Complesso Monumentale di Sant'Anna

Via Sant'Anna 21 - 90133 Palermo

 

 
 
ANTONINO LETO, Tra l’epopea dei Florio e la luce di Capri
 
 
Nel catalogo della mostra IL SECONDO ‘800 ITALIANO, Le poetiche del vero – tenutasi al Palazzo Reale di Milano nel 1988 e curata da Renato Barilli – Paolo Stivani (nel suo saggio intitolato Il trionfo del vero nell’Italia postunitaria) annoverava Antonino Leto fra i pittori napoletani. Una svista, forse? O, più semplicemente, un classico caso di snobismo nei confronti della Sicilia e della sua produzione pittorica?
Tutto ciò insieme, molto probabilmente. Ma non solo. Certo è – e non è un caso – che la disamina della pittura italiana del secondo ‘800 in quella mostra non andava più a sud di Napoli e che dei pittori siciliani più rilevanti di quel periodo, al di fuori di Leto (comunque non presente in esposizione), nessun altro per l’appunto veniva citato in catalogo. Nessun riferimento a Francesco Lojacono né tanto meno a Michele Catti né – ancor meno – ai loro svariati allievi ed emuli. Damnatio memoriae per sottovalutazione o solamente un approccio critico molto severo, tendente a considerare i siciliani dei minori irrilevanti.
C’è da chiedersi però – in tutta onestà – se questo atteggiamento, in passato così diffuso fra critici e storici dell’arte non insulari, sia stato oggettivamente del tutto ingiustificato o se invece vi fosse (e continui ad esservi) un qualche fondamento ad alimentarlo e sostenerlo. La mostra in atto alla GAM di Palermo – visibile fino al 10 di febbraio –, dedicata proprio ad Antonino Leto, costituisce pertanto un’imperdibile occasione per distinguere i legittimi giudizi dagli eventuali pregiudizi, e quindi per condurre una dovuta ed accurata analisi ed un ampio ripensamento dell’effettivo ruolo e del reale valore avuti dalla pittura siciliana fra la fine dello ‘800 e gli inizi del ‘900. ANTONINO LETO, Tra l’epopea dei Florio e la luce di Capri è senza dubbio una esposizione ricca ed esaustiva, in grado di consentire ai visitatori (ed ovviamente agli studiosi) di ricostruire puntualmente il percorso artistico del pittore monrealese e di effettuare un’appropriata disamina di quella intensa stagione delle arti visive isolane. Arti visive connotate dall’incondizionata adesione alle poetiche del vero e – senza alcun ombra – contraddistinte da palese perizia e strepitoso virtuosismo, e tuttavia mai del tutto calate in maniera convincente nel vorticoso flusso della contemporaneità.
 
Accantonando infatti l’ottica da <<ars gratia artis>> ed adottando piuttosto un approccio di tipo comparato (e quindi affiancando idealmente i dipinti del Nostro a quelli dei suoi contemporanei italiani ed europei), se ne ricava in effetti una inevitabile sensazione di perifericità ed anche di autolimitazione in ambiti tematici di solo parziale attualità. Laddove – tanto in Italia, quanto in Europa – le arti visive si andavano calando totalmente nel fiume straripante della quotidianità, trattando – senza inibizioni, autocensure o infingimenti – tematiche scabrose ed urticanti, correlate soprattutto all’impetuoso evolversi della società in ambito metropolitano, in Sicilia purtroppo – e Leto ce ne dà un’ampia conferma – si riscontra solo un brulicare di paesaggi e di vedute (seppur di eccelsa resa visuale) e di edulcorate raffigurazioni di pastorelli, pescatori e contadini più o meno rosei e rubicondi. Dagli impressionisti ai post-impressionisti, dai macchiaioli ai coevi pittori lombardi, dai russi (Repin fra tutti) agli inglesi (Sickert) od ai belgi (Ensor) – e tanti altri esempi si potrebbero citare – è infatti tutto un susseguirsi di dipinti animati da tematiche sociali o da scavo intrapsichico, e comunque sviluppati con un taglio narrativo decisamente esplicito ed – a tratti – anche duro ed impietoso. Scene di vita quotidiana e lavorativa, descrizioni per nulla edificanti del mondo dei locali notturni e dei bordelli, situazioni di marginalità e lotte politiche sono al centro del racconto per immagini dei principali artisti italiani ed europei, mentre in Sicilia il focus è quasi tutto incentrato – come detto – sul paesaggio e la veduta, con ben poche divagazioni (e sempre abbastanza “inibite”) di carattere sociale o psicologico. Certo, anche altrove si pratica la pittura di paesaggio, ma sempre con un occhio assai attento alla sperimentazione di tecniche e linguaggi (impressionisti e macchiaioli in primis) e in ogni caso non concentrandosi esclusivamente su una strepitosa mimesi del dato di natura, ma elevando gli scenari paesaggistici a metafora compiuta di una complessa situazione esistenziale (ad esempio la Maremma dei macchiaioli che è specchio della durezza della vita di chi vi opera o la “wilderness” degli americani nella quale si riflette tutta la difficoltà dello slancio pionieristico).
 
