per levare” da questi
precedenti, quindi sottraendo densità ed estensione alle
cromie ed alleggerendo il tutto fino a renderlo impalpabile,
Barone ha dimostrato di potere pervenire a una pittura aerea e
trasparente, al contempo essenziale e rigorosa, dotata di puro
incanto ma senza cedimenti liquorosi, e in qualche modo
“universale” nel suo essere assolutamente refrattaria a
qualsivoglia tentazione di esasperata mediterraneità.
- E
questo, grazie ad un percorso al quale non sono indifferenti
profonde riflessioni sulla grande paesaggistica anglosassone
dell’ottocento – Turner in special modo – e forse anche
sui precursori olandesi del seicento – van Ruysdael per
esempio –, dai quali il nostro autore ha saputo mutuare
quell’afflato – già precontemporaneo – alla
rappresentazione simbolica dell’interiorità, idealmente
proiettata su più o meno fosche turbolenze cirro-nembiche.
Iter – quest’ultimo intrapreso da Barone – di certo non
concluso e al quale, nonostante le legittime aspirazioni alla
ricerca di sempre nuovi moduli espressivi, è auspicabile che
egli dia ancor più impulso e continuità. Il parallelo uso
degli acrilici su tavola, infatti, pur avendo gradevoli esiti
cromatici e pur perseguendo analoghe finalità allegoriche
(ben evidenti soprattutto nei notturni), ha però minor
valenza immaginifica, poiché più prossimo a tanto
paesaggismo “mediterraneistico” in cui – purtroppo –
non è infrequente imbattersi.
-
E’
dunque nella spoglia e leggiadra sobrietà di queste nuove
carte, che si dispiega appieno la “poetica” visione del
nostro Mario; è proprio in quei cieli annuvolati, nei quali
ama rifugiarsi il suo io irrequieto e in continuo movimento,
che la pittura di Barone va assumendo la sua cifra più
compiuta e definita, rivelando quelle fini doti liriche in
grado di rappresentare congruamente ogni minimo moto che
agisce nel profondo.
SUL FILO DEI
RICORDI
il teatro della memoria di Tino Signorini
La
grafica come teatro della memoria, come simbolica ribalta su cui
esporre le sbiadite “memorabilia” di tutta un’esistenza.
Sono proprio i ricordi, velati dalle brume del passato prossimo e
remoto, la linfa vitale cui ama attingere Tino Signorini.
Evocati dal grumo scuro della psiche e ordinati secondo
un’intima scansione cronologica, in cui l’affanno del lavorio
degli anni cede a una meditatività pausata e avvolgente, essi
costituiscono i reperti d’un mondo sommesso ed antieroico,
lungamente introiettato fino a depurarsi d’ogni vanagloria e
falsa retorica. Una autoanalisi da cui deriva una silente
narrazione per immagini, ove il “visibile” pare emergere a
fatica dalle nebbie circostanti, quasi che il rimembrare riaprisse
“vulnera” a stento suturate dall’oblio del tempo; di quel
tempo soggettivamente vissuto e percepito, che fa di ogni
esperienza un unicum di irripetibile e insondabile mistero.
Muovendo dal raffinato grafismo di Vespignani e dalle desolate
atmosfere di Sironi, e avvalendosi del prediletto e irrinunciabile
contè, Signorini dà così corpo, con eleganza rarefatta, a tutto
il corteo di ombre (e di ubbie) albergate nei recessi della mente.
Il lirismo elegiaco cede il passo a un pathos misurato e minimale,
ma di subitanea immediatezza nella sua estrema penetranza. Non è
un caso che del dramma esistenziale Signorini offra il contesto
(paesaggi urbani oscuri e solitari, muri screpolati, ingombri
tavoli di lavoro, battigie ventose), richiamando gli osservatori a
un emotivo processo immaginifico e quasi inducendoli a una
completa immedesimazione simpatetica. I trapassi chiaroscurali, le
dissolvenze ottiche, gli avvolgimenti atmosferici, tutto
contribuisce a fermare il flusso degli eventi, a inchiodarne gli
scenari in immagini sfocate, abrase dal peso d’un vissuto dai
risvolti dolorosi e a tratti insostenibili.
Si spiega in questi termini il prevalere d’una “scurità” di
fondo, tutta orchestrata su tonalità grigio-nerastre, solo di
rado interrotta da improvvisi barbagli coloristici. Una monotimia
cromatica di tipo “goyesco”, capace di specchiare fedelmente
la “saturninità” di chi la ha concepita, senza mai eccedere,
però, in inutili tetraggini, mercè una sobrietà al contempo
rigorosa e raffinata.
