|
|
-
- A VILLA
ZITO LE SPLENDIDE TELE DEGLI EMULI DI CARAVAGGIO
-
-
-
- Michelangelo
Merisi, meglio noto
come Caravaggio, è
quel che si dice – con discutibile espressione contemporanea –
un “brand” di successo. E lo è anche nelle svariate
declinazioni di cui la sua pittura è stata oggetto, ovvero nelle
molteplici (per dislocazione geografica e temporale) derivazioni
“caravaggesche”.
- Laddove
infatti non sia possibile esibire opere del grande pittore
lombardo di fine ‘500 inizio ‘600, si possono comunque
costruire mostre di successo (quanto meno in termini di pubblico,
spesso non altrettanto dal punto di vista della qualità
storico-artistica), adottando un criterio di intermediazione che
consenta la conoscenza del suo stile e dei suoi temi prediletti
attraverso il ricorso ai dipinti dei suoi numerosi emuli
ed epigoni. Emuli ed
epigoni – per l’appunto – perché nel caso di Caravaggio non
è appropriato parlare di discepoli, in quanto non ebbe mai
un’autentica “bottega” – come era tipicamente in uso in
antiquo –, non gradendo egli per nulla i regimi di
collaborazione con altri artisti e men che mai di essere
“copiato” da pittori poco apprezzati e comunque del tutto
estranei alla ristretta cerchia dei “colleghi” suoi amici. E
tuttavia – ad onta di quanto fin qui detto, cioè
dell’avversione per copisti e imitatori – il suo “verbo
pittorico” fu talmente dirompente, che ne conseguì un dilagare
a macchia d’olio in tutta Italia (ed anche oltre) con un tipico
andamento inerziale che dai primi anni del ’600 – in cui il
suo “naturalismo” raggiunse l’acme del successo in ambito
romano – procedette fino al pieno ‘700 – con le ultime e
tardive persistenze proprio in terra lombarda, ove aveva mosso i
primi passi di pittore – come attestato dal permanere di uno
spiccato lessico naturalista e dal ricorrere di tematiche di
contenuto palesemente pauperistico.
- Da
queste specifiche premesse derivano dunque mostre quali Da
Ribera a Luca Giordano, Caravaggeschi e altri pittori della
Fondazione Roberto Longhi e della Fondazione Sicilia (attualmente
allestita a Villa Zito, ove sarà visibile fino al 10 giugno);
mostre per l’appunto incentrate sulla fortuna e sulla fama di
cui da subito godette la pittura del Merisi presso i contemporanei
e sul permanere di vestigia del suo stile nel linguaggio pittorico
di tanti altri artisti del ‘600 e del ’700. Non è per altro
un caso che il grosso dei dipinti esposti a Villa Zito
appartenesse proprio a Roberto
Longhi; non è un caso perché il Longhi – in qualità di
storico dell’arte – all’operato di Caravaggio e dei
caravaggeschi dedicò molti dei suoi tanti studi, essendo per di
più artefice di una memorabile mostra (a Milano, nel 1953)
dedicata precipuamente ai <<pittori
della realtà>>, ovvero a quegli artisti – attivi
prevalentemente in Lombardia fra ‘600 e ‘700 – che del
naturalismo caravaggesco si fecero a vario titolo epigoni e
continuatori.
