Complesso Monumentale di Sant'Anna
Via Sant'Anna 21 - 90133
Palermo |
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- ANTONINO
LETO, Tra l’epopea dei Florio e la luce di Capri
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- Nel
catalogo della mostra IL SECONDO ‘800 ITALIANO, Le poetiche del vero – tenutasi al
Palazzo Reale di Milano nel 1988 e curata da Renato Barilli –
Paolo Stivani (nel suo saggio intitolato Il
trionfo del vero nell’Italia postunitaria) annoverava Antonino
Leto fra i pittori napoletani. Una svista, forse? O, più
semplicemente, un classico caso di snobismo nei confronti della
Sicilia e della sua produzione pittorica?
- Tutto
ciò insieme, molto probabilmente. Ma non solo. Certo è – e non
è un caso – che la disamina della pittura italiana del secondo
‘800 in quella mostra non andava più a sud di Napoli e che dei
pittori siciliani più rilevanti di quel periodo, al di fuori di
Leto (comunque non presente in esposizione), nessun altro per
l’appunto veniva citato in catalogo. Nessun riferimento a
Francesco Lojacono né tanto meno a Michele Catti né – ancor meno
– ai loro svariati allievi ed emuli. Damnatio
memoriae per sottovalutazione o solamente un approccio critico
molto severo, tendente a considerare i siciliani dei minori
irrilevanti.
- C’è
da chiedersi però – in tutta onestà – se questo atteggiamento,
in passato così diffuso fra critici e storici dell’arte non
insulari, sia stato oggettivamente del tutto ingiustificato o se
invece vi fosse (e continui ad esservi) un qualche fondamento ad
alimentarlo e sostenerlo. La
mostra in atto alla GAM di Palermo – visibile fino al 10 di
febbraio –, dedicata
proprio ad Antonino Leto, costituisce pertanto un’imperdibile
occasione per distinguere i legittimi giudizi dagli eventuali
pregiudizi, e quindi per condurre una dovuta ed accurata analisi ed
un ampio ripensamento dell’effettivo ruolo e del reale valore
avuti dalla pittura siciliana fra la fine dello ‘800 e gli inizi
del ‘900. ANTONINO LETO, Tra l’epopea dei Florio e la luce di Capri è
senza dubbio una esposizione ricca ed esaustiva, in grado di
consentire ai visitatori (ed ovviamente agli studiosi) di
ricostruire puntualmente il percorso artistico del pittore
monrealese e di effettuare un’appropriata disamina di quella
intensa stagione delle arti visive isolane. Arti visive connotate
dall’incondizionata adesione alle poetiche del vero e – senza
alcun ombra – contraddistinte da palese perizia e strepitoso
virtuosismo, e tuttavia mai del tutto calate in maniera convincente
nel vorticoso flusso della contemporaneità.
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- Accantonando
infatti l’ottica da <<ars
gratia artis>> ed adottando piuttosto un approccio di tipo
comparato (e quindi affiancando idealmente i dipinti del Nostro a
quelli dei suoi contemporanei italiani ed europei), se ne ricava in
effetti una inevitabile sensazione di perifericità ed anche di
autolimitazione in ambiti tematici di solo parziale attualità.