Così, sfrondati d’ogni superfluo orpello descrittivo e ridotti
alla loro essenza narrativa, i ricordi si profilano sui fogli come
avvolti da caligini aeriformi, baluginanti quali ectoplasmi nei
gorghi dell’oblio. Interni di cucine sedimentati di fumo, scorci
fantasmagorici della Palermo vecchia, lo studio di via Castriota,
gli oggetti abituali del lavoro, muri erosi e dilavati di
quartieri anonimi scorrono sotto gli occhi degli osservatori,
contribuendo a ricomporre il filo impercettibile d’una irretente
biografia, il cui fascino magnetico risiede proprio nel suo essere
“anti-epos”, nel suo sostanziarsi di scenari comuni e
quotidiani però trasfigurati in immagini assolute e senza tempo.
In questo modo Signorini ci consegna la sua “storia”, una
“storia” senza squilli né fanfare, sempre sotto traccia,
anche quando si sofferma a indugiare sul biancore agghiacciante
d’una sagoma in un letto d’ospedale o allorquando giunge al
“limen” d’una finestra forse volta verso il nulla. Finanche
in certe inaspettate accensioni di colore - di un’arancia, di
una pera, di una spiaggia assolata -, che non rinnegano
distimicamente lo “spleen” sottostante, ma lo completano
denotando una fisiologia della rimembranza punteggiata anche di
frammenti di maggior serenità, l’armonica misura è fatta
sempre salva, senza debordamenti euforici di scontata
mediterraneità e soprattutto senza “piacionismi” dettati da
tentazioni di mercato.
Un linguaggio - questo di Signorini - di grande austerità, ma non
per questo meno vitale di tanti altri fin troppo vitalistici. Una
conferma del proprio essere “ancor vivo” (perché la memoria
personale e collettiva è il presupposto d’ogni coscienza),
consegnandosi così, da vero artista, all’immortalità.
Le opere di Tino Signorini saranno visibili alla Quadreria del
Lotto dal 4 al 22 maggio.
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- MARIO CASSISA
- Sacello
d’artista
dal
4 al 25 aprile 2004
- Mario Cassisa è
quel che si dice un artista eccentrico ed irregolare.
- Doti non comuni
– l’eccentricità e l’irregolarità – anche in
un’epoca come la nostra, in cui l’esibita sregolatezza e il
raro genio la fanno da padroni. Le scelte di vita, ancor prima
di quelle artistiche (cui tuttavia sono intrecciate
indissolubilmente), testimoniano infatti d’un naturale e
genuino “nomadismo esistenziale”, che lo ha guidato per
tutta la sua vita, prescindendo da mode transitorie e
contingenti.
- Non a caso, egli
ha trascorso buona parte dei suoi anni – prima di ancorarsi
definitivamente a Trapani – spostandosi da un luogo
all’altro e viaggiando in lungo e in largo come in preda ad un
bisogno insopprimibile: quello di allargare a dismisura i propri
orizzonti geografici e con essi quelli mentali. Dagli Stati
Uniti alla Polinesia – ove forse lo ha sospinto il mito di
Gaugain – è stato, nei fatti, un succedersi di tappe, che ne
hanno determinato l’originale crescita di uomo e di artista
fuori dagli schemi. Un percorso articolato, che spiega
esaurientemente la genesi di quel lessico “meticcio” e
fortemente “contaminato”, in cui convivono tracce, scorie e
suggestioni di svariata e complessa provenienza. Cassisa,
infatti, attinge a piene mani alla tradizione figurativa
occidentale, mescolandola però a simboli arcaici e primitivi
delle civiltà aborigene (africane e oceaniche) ed a citazioni
delle culture precolombiane, fino a produrre un’ibridazione di
gran vivacità estetica e soprattutto visuale. E ciò al di
fuori di qualsivoglia semplicismo o naiveté – perché il
tutto è profondamente meditato e progettato –, ma piuttosto
nel nome di un “sincretismo” dichiarato ed elevato a stilema
peculiare.
- Rientra in
questa evidente volontà progettuale anche la sua ultima
impresa, ovvero il “Sacello dell’artista”,
autentica epitome di tutto il proprio operato pluridecennale e
– in qualche modo – testamento ideale (nel senso più
apotropaico del termine) dell’articolata
poetica che lo ha guidato nel suo agire.
- Un
effimero “monumentum” al proprio essere nel mondo, che, ben
lungi dal configurarsi quale auto-celebrativo necrologio, si
offre ai visitatori come puro atto d’amore nei confronti di
quel fare artistico eletto a ragione fondante d’un’intera
vita di zingaro inesausto e irrefrenabile.
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- SEBASTIANO CARTA
- "MISCONOSCIUTO
FUTURISTA DI SICILIA"
E’
una piccola-grande raccolta di assoluta completezza, quest’insieme
di fogli sui quali Sebastiano Carta (Priolo 1913 - Roma 1973) ha
saputo trasporre il proprio articolato immaginario ideativo.
Piccoli dipinti d’una straordinaria compiutezza, di forma e
contenuto, sì da costituire una ideale galleria, specchio fedele
d’un percorso creativo sviluppatosi nel volgere di un intero
quarantennio.
Nell’intreccio di linee e di colori, felice confluenza di
suggestioni astrattiste, dinamismi di matrice futurista e sussulti
espressionisti, si svela infatti tutta l’esuberante irrequietezza
estetica di quest’autore.