Non vi è dubbio che Leto (ed analogo discorso si può fare per Catti e Lojacono) abbia avuto una incommensurabile capacità di tradurre sulla tela anche la più minima vibrazione luministica e cromatica della natura insulare (e non solo), distillandone – con non comune empatia – il concentrato emozionale ed affettivo. Un’attitudine – questa –  pienamente dispiegata dal pittore monrealese sin dagli esordi ancora intrisi di “verismo palizziano”  (La bufera  del 1870, così simile nella sua mimetica precisione a Vento in montagna di Francesco Lojacono del 1872) ed affinata in un progressivo continuum attraverso le più libere suggestioni mutuate dalla scuola di Resina, dai macchiaioli e dagli impressionisti (le varie vedute del Vesuvio dei primi anni ’70 dell’Ottocento, la “fattoriana” Strada polverosa del 1875-1877 e le divagazioni “à la page” realizzate sulla Senna alla fine degli anni ’70, col loro più sciolto andamento delle stesure), fino agli smaglianti e maturi esiti capresi (Case bianche grande marina di Capri, Casa di Anacapri, Capri, Pizzolungo a Capri, Maison a Capri, tutte tele intrise di un luminismo intenso e penetrante, realizzate a partire dagli anni ’80) e sempre operando con una cifra stilistica altamente personale, improntata a un’indiscussa capacità di irretire l’osservatore e di condurlo in una dimensione ammaliante di splendore naturale. E ciò non di meno, la sistematica assenza d’un adeguato taglio sociologico e psicologico nella trattazione della figura umana – maxime nelle raffigurazioni di lavoratori – ha finito con l’attutire le enormi potenzialità di racconto della sua pittura, determinando quel relegamento in un ambito di minorità storico-artistica cui precedentemente si alludeva. Quanto affermato da Stefano Bosi nel suo saggio in catalogo – I funari e il mare – ovvero che <<…la sua pittura non è documentaria, non ha la freddezza della indagine sociale…>>, benché inteso come apprezzamento, altro non fa – involontariamente – che inchiodare Leto ai suoi limiti analitici, al suo non voler – pur potendolo – entrare nel merito dei fatti, al suo preferire il Verismo alla cruda verità.
Per quanto dipinti con impareggiabile raffinatezza, i suoi funari, i suoi pescatori e i suoi tanti pastorelli appaiono infatti alquanto bozzettistici, soprattutto se affiancati – per fare qualche esempio illuminante – ai curvi parquettisti di Caillebotte o all’alienata camerierina delle Folies-Bergère dipinta da Manet o ai frusti spaccapietre di Courbet o ancora agli affaticati battellieri di Repin, ai proletari di Pellizza da Volpedo o agli svariati poveracci raffigurati da Morbelli.
Se si pensa a quali erano le reali condizioni delle classi subalterne nella nostra “felix insula” (e in fondo nel resto dell’Italia e dell’Europa) in quel periodo – e basterebbe a tal proposito dare uno sguardo all’impietosa relazione stilata da Franchetti e Sonnino subito dopo l’unità d’Italia – diventa giocoforza ridimensionare la effettiva capacità di impatto visuale della pittura di Antonino Leto (e dei suoi colleghi conterranei), così giustificando la marginalità cui egli è stato relegato nell’ambito del complessivo scenario artistico di fine ‘800 ed inizio ‘900.
Ciò è quanto decreta, senza volerlo, la mostra curata da Luisa Martorelli ed Antonella Purpura: ovvero che uno dei grandi talenti della pittura italiana ed europea fra XIX e XX secolo non riuscì mai a toccare pienamente quell’acme di espressività che lo avrebbe certamente consacrato fra i più grandi del suo tempo, in questo indubbiamente zavorrato – attenuante generica ma non assoluzione – da quel conservatorismo estetico delle èlites committenti che agì sempre da fattore limitante e freno inibitore.  
 