Laddove – tanto in Italia, quanto in Europa – le arti visive si
andavano calando totalmente nel fiume straripante della quotidianità,
trattando – senza inibizioni, autocensure o infingimenti –
tematiche scabrose ed urticanti, correlate soprattutto
all’impetuoso evolversi della società in ambito metropolitano, in
Sicilia purtroppo – e Leto ce ne dà un’ampia conferma – si
riscontra solo un brulicare di paesaggi e di vedute (seppur di
eccelsa resa visuale) e di edulcorate raffigurazioni di pastorelli,
pescatori e contadini più o meno rosei e rubicondi. Dagli
impressionisti ai post-impressionisti, dai macchiaioli ai coevi
pittori lombardi, dai russi (Repin fra tutti) agli inglesi (Sickert)
od ai belgi (Ensor) – e tanti altri esempi si potrebbero citare
– è infatti tutto un susseguirsi di dipinti animati da tematiche
sociali o da scavo intrapsichico, e comunque sviluppati con un
taglio narrativo decisamente esplicito ed – a tratti – anche
duro ed impietoso. Scene di vita quotidiana e lavorativa,
descrizioni per nulla edificanti del mondo dei locali notturni e dei
bordelli, situazioni di marginalità e lotte politiche sono al
centro del racconto per immagini dei principali artisti italiani ed
europei, mentre in Sicilia il focus
è quasi tutto incentrato – come detto – sul paesaggio e la
veduta, con ben poche divagazioni (e sempre abbastanza
“inibite”) di carattere sociale o psicologico. Certo, anche
altrove si pratica la pittura di paesaggio, ma sempre con un occhio
assai attento alla sperimentazione di tecniche e linguaggi
(impressionisti e macchiaioli in
primis) e in ogni caso non concentrandosi esclusivamente su una
strepitosa mimesi del dato di natura, ma elevando gli scenari
paesaggistici a metafora compiuta di una complessa situazione
esistenziale (ad esempio la Maremma dei macchiaioli che è specchio
della durezza della vita di chi vi opera o la “wilderness” degli
americani nella quale si riflette tutta la difficoltà dello slancio
pionieristico).
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- Non
vi è dubbio che Leto (ed analogo discorso si può fare per Catti e
Lojacono) abbia avuto una incommensurabile capacità di tradurre
sulla tela anche la più minima vibrazione luministica e cromatica
della natura insulare (e non solo), distillandone – con non comune
empatia – il concentrato emozionale ed affettivo. Un’attitudine
– questa – pienamente
dispiegata dal pittore monrealese sin dagli esordi ancora intrisi di
“verismo palizziano” (La
bufera del 1870,
così simile nella sua mimetica precisione a Vento in montagna di Francesco Lojacono del 1872) ed affinata in
un progressivo continuum
attraverso le più libere suggestioni mutuate dalla scuola di
Resina, dai macchiaioli e dagli impressionisti (le
varie vedute del Vesuvio dei primi anni ’70 dell’Ottocento, la
“fattoriana” Strada polverosa del
1875-1877 e le divagazioni
“à la page”
realizzate sulla Senna alla fine degli anni
’70, col loro più sciolto andamento delle stesure), fino agli
smaglianti e maturi esiti capresi (Case
bianche grande marina di Capri, Casa di Anacapri, Capri, Pizzolungo
a Capri, Maison a Capri, tutte tele intrise di un luminismo intenso e
penetrante, realizzate a partire dagli anni ’80) e sempre operando
con una cifra stilistica altamente personale, improntata a
un’indiscussa capacità di irretire l’osservatore e di condurlo
in una dimensione ammaliante di splendore naturale. E ciò non di
meno, la sistematica assenza d’un adeguato taglio sociologico e
psicologico nella trattazione della figura umana – maxime
nelle raffigurazioni di lavoratori – ha finito con l’attutire le
enormi potenzialità di racconto della sua pittura, determinando
quel relegamento in un ambito di minorità storico-artistica cui
precedentemente si alludeva. Quanto affermato da Stefano Bosi nel
suo saggio in catalogo – I
funari e il mare – ovvero che <<…la sua pittura
non è documentaria, non ha la freddezza della indagine
sociale…>>, benché inteso come apprezzamento, altro non fa
– involontariamente – che inchiodare Leto ai suoi limiti
analitici, al suo non voler – pur potendolo – entrare nel merito
dei fatti, al suo preferire il Verismo alla cruda verità.