Poeta, oltre che pittore, artista completo incline ai movimentismi (fu
amico di Marinetti e fra gli artefici, nel 1932, della seconda ondata
futurista), Sebastiano Carta ha incarnato pienamente lo spirito del
tempo, col suo continuo ricercare moduli linguistici sempre nuovi
(tanto letterari, quanto visivi) cui affidare l’impellenza del
proprio disagio esistenziale. Si spiega in questi termini il patente
eclettismo che lo ha contraddistinto, la continua tendenza a mutuare
spunti e sollecitazioni dalla temperie contingente, attraversata con
raffinata eleganza in punta di penna e di pennello nell’arco di gran
parte del secolo trascorso.
Schizzi, acquarelli, piccoli dipinti, realizzati a partire dagli anni
’30 e fino agli anni ’70, testimoniano di una inesausta e sempre
brillante capacità di confrontarsi ad ampio raggio col mondo
circostante, in una relazione osmotica di interscambio attivo e mai di
acritica passività. Non stupisce, pertanto, che nelle opere degli
anni ’30 si trovino a convivere in assoluta armonia la più
razionale delle astrazioni geometrizzanti, orchestrata in un disegno a
penna che pare quasi un traliccio, e la figurazione morbida d’un
soggetto nautico, schizzato con guizzante sinteticità su carta
quadrettata, riecheggiante atmosfere di ascendenza scipioniana. Né,
tanto meno, può sorprendere che nella produzione degli anni ’40
coesistano un vedutismo di chiaro sapore informale, baluginante di
dissolvenze coloristiche nel fantasmagorico accenno degli edifici, e
una vis espressionistica, di tratto e di colore, di cui impregnare
certi volti o maschere mostruose. Con pari levità, Carta ha saputo
frequentare il lessico picassiano e le dissertazioni
dell’espressionismo astratto di matrice americana, il tardo recupero
di influssi kandinskijani e il gusto “ideografico” per il segno in
cui riunire, con sintesi felice, la lezione di Capogrossi e
l’interesse per l’arte aborigena.
Dunque, tutto si incontra e si sussegue in quest’ampia produzione di
Sebastiano Carta, a riprova di una curiosità e d’una avidità
estetica che lo guidarono - senza soluzione di continuità - nel suo
percorso artistico. E ciò ben al di là del mero citazionismo
modaiolo, come d’altronde dimostra la non comune capacità di
entrare nel “merito” di tanti linguaggi senza mai scadere nella
sclerotica ripetizione dello schema o del cliché testè appreso, ma
piuttosto procedendo in punta di fioretto fra toccate, con affondo, e
fughe verso nuove mete.
Poliedrico e versatile, Sebastiano Carta ha confermato col suo operare
come l’essere “vero artista” non si possa né si debba limitare
a un ambito troppo specialistico e un po’ sclerotico (rigorosamente
poetico o pittorico), ma comporti un continuo espandersi e debordare
extra limina, seguendo sempre nuove direttrici di pensiero, in una
esplorazione inarrestabile delle proprie potenzialità ideative e di
espressione.
Una lezione cui guardare, meditando, per la sua sconcertante attualità.
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- STEFANIA
ROMANO
- MANTAFI
- Stefania
Romano è una fine narratrice. Una narratrice per
immagini – ovviamente –, trattandosi d’una valida
ed abile fotografa.
- Dote
non comune, quella dell’affabulazione, e in qualche
modo in controtendenza, nell’attuale panorama
fotografico, vista l’eccessiva mole di fotografie
pubblicitarie e cronachistiche del tutto prive,
nonostante l’apparenza patinata, di qualsivoglia
contenuto narrativo.
- I
fotogrammi della giovane artista di Palermo sono invece
(e fortunatamente) di ben altro spessore e caratura,
costituendo dei microuniversi favolistici al cui interno
dipanare interamente i propri vissuti emotivi
nell’ossequio d’una attenta sperimentazione
estetica. Lo dimostra – senza tema di smentita –
l’estrema ricercatezza visuale con la quale ella
impagina i suoi scatti, ricorrendo a svariati espedienti
tecnici, fra i quali la sovrapposizione di immagini, gli
effetti dissolvenza e – in special modo – i forti
contrasti chiaroscurali. Non è infrequente, infatti,
che i personaggi immortalati da Stefania si ammantino di
bianche e candide vesti, grazie alle quali risaltare sul
buio dei notturni circostanti. Una scelta lessicale –
questa dei marcati contrasti luministici –, che le
consente di avvolgere ciascuna delle storie raccontate
d’un alone inquietante e misterioso, come è proprio
della grande e migliore tradizione favolistica. Ecco
allora un Pinocchio – ibrido irrisolto, a metà fra la
condizione umana e quella del burattino – emergere
dalle ombre d’una moderna falegnameria, o una
fanciulla-crisalide pendere col suo virginale bozzolo da
un ramo d’albero, e ancora la stessa autrice
immortalarsi ripiegata su sé stessa all’interno
d’una diafana bottiglia. Tutte immagini di forte
impatto ottico – nonostante l’estrema eleganza delle
composizioni – e di intenso contenuto emozionale,
nelle quali si evidenziano appieno, seppure in
controluce, le lacerazioni legate al “divenire
adulti” ed all’assunzione di quei ruoli
“socialmente codificati” (la maternità, ad esempio,
o l’abbandono d’una visione ludica dell’esistenza
in favore d’una ben più produttiva) a torto od a
ragione ritenuta un passaggio (quasi) obbligato per
ciascun giovane.