Salvo Ferlito - febbraio 2019
 
 
 
ICONS
I magnificenti scatti di Steve McCurry in mostra a Palermo
 
 
E’ sufficiente accedere alla prima sala dell’esposizione (alla GAM di Palermo), per constatare di quanto la fotografia – e nello specifico quella di Steve McCurry – sia profondamente debitrice della pittura. La sequenza di ritratti ivi schierata costituisce infatti un autentico omaggio alla migliore ritrattistica d’ogni tempo, con una evidente e particolare attenzione – a ben vedere – a quella quattro-cinquecentesca di area fiamminga ed italiana. Come non pensare al fantastico e paradigmatico Uomo dal turbante rosso di Jan van Eyck, guardando la foto dell’indiano – anch’egli col turbante, ma verde – scattata a Srinagar, in Kashmir, nel 1995? E come non andar con la mente ai raffinati e melancolici personaggi impareggiabilmente effigiati da Lorenzo Lotto, contemplando l’assorta e meditativa figura di Aung San Suu Kyi, immortalata durante il suo “confino casalingo” a Rangoon, in Birmania, sempre nel 1995? La millimetrica attenzione per gli assetti compositivi, l’elegante gioco di luci ed ombre, la caleidoscopica ricercatezza delle orchestrazioni cromatiche, il sagace gusto per una narrazione ricca di rimandi e sottintesi, tutto – in definitiva – fa di McCurry un “pittore assolutamente classico”, seppur non dotato di tele, colori e pennelli, ma di una strumentazione aggiornata alle “diavolerie” della tecnologia fotografica contemporanea.
Né si discosta da tutto ciò la fotografia di paesaggio e di veduta (Herat, Afghanistan, 1992; Mandalay, Burma, 1994; Agra, India, 1999; Inle Lake, Burma, 2011), col suo assoluto incanto visuale, o quella tendenzialmente orientata verso tematiche socio-etno-antropologiche (Rajasthan, India, 1983; Bylakuppe, India, 2001; Hunan Province, Cina, 2004; Etiopia, 2012), con la peculiare inclinazione per soggetti decisamente insoliti ed eccentrici.

 

Che si tratti di immagini incantate e piene di mistero o al contrario drammatiche e cariche di pathos, di scatti che descrivono gli aspetti abitualmente lieti o sgradevoli della quotidianità, le foto di Steve McCurry si configurano dunque come delle incredibili costruzioni visuali, in grado di attestare – con inoppugnabile chiarezza – la analogia progettuale esistente con tanta grande pittura dei secoli trascorsi. In tal senso – in questa estrema artificiosità dei suoi scatti fotografici – è possibile mettere a nudo sia la maestosa grandezza della sua arte di fotografo che – ambi valentemente – tutti i limiti di un operare che ridimensiona – se non addirittura annulla – quel che dovrebbe essere il carattere fondante e prioritario della fotografia, ovvero l’immediatezza dello sguardo con cui cristallizzare in un “clic” l’ineffabile ed inesprimibile fascinazione dello hic et nunc.
Premesso che il connotato della ponderata costruzione delle immagini è – come detto – presente in tutta la fotografia da sempre, tuttavia a quella, pur splendida e magnificente di McCurry, sembrano mancare proprio (e in particolar modo) tanto la felice spontaneità, quanto la casuale estemporaneità che hanno caratterizzato l’operato di altri arcinoti fotografi del ‘900 quali – per fare qualche esempio – gli osannati Cartier Bresson e Robert Capa o – si parva licet, un po’ di campanilismo – i nostri Ferdinando Scianna ed Enzo Sellerio. L’aspetto cronachistico e il ruolo di testimonianza storica sono senza dubbio presenti anche nell’agire del fotografo americano – nel pieno rispetto di quello “spirito del tempo” che ogni vero gesto artistico deve recare in sé – e ciò non di meno il virtuoso magnetismo della sua tecnica finisce sempre per prevalere sulla rilevanza della narrazione, diluendo le componenti emozionali ed affettive in uno splendore estetizzante che però è anche suadentemente ipnotico ed anestetizzante.
Un grande “manierista” – dunque – Steve McCurry, artefice di autentici gioielli visuali, in cui tuttavia il caleidoscopico e fascinoso bagliore della forma prende costantemente il sopravvento sulla più profonda densità dei reali contenuti.
La mostra, curata da Biba Giacchetti, sarà ancora visibile alla Galleria d’arte moderna di Palermo (via Sant’Anna 21) fino al 19 febbraio 2017, dal martedì alla domenica, dalle 9,30 alle 18,30, con un prolungamento serale fino alle 22,30 il venerdì.
 