- Per
quanto dipinti con impareggiabile raffinatezza, i suoi funari, i
suoi pescatori e i suoi tanti pastorelli appaiono infatti alquanto
bozzettistici, soprattutto se affiancati – per fare qualche
esempio illuminante – ai curvi parquettisti di Caillebotte o
all’alienata camerierina delle Folies-Bergère dipinta da Manet o
ai frusti spaccapietre di Courbet o ancora agli affaticati
battellieri di Repin, ai proletari di Pellizza da Volpedo o agli
svariati poveracci raffigurati da Morbelli.
- Se
si pensa a quali erano le reali condizioni delle classi subalterne
nella nostra “felix insula”
(e in fondo nel resto dell’Italia e dell’Europa) in quel periodo
– e basterebbe a tal proposito dare uno sguardo all’impietosa
relazione stilata da Franchetti e Sonnino subito dopo l’unità
d’Italia – diventa giocoforza ridimensionare la effettiva
capacità di impatto visuale della pittura di Antonino Leto (e dei
suoi colleghi conterranei), così giustificando la marginalità cui
egli è stato relegato nell’ambito del complessivo scenario
artistico di fine ‘800 ed inizio ‘900.
- Ciò
è quanto decreta, senza volerlo, la mostra curata da Luisa
Martorelli ed Antonella Purpura: ovvero che uno dei grandi talenti
della pittura italiana ed europea fra XIX e XX secolo non riuscì
mai a toccare pienamente quell’acme di espressività che lo
avrebbe certamente consacrato fra i più grandi del suo tempo, in
questo indubbiamente zavorrato – attenuante generica ma non
assoluzione – da quel conservatorismo estetico delle èlites
committenti che agì sempre da fattore limitante e freno inibitore.
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- Salvo Ferlito
- febbraio 2019
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- ICONS
- I
magnificenti scatti di Steve McCurry in mostra a Palermo
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- E’
sufficiente accedere alla prima sala dell’esposizione (alla GAM di
Palermo), per constatare di quanto la fotografia – e nello
specifico quella di Steve McCurry – sia profondamente debitrice della pittura. La
sequenza di ritratti ivi schierata costituisce infatti un autentico
omaggio alla migliore ritrattistica d’ogni tempo, con una evidente
e particolare attenzione – a ben vedere – a quella
quattro-cinquecentesca di area fiamminga ed italiana. Come non
pensare al fantastico e paradigmatico Uomo
dal turbante rosso di Jan van Eyck, guardando la foto
dell’indiano – anch’egli col turbante, ma verde – scattata a
Srinagar, in Kashmir, nel 1995? E come non andar con la mente ai
raffinati e melancolici personaggi impareggiabilmente effigiati da
Lorenzo Lotto, contemplando l’assorta e meditativa figura di Aung
San Suu Kyi,
immortalata durante il suo “confino casalingo” a Rangoon, in
Birmania, sempre nel 1995? La millimetrica attenzione per gli
assetti compositivi, l’elegante gioco di luci ed ombre, la
caleidoscopica ricercatezza delle orchestrazioni cromatiche, il
sagace gusto per una narrazione ricca di rimandi e sottintesi, tutto
– in definitiva – fa di McCurry un “pittore assolutamente
classico”, seppur non dotato di tele, colori e pennelli, ma di una
strumentazione aggiornata alle “diavolerie” della tecnologia
fotografica contemporanea.
- Né
si discosta da tutto ciò la fotografia di paesaggio e di veduta (Herat, Afghanistan,
1992; Mandalay, Burma,
1994; Agra, India,
1999; Inle Lake, Burma,
2011), col suo assoluto
incanto visuale, o quella tendenzialmente orientata verso tematiche
socio-etno-antropologiche (Rajasthan,
India, 1983;
Bylakuppe, India,
2001; Hunan Province, Cina,
2004; Etiopia, 2012),
con la peculiare inclinazione per soggetti decisamente insoliti ed
eccentrici.