- Stefania
racconta tutto ciò ed altro ancora; e lo racconta assai
bene, riuscendo a coniugare con notevole efficacia forma
e sostanza, così
riportando la fotografia alle sue migliori origini –
non sono pochi infatti i riferimenti alle foto di Lewis
Carrol, il padre di Alice nel paese delle meraviglie,
che fu anche un apprezzato fotoamatore –, per
restituirle finalmente quel potere di “incanto” che
agisce nel profondo, oggigiorno troppo spesso disperso
al di sotto di lucide coltri ed ammiccanti superfici.
- Fino
al 15 febbraio 2004
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-
- TANIA
BARRALE
- "Cuciture"
- mostra
personale
-
- Affidare
al lessico informale, al semplice gioco dei tonalismi e
delle nuances, alla loro pura orchestrazione, la propria
ideatività ed affettività, è scelta artistica che
richiede gran coerenza ed anche – oggigiorno – non poca
voglia di andar controcorrente.
- Infatti,
benché il panorama artistico attuale compendi la
coesistenza di una svariata (e quasi infinita) moltitudine
di stili e di linguaggi, ciò non di meno si registra – da
qualche anno a questa parte e soprattutto fra i più giovani
– una forte ripresa della figurazione, che pare esser
divenuta il prioritario cimento di non pochi artisti.
- In
tal senso, l’operato di Tania Barrale – che
anagraficamente rientra a buon diritto nel novero delle
ultime generazioni – pare porsi, con le sue franche derive
informali, nettamente in controtendenza, rilanciando modalità
espressive tipiche del secondo dopo-guerra, quando la
definitiva dissoluzione della forma assunse i connotati
d’un gesto liberatorio rispetto agli oppressivi modelli
culturali che avevano dominato nei decenni precedenti.
- Pur
consapevole del ridimensionamento dell’aspetto
“infrattivo” del gesto artistico informale, Tania
tuttavia opta per questo lessico, nelle cui declinazioni –
evidentemente – ritrova gli elettivi strumenti di
estroflessione del proprio fresco immaginario. Ella,
infatti, ne pratica i molteplici percorsi, con quel piglio
sicuro che è tipico di chi faccia della ricerca estetica ad
ampio raggio il proprio obiettivo prioritario. Sicchè,
nella sua ampia produzione, è possibile incontrare tanto
opere di impalpabile levità visuale (nelle quali
l’orchestrazione è operata per accostamenti di leggere
pennellate ad acquarello di diafana liquidità tonale),
quanto opere di forte impatto ottico (in cui i colori sono
campiti con marcata compattezza o addirittura con tangibili
stesure materiche) animate da evidenti contenuti dialettici.
In queste ultime, infatti, improvvise discontinuità della
superficie pittorica – ottenute lavorando su reti
metalliche tese all’interno di corpose cornici colorate o
attraverso soluzioni di continuo delle tele – danno la
chiara idea di un rapporto, ricercato e voluto, fra i pieni
e i vuoti, quasi a ribadire – alla Fontana –
l’impossibilità di contenere esaurientemente la materia
pittorica all’interno di un supporto piatto e concluso.
- L’esigenza
di andare oltre, debordando nello spazio vuoto circostante e
superando quello puramente illusorio della tela, pare –
dunque – primeggiare nel percorso di ricerca della giovane
artista belmontese. E questo, in ossequio a una tecnica
articolata e consapevole (non si dimentichi che è
assistente della cattedra di pittura all’Accademia di
Brera) e ad una ideatività estremamente progettuale nel suo
incedere ed agire.
- Cultura
artistica e progettualità contraddistinguono, quindi,
l’attività pittorica della Barrale. Una miscela che le
auguriamo di mantenere in buon equilibrio, onde evitare le
sempre presenti insidie nascoste in griglie di pensiero
troppo rigorose, purtroppo capaci – quando non temperate
– di smorzare quegli impeti emotivi che sono il vero
spirito d’ogni opera informale.
-
- Fino
al 25 gennaio
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- GAETANO COSTA
-
"Luce insolente"
dal
16 novembre al 4 dicembre 2003
Il disegno come elettivo mezzo di espressione; quale prioritario
filo conduttore che unifica le diverse anime - grafica, fotografia e pittura - del suo
fare artistico. Perché Gaetano Costa è fondamentalmente un talento grafico, che però ha
saputo estendere questa sua naturale inclinazione ad altri ambiti, advenendo ad esiti di
non meno alta qualità.