 
                                                                           Salvo Ferlito     
 
 
 

 

 
Venezia e il secolo della Biennale
Dipinti, vetri e fotografie della Collezione della Fondazione di Venezia
 

 

Può una mostra essere abbastanza esauriente senza essere pletorica e ridondante? Può consentire un’identificazione sufficientemente puntuale dello “spirito dei tempi” senza incorrere in eccessi “intellettualistici” e “pseudoscientifici” di ricostruzione storica?
Ebbene, talvolta può.
E’ il caso di Venezia e il secolo della Biennale, allestita alla Galleria d’Arte Moderna di Palermo, ove sarà visibile fino al 10 febbraio.
Un’esposizione agile e di facile leggibilità, che, attraverso una quarantina di dipinti, una ventina di vetri muranesi e un buon numero di fotografie, riesce ad offrire ai visitatori una panoramica congruamente indicativa sul ruolo giocato dalla grande manifestazione veneziana, consentendo un’efficace ricostruzione del susseguirsi (ma anche dell’affiancarsi, sovrapporsi e confliggere) dei movimenti e delle correnti che hanno dominato gli ultimi cent’anni.
E’ infatti bastevole dare uno sguardo ai paesaggi e alle vedute di fine ‘800 e di primo ‘900, per cogliere appieno, sin dall’incipit del percorso espositivo, quella continua oscillazione fra programmatiche fughe in avanti e insistiti richiami alla tradizione che ha contraddistinto senza posa il secolo trascorso. Con efficace prossimità, ecco allora il denso e sintetico andamento della stesura di Arturo Tosi (nel suo tutt’altro che veristico Mattino a Fiorano del 1895) o l’incandescenza simil-Fauve del colorismo di Gino Rossi (in San Francesco nel deserto del 1912) contrapporsi bruscamente agli echi settecenteschi che caratterizzano le riprese “canalettiane” di Guglielmo ed Emma Ciardi (rispettivamente in La città del sogno del 1909 e in Luce di maggio del 1920), a dimostrazione del confronto serrato fra linguaggi e posizioni più o meno ossequiosi o insofferenti verso il retaggio del passato. Similmente, nell’incedere più o meno convulso di svolte palingenetiche e ritorni all’ordine (di cui l’allestimento testimonia), l’approccio surrealistico e psichicamente “automatico” di Alberto Martini (nella paradigmatica Testa ipnotica del 1929) pare collidere con il plastico e vigoroso recupero della “sana” tradizione italiana di Cagnaccio di San Pietro (nella tipicamente novecentista Altana del 1926), così come il quasi astratto geometrismo emozionale di Saetti (in Natura morta con disco bianco del 1961) si confronta in termini assai dialettici con i ripiegati intimismi figurativi di de Pisis e di Carena (in Natura morta con pesci del 1945 e in Natura morta del 1954), a conferma d’una difformità di ottiche e premesse fra loro assai distanti e non proprio conciliabili, pur nell’evidenza d’una pressoché totale contemporaneità.
E ancora, l’esibito impegno sociale della sintetica e spigolosa figurazione di Zigaina (nel Bracciante “post-cubista” del 1950) sembra dissolversi dapprima nelle esperienze spazialiste di Guidi (Figura nello spazio del 1954) e nelle inquietanti fantasmagorie di Music (Collina dalmata del 1966), per poi venire definitivamente dilavato dal progressivo incedere di quell’individualistico Informale di cui Tancredi (Composizione del 1952), Bacci (Avvenimento 381 del 1962), Vedova (De America del 1977), Morandis (Immagine in grigio del 1989) o Santomaso (Bleu Symphony del 1989) sono stati convinti vessilliferi e inesausti promotori.
Il tutto degnamente completato, oltre che da una puntuale ricognizione fotografica dei vari protagonisti della kermesse veneziana, anche da una raffinatissima selezione di vetri di noti maestri muranesi (Venini, Barovier, Toso ed altri), cui per decenni (fino al 1972) la Biennale offrì un’importante ribalta espositiva, permettendo quell’osmosi proficua fra arti maggiori e minori, capace di annullare ogni fittizia distinzione fra le stesse e purtroppo cancellata in nome dei troppi concettualismi dell’ultimo trentennio.
  