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- Che
si tratti di immagini incantate e piene di mistero o al contrario
drammatiche e cariche di pathos, di scatti che descrivono gli
aspetti abitualmente lieti o sgradevoli della quotidianità, le foto
di Steve McCurry si configurano dunque come delle incredibili
costruzioni visuali, in grado di attestare – con inoppugnabile
chiarezza – la analogia progettuale esistente con tanta grande
pittura dei secoli trascorsi. In tal senso – in questa estrema
artificiosità dei suoi scatti fotografici – è possibile mettere
a nudo sia la maestosa grandezza della sua arte di fotografo che –
ambi valentemente – tutti i limiti di un operare che ridimensiona
– se non addirittura annulla – quel che dovrebbe essere il
carattere fondante e prioritario della fotografia, ovvero
l’immediatezza dello sguardo con cui cristallizzare in un
“clic” l’ineffabile ed inesprimibile fascinazione dello hic
et nunc.
- Premesso
che il connotato della ponderata costruzione delle immagini è –
come detto – presente in tutta la fotografia da sempre, tuttavia a
quella, pur splendida e magnificente di McCurry, sembrano mancare
proprio (e in particolar modo) tanto la felice spontaneità, quanto
la casuale estemporaneità che hanno caratterizzato l’operato di
altri arcinoti fotografi del ‘900 quali – per fare qualche
esempio – gli osannati Cartier Bresson e Robert Capa o – si
parva licet, un po’ di campanilismo – i nostri Ferdinando
Scianna ed Enzo Sellerio. L’aspetto cronachistico e il ruolo di
testimonianza storica sono senza dubbio presenti anche nell’agire
del fotografo americano – nel pieno rispetto di quello “spirito
del tempo” che ogni vero gesto artistico deve recare in sé – e
ciò non di meno il virtuoso magnetismo della sua tecnica finisce
sempre per prevalere sulla rilevanza della narrazione, diluendo le
componenti emozionali ed affettive in uno splendore estetizzante che
però è anche suadentemente ipnotico ed anestetizzante.
- Un
grande “manierista” –
dunque – Steve McCurry,
artefice di autentici gioielli visuali, in cui tuttavia il
caleidoscopico e fascinoso bagliore della forma prende costantemente
il sopravvento sulla più profonda densità dei reali contenuti.
- La
mostra, curata da Biba Giacchetti, sarà ancora visibile alla
Galleria d’arte moderna di Palermo (via Sant’Anna 21) fino al 19
febbraio 2017, dal martedì alla domenica, dalle 9,30 alle 18,30,
con un prolungamento serale fino alle 22,30 il venerdì.
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Salvo Ferlito
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Venezia e il secolo
della Biennale
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Dipinti, vetri e fotografie
della Collezione della Fondazione di Venezia
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Può una mostra essere
abbastanza esauriente senza essere pletorica e ridondante? Può
consentire un’identificazione sufficientemente puntuale dello
“spirito dei tempi” senza incorrere in eccessi “intellettualistici”
e “pseudoscientifici” di ricostruzione storica?
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Ebbene, talvolta può.
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E’ il caso di
Venezia e il secolo della Biennale, allestita alla Galleria
d’Arte Moderna di Palermo, ove sarà visibile fino al 10 febbraio.
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Un’esposizione agile e
di facile leggibilità, che, attraverso una quarantina di dipinti,
una ventina di vetri muranesi e un buon numero di fotografie, riesce
ad offrire ai visitatori una panoramica congruamente indicativa sul
ruolo giocato dalla grande manifestazione veneziana, consentendo
un’efficace ricostruzione del susseguirsi (ma anche
dell’affiancarsi, sovrapporsi e confliggere) dei movimenti e delle
correnti che hanno dominato gli ultimi cent’anni.