Come egli stesso afferma, il tracciare segni sulla carta si accompagna a un
fisiologico piacere del "fare" dai contenuti quasi terapeutici. Una valenza
curativa - nel senso più elevato del termine - che evidentemente gli ha consentito di
agire le tensioni ideative tumultuanti nella sua giovane e fertile psiche, così da dar
forma assai compiuta a un complesso immaginario affinatosi nellalveo storico della
transizione dal simbolismo allespressionismo.
Nelle opere attualmente esposte alla Quadreria del Lotto (dai disegni di piccolo formato alle
fotografie ritoccate a mano ed ai dipinti di grandi dimensioni) è infatti evidente e
dichiarata lattenta riflessione sui modelli di Beardsley e di
Schiele, di Schomberg
e di Munch. Tutti artisti dai quali Costa ha saputo mutuare le doti di empatia, necessarie
per scandagliare senza remore i recessi più profondi dellinteriorità, e
soprattutto i moduli linguistici, benché rielaborati con autonomia in una funzionale
miscellanea di forza visuale e ricercatezza estetica.
Ne consegue un tratto segnico di estrema accuratezza, riconducibile - come detto -, nella
forma e contenuto, ai modelli di Aubrey Beardsley (alle illustrazioni per la Salomè di
Wilde e per la Lisistrata di Aristofane), dei quali ripropone quella elegante e insidiosa
ambiguità circonfusa di sensuale e irretente magnetismo. La trama fittissima, da ragno
infaticabile, si alterna allaccecante biancore degli sfondi, in un bipolare
alternarsi di horror vacui e cupio dissolvi, che al contempo affascina e inquieta
losservatore. Un dato riscontrabile anche nelle fotografie, ove il disegno si
sovrappone come un merletto alle figure, rivelando forti suggestioni ad opera
dellarte primitiva, quasi fosse un linguaggio tatuato quale quello dei
Maori.
Tuttavia è nella pittura, che liter di Costa pare giungere a pieno compimento, a
indicazione duna riuscita crasi fra segno e pennellata, fra rigorosa bicromia e
pienezza del colore.
La superficie pittorica appare infatti scabrata a più riprese, come cesellata da un
susseguirsi di incisioni (soprattutto nella resa dei panneggi) che producono un effetto
"braille" di tattile e materica evidenza. E tutto ciò senza scadere, ad onta
delle parvenze, nel decorativismo di maniera; perché il tratteggio insistito ed ossessivo
ha sempre una valenza strutturale più che formale, dando peso e carattere - anche in
termini percettivi - allarticolata tavolozza e assumendo i connotati di una
irrinunciabile cifra stilistica.
Un grafismo, talora esasperato, che non altera però la diretta percezione degli aspetti
psico-affettivi, di quei sensi di solipsistico ripiegamento su sé stessi e di esclusione
da ogni ambito relazionale che permeano in profondo i personaggi. Piuttosto, ne deriva un
contrasto assai straniante fra lo smorto incarnato delle figure, spesso smunte e ossute, e
lopulenza traboccante di vesti e drappeggi, elaborati ed operati in un incredibile
profluvio di cromatici ricami. Coppie di amanti assorti e rattrappiti in un bloccato
abbraccio mortuario (omaggio dichiarato a Schiele), ma illuminati dal colore delle vesti e
dei panneggi riccamente istoriati, o smagrite fanciulle contratte in posture di patologica
chiusura (alla Munch), e tuttavia incorniciate da tessuti vivacissimi, si susseguono a
soggetti più dinamici, in un percorso che rimarca la maturata "equivalenza
terapeutica - sono parole di Costa - fra grafica e pittura".
Una conquista, quella della pittura, che sembra completarsi in quei dipinti su carta nei
quali il gesto artistico si dispiega in piena libertà, non più costretto da vincoli di
sorta, esprimendo tutto il suo "furor" orgasmico e dionisiaco attraverso
pennellate (ed anche unghiate) inferte sul supporto fino a bucarlo.
Opere nelle quali il suddetto solipsismo tende a debordare - anche in virtù duna
prevalente scurità - in una franca angoscia, confermando una statura da artista ormai
maturo.
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- CRISTIANO
MATTIA RICCI
- “Retornos
de lo vivo lejano”
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- L’impianto
marcatamente graffitistico, che fa del “segno” il
cardine lessicale di tutta una poetica, è
indiscutibilmente la peculiare cifra stilistica della
pittura di Cristiano Mattia Ricci.
- Il
tratteggio insistito, racemizzato talora fino a produrre
trame inestricabili e quasi pollockiane, scandisce
infatti ogni punto della superficie pittorica, rivelando
un vivace immaginario assai in linea con le tendenze
della contemporaneità.