                                                                                                         vai alla scheda personale di Salvo Ferlito

In alto : "Nonna" - Umberto Boccioni - pastello su carta cm.116 x 71
In basso : "L'alzana" - Cagnaccio di San Pietro - olio su tela cm.200 x 173
 
 
 
LE MERAVIGLIE DEL CODICE RESTA
UN’IMPAREGGIABILE RACCOLTA DI OPERE GRAFICHE QUATTRO-CINQUE-SEICENTESCHE RACCONTA L’EVOLVERSI DELLE ARTI FIGURATIVE DAL RINASCIMENTO AL PRIMO BAROCCO
 
Ci sono mostre davvero in grado, come ben poche, di restituire con dovizia e precisione la temperie e lo spirito d’una intera epoca. E ciò, semplicemente ricorrendo all’esposizione di opere solo in apparenza “minori”, ma realmente capaci di consentire una giusta lettura e una corretta collocazione del pensare e dell’agire degli artisti che le hanno realizzate.
Ad esemplare in maniera paradigmatica quanto testé detto giunge la fenomenale raccolta di disegni del cosiddetto Codice Resta, una cui scelta è attualmente (e fino al 6 maggio) visibile nelle sale della Civica Galleria d’Arte Moderna, al Complesso di Sant’Anna.
Si tratta d’un rilevante corpus di disegni ed incisioni (risalenti al periodo intercorrente fra la fine del ‘400 ed il pieno ‘600), strutturato con un criterio tassonomico preposto a ricostruire fedelmente l’evolversi delle arti figurative a partire dalla riscoperta quattrocentesca dell’antichità classica, passando poi per la completa assimilazione della “lectio” greco-romana, fino a giungere alle estenuate raffinatezze manieristiche ed all’incipit del Barocco. Un ensemble di piccoli, ma eccelsi capolavori grafici, raccolti dal frate oratoriano Resta (nel corso del Seicento) con quel piglio, al contempo collezionistico e pre-scientifico, che fu tipico dei tempi e che, contraddistinguendo lo spirito delle wunderkammer (le “camere delle meraviglie” ove allora confluivano “mirabilia” d’ogni genere),  contribuì a determinare le premesse e i prodromi d’ogni futura classificazione museale.
Incollate sulle pagine d’un anonimo “album” dell’epoca (il che rende inadeguato il pur fascinoso appellativo di “codice”, proprio invece dei libri illustrati da miniature direttamente dipinte sui fogli, rendendo invece più pertinente quello di Libro d’Arabeschi), corredate da didascalie attributive vergate a mano (con qualche fantasia) dallo stesso Resta, queste mirabili opere d’arte costituiscono non solo un’impareggiabile fonte d’informazione storico-artistica, ma primariamente un’imperdibile e spettacolare occasione di raffinato godimento estetico.
Basti qui ricordare i nomi di alcuni accertati artefici di tali disegni (Giulio Romano, Perin del Vaga, Francesco Salviati, Federico Zuccari, Pietro da Cortona, tanto per fare qualche “illuminante” esempio), nonché protagonisti assoluti delle vicende artistiche dell’epoca, per comprendere appieno l’inestimabile valore e l’indiscussa rilevanza di questa vasta collezione e dell’attuale mostra che ne è derivata.
Sarebbe però erroneo ritenere che tale esposizione riguardi soltanto i contenuti più tipici delle arti grafiche (quali la figura ed il paesaggio), poiché essa invece privilegia – ed in maniera assai significativa – gli aspetti dello studio e dell’imitazione del bagaglio decorativo della classicità, rivelando e rimarcando il prioritario ed inderogabile ruolo giocato dalla progettualità (in ambito architettonico e relativamente alle arti applicate) nel fare artistico dei tempi.