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E’ infatti bastevole
dare uno sguardo ai paesaggi e alle vedute di fine ‘800 e di primo
‘900, per cogliere appieno, sin dall’incipit del percorso
espositivo, quella continua oscillazione fra programmatiche fughe in
avanti e insistiti richiami alla tradizione che ha contraddistinto
senza posa il secolo trascorso. Con efficace prossimità, ecco allora
il denso e sintetico andamento della stesura di Arturo Tosi (nel suo
tutt’altro che veristico Mattino a Fiorano del 1895) o
l’incandescenza simil-Fauve del colorismo di Gino Rossi (in San
Francesco nel deserto del 1912) contrapporsi bruscamente agli
echi settecenteschi che caratterizzano le riprese “canalettiane” di
Guglielmo ed Emma Ciardi (rispettivamente in La città del sogno
del 1909 e in Luce di maggio del 1920), a dimostrazione del
confronto serrato fra linguaggi e posizioni più o meno ossequiosi o
insofferenti verso il retaggio del passato. Similmente,
nell’incedere più o meno convulso di svolte palingenetiche e ritorni
all’ordine (di cui l’allestimento testimonia), l’approccio
surrealistico e psichicamente “automatico” di Alberto Martini (nella
paradigmatica Testa ipnotica del 1929) pare collidere con il
plastico e vigoroso recupero della “sana” tradizione italiana di
Cagnaccio di San Pietro (nella tipicamente novecentista Altana
del 1926), così come il quasi astratto geometrismo emozionale di
Saetti (in Natura morta con disco bianco del 1961) si
confronta in termini assai dialettici con i ripiegati intimismi
figurativi di de Pisis e di Carena (in Natura morta con pesci
del 1945 e in Natura morta del 1954), a conferma d’una
difformità di ottiche e premesse fra loro assai distanti e non
proprio conciliabili, pur nell’evidenza d’una pressoché totale
contemporaneità.
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E ancora, l’esibito
impegno sociale della sintetica e spigolosa figurazione di Zigaina
(nel Bracciante “post-cubista” del 1950) sembra dissolversi
dapprima nelle esperienze spazialiste di Guidi (Figura nello
spazio del 1954) e nelle inquietanti fantasmagorie di Music (Collina
dalmata del 1966), per poi venire definitivamente dilavato dal
progressivo incedere di quell’individualistico Informale di cui
Tancredi (Composizione del 1952), Bacci (Avvenimento 381
del 1962), Vedova (De America del 1977), Morandis (Immagine
in grigio del 1989) o Santomaso (Bleu Symphony del 1989)
sono stati convinti vessilliferi e inesausti promotori.
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Il tutto degnamente
completato, oltre che da una puntuale ricognizione fotografica dei
vari protagonisti della kermesse veneziana, anche da una
raffinatissima selezione di vetri di noti maestri muranesi (Venini,
Barovier, Toso ed altri), cui per decenni (fino al 1972) la Biennale
offrì un’importante ribalta espositiva, permettendo quell’osmosi
proficua fra arti maggiori e minori, capace di annullare ogni
fittizia distinzione fra le stesse e purtroppo cancellata in nome
dei troppi concettualismi dell’ultimo trentennio.
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- In alto :
"Nonna" - Umberto Boccioni - pastello su carta cm.116 x 71
- In basso :
"L'alzana" - Cagnaccio di San Pietro - olio su tela cm.200 x
173
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LE MERAVIGLIE DEL CODICE
RESTA
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UN’IMPAREGGIABILE
RACCOLTA DI OPERE GRAFICHE QUATTRO-CINQUE-SEICENTESCHE RACCONTA
L’EVOLVERSI DELLE ARTI FIGURATIVE DAL RINASCIMENTO AL PRIMO
BAROCCO
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Ci
sono mostre davvero in grado, come ben poche, di restituire con
dovizia e precisione la temperie e lo spirito d’una intera epoca. E
ciò, semplicemente ricorrendo all’esposizione di opere solo in
apparenza “minori”, ma realmente capaci di consentire una giusta
lettura e una corretta collocazione del pensare e dell’agire degli
artisti che le hanno realizzate.