- Il
graffitismo di matrice americana, a tutti gli effetti,
pare avere esercitato e continuare ad esercitare il suo
influsso prepotente su molti giovani artisti del vecchio
continente. Influsso che si coniuga però, più o meno
sapientemente, con
la tradizione pittorica europea, privilegiando le
varie sperimentazioni ed avanguardie del secolo
trascorso. Si spiega in questi termini quel ricorrere di
accensioni coloristiche che dai fauves si è evoluto
fino all’espressionismo astratto, ma anche di palesi
tracce di figuratività che, pur movendo dalle più
antiche culture aborigene, non disdegna affatto il
recupero di certe altre suggestioni novecentesche, come
quelle che paiono ricondurre a Campigli in “Licini
e l’amico”.
- Cristiano
Mattia Ricci è dunque un artista del suo tempo, ma
pienamente consapevole di quanto lo ha preceduto. Un
artista, per altro, multidisciplinare, aperto e dedito
alla poesia quanto alla pittura. E’ forse questa la
ragione del suo grafismo
talora esasperato – quasi volesse
“scrivere” con grafemi colorati –, ma nei cui
slanci emotivi pulsa senz’altro una lodevole urgenza
di espressività.
-
Alla
quadreria del lotto fino al 2/11/03
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- MARIANA
ACUNA
- Personale
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- Mariana
Acuna è quel che si dice una pittrice in linea con i tempi.
- Artista
cosmopolita – è originaria del Sud-America, ma vive in
Italia ormai da anni – la Acuna è infatti artefice
d’una pittura di forte contaminazione, nella quale
confluiscono un intenso colorismo (forse discendente dal suo
vissuto latino-americano), una spiccata tendenza alla
sperimentazione visuale e, al contempo, un richiamo non
equivocabile alla tradizione figurativa.
- E
proprio la commistione fra tessiture cromatiche elaborate in
piena libertà – con una netta inclinazione per le
orchestrazioni di carattere informale – e tratteggio
graffitistico – marcato ed essenziale nella sua linearità
– dà la chiara percezione di come l’artista
sud-americana, nel suo incedere pittorico, agisca nel segno
di una attiva dialettica fra opposti, però tendendo a dare
luogo a un linguaggio in cui la contrapposizione tende a
sciogliersi – seppur con qualche discontinuità – in
amalgami bene equilibrati.
- Ne
deriva che proprio la brillante tavolozza, ora giocata sulle
sfumature tonali d’una predominante coloristica, ora
declinata in termini di articolati accostamenti di nuances
(con un effetto a “patchwork” esaltato dalla
sovrapposizione di pezzi di carta o di tela), funga da
supporto narrativo per l’inserto di figure e figurette
chiamate al ruolo prioritario di ectoplasmici protagonisti
della narrazione.
- Animali,
personaggi di pura fantasia, simboli esoterici, impronte
manuali, ma anche bottiglie (che riconducono direttamente
alle esperienze novecentesche della natura morta)
campeggiano, sparuti e solitari, sugli sfondi policromici
come pure silhouettes incorporee (di cui la Acuna delinea
solo il profilo) deputate a testimoniare, fabulatoriamente,
l’imprescindibilità da un retaggio – quello figurativo
– vissuto come memoria cui ancorare le più sfrenate
derive dell’immaginazione.
- Un
contrappuntistico confronto, nel susseguirsi di fughe e
ritorni, in grado di esprimere a pieno la temperie che
viviamo; una temperie nella quale paiono convivere il
passato col presente, lo sperimentalismo con la
conservazione, in una sorta di eterno ritorno che tutto
compendia e nulla rinnega.
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Fino
al 29 giugno
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- ALESSANDRO
DI GIUGNO
- Jardin Planetarie
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- Alessandro
Di Giugno è quel che si dice un artista “colto”.
- Il
suo modo di concepire la fotografia lo colloca infatti, a buon
diritto, in quel novero di operatori delle arti visive nei quali
è palese il peso esercitato da una lunga tradizione. Una
tradizione più pittorica, che squisitamente fotografica, come
del resto attestano tanti dei suoi scatti, meditati e costruiti
con quella meticolosa preparazione che è tipica proprio dei
pittori.
- Esente,
nonostante la giovane età, da irruenze e immediatezze, Di
Giugno elabora così le proprie immagini, progettandole con cura
certosina, per poi tradurle nel concreto grazie all’uso della
camera.
- Lo
rivelano, con chiarezza inoppugnabile, le articolate foto che il
giovane artista di Palermo espone in questi giorni (fino al 30
maggio) alla Quadreria del Lotto, nel centro storico di Trapani.
- Elaborati,
scatto dopo scatto, secondo un criterio di impaginazione
sequenziale, questi fotogrammi confermano in pieno una non
comune progettualità assai ben cogitata e mai lasciata al caso.
- Come
un pittore, forte dei suoi disegni preparatori, o come uno
scrittore, che abbia già in mente il suo romanzo ancor prima di
vergarlo, Di Giugno infatti assembla e ordina le sue
“visioni”, in un percorso di ricerca che non indugia
facilmente in stereotipi scontati.
- Il
“Jardin Planetarie” – come egli ha voluto chiamare
questa serie di immagini – racconta, non disdegnando
l’ironia né l’ombra del disagio, il rapporto dell’autore
con il mondo circostante.