Già ben evidenti in area toscana, umbra e lombarda durante il ’400, gli spunti mutuati dall’antichità classica diventano per l’appunto un oggetto di insistita indagine ed attenta rappresentazione soprattutto nella Roma del primo ‘500, allorché gli scavi più o meno casuali determinano il riaffioramento di disperse vestigia e di ignoti capolavori dell’arte greco-romana e la conseguente nascita d’un primordio di proto-archeologia. Il ritrovamento del Laocoonte e ancor più la scoperta della neroniana Domus Aurea danno infatti un impulso fondante ed irreversibile all’attività ed al linguaggio degli artisti presenti all’epoca nell’Urbe, a partire da quelli del “divino” Raffaello (non a caso incaricato da Leone X di operare un’attenta e sistematica ricognizione delle rovine romane della città) e della folta cerchia dei suoi fidati allievi e collaboratori. Non può dunque sorprendere, che in questo nutrito corpus di disegni si ritrovi uno schizzo autografo di Giulio Romano (il primo degli allievi dell’urbinate) raffigurante con somma precisione una Base di colonna ionica, né che vi si reperisca una molteplicità di particolareggiate raffigurazioni di “grottesche” (cioè di quelle decorazioni, a stucco o dipinte, presenti negli ambienti interrati della reggia neroniana, accessibili, a mo’ di grotte, soltanto per mezzo di buchi e di cunicoli), eseguite da pittori quali Perin del Vaga (anch’egli della bottega raffaelliana), Luzio Luzzi (suo diretto discepolo) o Federico Zuccari (artefice dei più complessi sviluppi manieristici ben visibili nei progetti per gli affreschi dei soffitti di villa d’Este), che ne favorirono l’irrefrenabile successo e l’ubiquitaria diffusione non solo nella Roma papalina, ma praticamente in tutta Europa.
Come già detto, i disegni del Codice Resta non si limitano a una ricognizione delle ripercussioni “antiquariali” sulla pittura e l’architettura cinquecentesche, ma danno anche una probante testimonianza di quella complessa multidisciplinarità che era una prassi abituale per gli artisti del passato (almeno fino al ’700), contraddistinguendone la qualitativa fabrilità e sottolineandone l’impareggiabile maestria in molti settori delle arti sia maggiori che minori. Non solo, dunque, accurati schizzi preparatori per opere pittoriche ed architettoniche, ma anche per armature, argenti, arazzi, oggetti ed apparati vari (inclusi quelli liturgici).
Così è possibile imbattersi in uno spettacolare Studio di staffa della cerchia di Perin del Vaga o in uno Studio di due specchi di sapore “etruschizzante” del solito Luzio Luzzi o ancora in un elegantissimo Studio d’anfora e in un ricercato Studio di Calice di mano del Salviati, ad inequivoca conferma del pregnante influsso esercitato dal dilagante gusto antiquariale e soprattutto dell’inesistenza di quell’arbitraria e forzata linea di discrimine fra le arti ritenute più importanti e rappresentative (disegno, incisione, pittura, scultura e architettura) e tutte le altre (relegate in un ambito più “meccanicamente” artigianale), tracciata successivamente in nome d’un iperspecialismo tanto miope quanto castratorio.
Sempre al suddetto interesse per le maestose vestigia della Roma repubblicana ed imperiale (sopravvissute alle irriguardose distruzioni medievali o uscite da poco da un oblio millenario) va inoltre ricondotta anche la nascita di un nuovo genere, per l’esattezza quello vedutistico, destinato di lì a poco (anche in virtù del determinante apporto dei viaggiatori del Grand Tour) a divenire fra i più frequentati e rilevanti dei secoli a venire. Uno sviluppo delle arti figurative, quest’ultimo, di cui dà esauriente contezza la rara ed ampia  serie di diciannove disegni (e di altrettante incisioni da essi derivate) realizzata dal francese Etienne Du Pérac nella seconda metà del ‘500 ed annoverata fra i prototipi ideali di quel “vedutismo con rovine” che tanto successo ebbe fra Sei e Settecento.
Di non minor significatività, infine, la sequenza di paesaggi collezionati dal Resta (qualcuno di scuola olandese, i restanti per lo più di mano italiana), la cui quasi pre-romantica bellezza, intrisa di spirito panico, testimonia dell’improvvisa insorgenza di quest’ulteriore genere pittorico (di fatto inaugurato da Annibale Carracci in alcuni sopraporta di palazzo Doria Pamphili), preposto ad avere una quasi subitanea e sempre maggiore diffusione (dagli esiti d’oltralpe del Lorenese a quelli neerlandesi di van Ruysdael) ed a divenire in breve tempo uno degli specchi più fedeli sui quali proiettare i moti e le inquietudini riposti nella psiche.

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