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Ad esemplare in
maniera paradigmatica quanto testé detto giunge la fenomenale
raccolta di disegni del cosiddetto Codice Resta, una cui scelta è
attualmente (e fino al 6 maggio) visibile nelle sale della Civica
Galleria d’Arte Moderna, al Complesso di Sant’Anna.
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Si tratta d’un
rilevante corpus di disegni ed incisioni (risalenti al periodo
intercorrente fra la fine del ‘400 ed il pieno ‘600), strutturato
con un criterio tassonomico preposto a ricostruire fedelmente
l’evolversi delle arti figurative a partire dalla riscoperta
quattrocentesca dell’antichità classica, passando poi per la
completa assimilazione della “lectio” greco-romana, fino a giungere
alle estenuate raffinatezze manieristiche ed all’incipit del
Barocco. Un ensemble di piccoli, ma eccelsi capolavori grafici,
raccolti dal frate oratoriano Resta (nel corso del Seicento) con
quel piglio, al contempo collezionistico e pre-scientifico, che fu
tipico dei tempi e che, contraddistinguendo lo spirito delle
wunderkammer (le “camere delle meraviglie” ove allora confluivano
“mirabilia” d’ogni genere), contribuì a determinare le premesse e i
prodromi d’ogni futura classificazione museale.
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Incollate sulle pagine
d’un anonimo “album” dell’epoca (il che rende inadeguato il pur
fascinoso appellativo di “codice”, proprio invece dei libri
illustrati da miniature direttamente dipinte sui fogli, rendendo
invece più pertinente quello di Libro d’Arabeschi), corredate da
didascalie attributive vergate a mano (con qualche fantasia) dallo
stesso Resta, queste mirabili opere d’arte costituiscono non solo
un’impareggiabile fonte d’informazione storico-artistica, ma
primariamente un’imperdibile e spettacolare occasione di raffinato
godimento estetico.
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Basti qui ricordare i
nomi di alcuni accertati artefici di tali disegni (Giulio Romano,
Perin del Vaga, Francesco Salviati, Federico Zuccari, Pietro da
Cortona, tanto per fare qualche “illuminante” esempio), nonché
protagonisti assoluti delle vicende artistiche dell’epoca, per
comprendere appieno l’inestimabile valore e l’indiscussa rilevanza
di questa vasta collezione e dell’attuale mostra che ne è derivata.
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Sarebbe però erroneo
ritenere che tale esposizione riguardi soltanto i contenuti più
tipici delle arti grafiche (quali la figura ed il paesaggio), poiché
essa invece privilegia – ed in maniera assai significativa – gli
aspetti dello studio e dell’imitazione del bagaglio decorativo della
classicità, rivelando e rimarcando il prioritario ed inderogabile
ruolo giocato dalla progettualità (in ambito architettonico e
relativamente alle arti applicate) nel fare artistico dei tempi.
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Già ben evidenti in
area toscana, umbra e lombarda durante il ’400, gli spunti mutuati
dall’antichità classica diventano per l’appunto un oggetto di
insistita indagine ed attenta rappresentazione soprattutto nella
Roma del primo ‘500, allorché gli scavi più o meno casuali
determinano il riaffioramento di disperse vestigia e di ignoti
capolavori dell’arte greco-romana e la conseguente nascita d’un
primordio di proto-archeologia. Il ritrovamento del Laocoonte
e ancor più la scoperta della neroniana Domus Aurea danno
infatti un impulso fondante ed irreversibile all’attività ed al
linguaggio degli artisti presenti all’epoca nell’Urbe, a partire da
quelli del “divino” Raffaello (non a caso incaricato da Leone X di
operare un’attenta e sistematica ricognizione delle rovine romane
della città) e della folta cerchia dei suoi fidati allievi e
collaboratori. Non può dunque sorprendere, che in questo nutrito
corpus di disegni si ritrovi uno schizzo autografo di Giulio Romano
(il primo degli allievi dell’urbinate) raffigurante con somma
precisione una Base di colonna ionica, né che vi si reperisca
una molteplicità di particolareggiate raffigurazioni di “grottesche”
(cioè di quelle decorazioni, a stucco o dipinte, presenti negli
ambienti interrati della reggia neroniana, accessibili, a mo’ di
grotte, soltanto per mezzo di buchi e di cunicoli), eseguite da
pittori quali Perin del Vaga (anch’egli della bottega raffaelliana),
Luzio Luzzi (suo diretto discepolo) o Federico Zuccari (artefice dei
più complessi sviluppi manieristici ben visibili nei progetti per
gli affreschi dei soffitti di villa d’Este), che ne favorirono
l’irrefrenabile successo e l’ubiquitaria diffusione non solo nella
Roma papalina, ma praticamente in tutta Europa.