- Non
a caso i personaggi ivi ritratti si ritrovano di spalle o
piantati nella terra, in una sorta di biotico ritorno alle
proprie origini, o surrealmente abbigliati con la muta da
immersioni, ma incapaci di nuotare come attesta il salvagente.
- La
scelta del colore, seppur fra (e proprio in virtù di) marcati
contrasti con gli sfondi, è assolutamente funzionale a un
racconto “esistenziale” venato di emozioni e solipsismi, di
senso dell’assurdo e di necessità affettive.
- Un
linguaggio – questo di Di Giugno – assolutamente
immaginifico e quasi favolistico, che denota l’aperta e
programmatica rinuncia alla presunta (e spesso irrealizzabile)
oggettività di stampo meramente cronachistico, in favore
d’una narratività intrecciata di invenzioni, idee e visioni
in grado di ricondurre la fotografia alle sue radici realmente
estetiche, finalmente depurate di quei cascami estetizzanti a
torto ritenuti marchio inappellabile di qualità artistica.
- Alla Quadreria del Lotto fino
al 30 maggio
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- FRANCISCO
OROZCO
- La
leggerezza dell'essere
- Francisco
Orozco è un’artista nicaraguegno ma di formazione decisamente
europea.
- Non
è un caso, infatti, che egli abbia perfezionato le sue doti di
scultore proprio in Italia, e precisamente in quella Massa Carrara che
è da sempre una tappa obbligata per ogni “scalpellino” che si
rispetti.
- E
che Orozco abbia guardato al vecchio continente ed alla sua millenaria
tradizione scultorea è attestato, con inoppugnabile evidenza, dalle
serie di piccole sculture in esposizione per tutto aprile alla
Quadreria del Lotto, in quel di Trapani.
- Tutte
incentrate sull’universo femminile, queste minute statuette (quasi
dei bozzetti, benché estremamente curati in ogni particolare)
rivelano un immaginario erotico – si tratta per l’appunto di
nudini – che attinge chiaramente a piene mani alla vasta fonte della
classicità. Basterebbe infatti guardare il sensuale tronco acefalo,
ritratto in una elegante movenza “ellenistica” da menade danzante,
per avere contezza della capacità di Orozco di trarre spunti e
suggestioni dal magistero della statuaria antica con un approccio
assai fedele e quasi filologico.
- Un
approccio confermato anche altrove, in quella sequenza di figure
modellate con uno slancio aerodinamico che pare di farfalle o di
libellule, nel cui susseguirsi di “finito” e “non finito”, di
anatomie sericamente levigate e di blocchi appena sbozzati dai quali i
corpi sembrano balzare, affiora chiaro un certo riferirsi
dell’autore – seppur con le dovute proporzioni – a modelli
rinascimentali d’ascendenza michelangiolesca.Modelli che il nostro
Orozco riesce a fondere, in una crasi assai audace e immaginifica, con
le spigolosità quasi geometrizzanti dell’Art Decò, all’apparenza
vera musa ispiratrice di questo artista latino-americano. Proprio il
profilarsi assai sintetico delle muliebri silhouettes, come a fendere
lo spazio circostante, richiama alla memoria alcune figurine di
Lalique o le minute statuine poste a mo’ di tappo sui radiatori
delle automobili di allora, a testimonianza – come detto – d’un
continuo richiamarsi a esempi del passato, sebbene non lontano o, per
meglio dire, prossimo.
- In
conclusione, forse non si può dire che Orozco sia un grande
innovatore – quanto meno non lo si evince dalle opere qui esposte
–, ma è sicuramente artista dotato di tecnica e cultura, il che
rende questa esposizione degna d’una visita più che attenta,
rispettosa e meditata.
Fino
al 30 aprile
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GIUSEPPE FELL
Nuovi e vecchi percorsi
Quello di Giuseppe Fell è un itinerario artistico esemplare. Esemplare nel suo
essere un riuscito cammino di autoformazione, maturato in assoluta indipendenza e
libertà.
Estraneo a frequentazioni accademiche di sorta, fuori da qualsivoglia "cerchia"
o "cenacolo" elitario-intellettualistico (e quindi lontano da logiche di
schieramento e di appartenenza), Fell ha infatti improntato tutto il suo operare ad un
autodidattismo e ad unautodisciplina di non comune efficacia e qualità.
Proprio questo autorientamento, questo cercare una personale identità, sottraendosi a
pseudo-magisteri istituzionali e a schemi estetici precostituiti, fa di Fell un artista
dalla ideatività non coartata - col pretesto della didattica - in alvei imposti
dallesterno e quindi meno sensibile a lusinghe modaiole contingenti.
Lunico vero insegnamento cui egli ha soggiaciuto, riconoscendone
linoppugnabile valore, è stato (ed è) quello della migliore pittura dogni
tempo, alla quale attingere spunti e suggestioni da rielaborare senza pregiudizi di ordine
tecnico o linguistico.
Si spiega in questi termini la poliedricità dei percorsi effettuati, lalternarsi di
lessici dalla parvente antinomia, il ricorso a difformi modalità di stesura ed
esecuzione, in un anelito alla ricerca del modulo migliore, in cui laffinamento
tecnico è sempre funzionale allespressione di intensi contenuti. Non deve,
pertanto, sorprendere - per quanto paradossale possa sembrare alla luce dellattuale
produzione - che Fell abbia mosso i suoi primi passi dal paesaggismo di stampo
ottocentesco, preso a modello da indagare e sviscerare ai fini dun alunnato pratico
e teorico.
E stato in codesta fase che il nostro artista ha intrapreso
"lesercizio
della mano", scandagliando attentamente la macchia toscana, limpressionismo
doltralpe ed il verismo insulare per carpirne ogni possibile segreto. Le prove che
ne sono derivate - piccole tavolette eseguite con grande immediatezza, ma anche tele di
maggiori dimensioni ben riuscite nella loro articolazione grafica e cromatica - hanno
progressivamente rivelato una crescente padronanza, lasciando intravedere fertili
sviluppi.
Infatti è stato proprio a questo punto che la carriera di Giuseppe Fell ha subito come
uno scarto, mettendo a nudo pienamente quellinsoddisfazione che è il sale
dogni crescita umana e soprattutto artistica. Laddove molti altri si sarebbero
adagiati su una remunerativa attività in grado di suscitare facili consensi (maxime in
una città come Palermo, scleroticamente fossilizzata in un gusto che difficilmente
accetta ciò che non è figurativo e quindi di immediata e facile lettura), il nostro
giovane pittore ha deciso viceversa di andare oltre, di procedere lungo nuovi itinerari di
sperimentazione e di estendere così i propri orizzonti visivi e ideativi.
E nata da questa urgenza, da questimpulso a migliorarsi, la scelta produttiva
che lo ha imposto allattenzione della critica e che gli ha consentito di vincere dei
concorsi di pittura.
Con una cesura più apparente che sostanziale, la figurazione chiara e definita, morbida
vettrice di paesaggi e di vedute, ha lasciato il passo a un rapprendersi improvviso del
linguaggio in concrezioni ideografiche dumori primitivi. Le superfici, campite con
compatte stesure cromatiche allacrilico, si sono via via animate di screziature
graffitistiche, tracciate con arcana demiurgia su inattese stuccature. Geometrie,
impronte, geroglifici, ombreggiature e squilli coloristici sono confluiti in una
crittografia dalla sintassi imperscrutabile, ma capace di congiungere al meglio i retaggi
più ancestrali con le istanze della contemporaneità.
Con un euritmico andamento, a tratti matematicamente periodico, al contempo rigorosamente
misurato nellequilibrio compositivo ed armonico nella contrappuntistica
orchestrazione cromatica, Fell ha trasposto sui supporti una intensa narrazione,
traducendo le sue idee nei segni misteriosi duna immaginaria scrittura personale. A
ogni segno un contenuto, in una semantica profonda ed evocativa, spesso ieratica nella sua
evidente totemicità, ma sempre viva e penetrante, e soprattutto in grado di coinvolgere
gli osservatori in questa forte volontà di ridefinizione del mondo interiore e di quello
circostante.
Ciò non di meno, questansia despressione non è mai giunta a pieno
compimento, come se ogni traccia, pur conclusa in sé, non riuscisse ad aggirare il limite
celato in ciascun significante, ovvero quellimpossibilità di raccontare il tutto,
che è il pungolo inesausto che spinge alla ricerca.
E stato forse per questo, per una compulsiva e inevitabile reazione, che Fell ha
intrapreso lo studio di nuovi territori, esplorando attentamente quel labile crinale lungo
il quale la certezza della forma confluisce nellenigma informale.
Ne è conseguito un linguaggio felicemente sospeso fra allusioni figurative e dissolvenze
astratte, dipanato entro un paesaggismo indefinito, pervaso di ombre e di mistero, ove
aleggia incontrastato lo spirito di Pan. Soggioganti visioni - inizialmente nella
scansione del piccolo formato e da qualche tempo anche su più ampie superfici -, depurate
dogni superflua estroflessione coloristica e piuttosto intrise duna brumosità
aggrovigliata e impenetrabile, nelle quali lintroiezione percettiva si impone
allosservatore col suo scarno ma irretente magnetismo.
Una pittura - questultima di Fell - nella quale locchio si disperde in un
grumo demozioni, richiamando al nodo irrisolto duna natura madre e matrigna
con la quale confrontarsi senza le distorcenti griglie della razionalità.
Non è dato sapere cosa Giuseppe Fell ci riservi per il futuro, se perseveranza in questa
scelta o nuove discontinuità; ma è certo che, sapendo resistere alle lusinghe del
mercato ed insistendo nelle sue alchimie sperimentali, egli saprà ancora sorprenderci con
convincenti prove di valentia pittorica.
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