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Come
già detto, i disegni del Codice Resta non si limitano a una
ricognizione delle ripercussioni “antiquariali” sulla pittura e
l’architettura cinquecentesche, ma danno anche una probante
testimonianza di quella complessa multidisciplinarità che era una
prassi abituale per gli artisti del passato (almeno fino al ’700),
contraddistinguendone la qualitativa fabrilità e sottolineandone
l’impareggiabile maestria in molti settori delle arti sia maggiori
che minori. Non solo, dunque, accurati schizzi preparatori per opere
pittoriche ed architettoniche, ma anche per armature, argenti,
arazzi, oggetti ed apparati vari (inclusi quelli liturgici).
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Così è possibile
imbattersi in uno spettacolare Studio di staffa della cerchia
di Perin del Vaga o in uno Studio di due specchi di sapore
“etruschizzante” del solito Luzio Luzzi o ancora in un elegantissimo
Studio d’anfora e in un ricercato Studio di Calice di
mano del Salviati, ad inequivoca conferma del pregnante influsso
esercitato dal dilagante gusto antiquariale e soprattutto
dell’inesistenza di quell’arbitraria e forzata linea di discrimine
fra le arti ritenute più importanti e rappresentative (disegno,
incisione, pittura, scultura e architettura) e tutte le altre
(relegate in un ambito più “meccanicamente” artigianale), tracciata
successivamente in nome d’un iperspecialismo tanto miope quanto
castratorio.
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Sempre al suddetto
interesse per le maestose vestigia della Roma repubblicana ed
imperiale (sopravvissute alle irriguardose distruzioni medievali o
uscite da poco da un oblio millenario) va inoltre ricondotta anche
la nascita di un nuovo genere, per l’esattezza quello vedutistico,
destinato di lì a poco (anche in virtù del determinante apporto dei
viaggiatori del Grand Tour) a divenire fra i più frequentati e
rilevanti dei secoli a venire. Uno sviluppo delle arti figurative,
quest’ultimo, di cui dà esauriente contezza la rara ed ampia serie
di diciannove disegni (e di altrettante incisioni da essi derivate)
realizzata dal francese Etienne Du Pérac nella seconda metà del ‘500
ed annoverata fra i prototipi ideali di quel “vedutismo con rovine”
che tanto successo ebbe fra Sei e Settecento.
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Di non minor
significatività, infine, la sequenza di paesaggi collezionati dal
Resta (qualcuno di scuola olandese, i restanti per lo più di mano
italiana), la cui quasi pre-romantica bellezza, intrisa di spirito
panico, testimonia dell’improvvisa insorgenza di quest’ulteriore
genere pittorico (di fatto inaugurato da Annibale Carracci in alcuni
sopraporta di palazzo Doria Pamphili), preposto ad avere una quasi
subitanea e sempre maggiore diffusione (dagli esiti d’oltralpe del
Lorenese a quelli neerlandesi di van Ruysdael) ed a divenire in
breve tempo uno degli specchi più fedeli sui quali proiettare i moti
e le inquietudini riposti nella psiche.
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