- La
mostra di Villa Zito annovera pertanto opere di molti degli
artisti italiani e stranieri che si ispirarono al Merisi, dando
diffusamente conto di quella folgorante notorietà di cui il suo
peculiare stile fu oggetto a partire dalle prime commissioni
pubbliche ottenute in ambito romano ed in particolar modo dalla
realizzazione dei dipinti per la cappella
Contarelli in San Luigi
dei Francesi (San
Matteo con l’angelo, Vocazione
di san Matteo e Martirio
di san Matteo) per interessamento del cardinal del Monte. L’adesione – anche dura ed impietosa – al dato di
natura nel riprodurre le fattezze degli umili e dei miseri, la
rilevanza della corporeità quale elettivo strumento
d’espressione, il sapiente ed assai simbolico dosaggio di luci
ed ombre, il pauperismo come mezzo per manifestare un ben preciso
orientamento all’interno dell’aspro confronto teologico di
quel periodo (con cui farsi portavoce delle posizioni del
cardinale Borromeo e di san Filippo Neri, fautori d’un ritorno
alla sobrietà della chiesa delle origini e di una maggiore
attenzione per gli ultimi ed i poveri), tutti caratteri portanti
della pittura del Merisi, non a caso compaiono a vario titolo e
dosaggio, e con modalità di rielaborazione più o meno
soggettive, nei dipinti esposti a Villa Zito. Dal marcato
chiaroscuro del Davide con la testa di Golia di
Andrea Vaccaro (del
1630 circa) alla scarna e scavata fisicità del San
Girolamo del Maestro
dell’Emmaus di Pau (del secondo decennio del ‘600), dal
peculiare luminismo – spesso notturni rischiarati da luci
artificiali – delle declinazioni olandesi di Matthias Stomer (del quarto e quinto decennio del ‘600) al
“filologico” naturalismo di quelle transalpine di Valentin de Boulogne (come nella spettacolare Negazione di Pietro,
del 1615-1617 circa, in cui ricorrono le suggestioni de I bari e della già citata
Vocazione
di San Matteo del Caravaggio),
dalla cruda ritrattistica dell’ispanico Jusepe
de Ribera (le cui emaciate figure di santi rivelano il diretto
abbeveraggio alla fonte del Merisi in quel di Napoli, non a caso
prima tappa della lunga e travagliata latitanza del pittore
lombardo dopo il bando capitale e la fuga da Roma) a quella che
contraddistingue i personaggi effigiati dal misterioso Maestro
dell’Annuncio ai pastori (la cui splendida tela, del
1630-1640, costituisce un’autentica summa
della pittura del Merisi),
dalle elaborazioni eleganti e classiciste del Lanfranco
(che non a caso, con gli altri emiliani Carracci,
Domenichino, Guercino e Guido Reni, determinò
il progressivo passaggio dal Naturalismo al Classicismo negli anni
successivi alla morte del Caravaggio)
alle raffinate contaminazioni presenti nello stile di Luca
Giordano e Mattia Preti
(i quali seppero coniugare la lectio
caravaggesca con influssi veneziani e classicisti acquisiti nel
corso delle loro ampie peregrinazioni), fino al virtuosismo
naturalistico delle “tenebrose” nature morte di Recco
e Realfonzo nonché
alla soggiogante scurità del paesaggio del Liagno
(non per nulla tutti pittori napoletani fortemente imbevuti delle
suggestioni seminate in terra partenopea dal gran lombardo), a
Villa Zito è dunque tutto un susseguirsi di tele di notevole
pregio estetico e soprattutto di palese derivazione – seppur con
modalità del tutto personali – dalle peculiari intuizioni
linguistiche scaturite dalla mente e dalla mano di Michelangelo
Merisi. Il che permette di comprendere a fondo come, anche in
epoche in cui viaggiare era assai complesso e non esistevano di
certo i media di cui godono gli artisti di oggigiorno, fosse
tuttavia abituale che ogni nuova corrente artistica degna di nota
avesse un’ampia e rilevante diffusione, determinando la comparsa
di una koinè – di un
linguaggio largamente condiviso – in grado di connettere artisti
di diverse latitudini e di spingerli di fatto a un comune sentire
ed operare.
- Da
questo punto di vista, la mostra di Villa Zito è senza dubbio
indicativa e stimolante, poiché capace di fare intendere ai
visitatori non solo quali fossero i caratteri salienti del
naturalismo caravaggesco, ma in particolar modo di evidenziare
come, in ogni fase della storia, siano sempre stati in atto un
intenso dibattito e una vivace dialettica fra artisti di diversa
provenienza e formazione (ed anche generazione), con conseguenti e
inevitabili sviluppi di tipo fortemente ibridante e contaminatore.
Così come il Merisi aveva certamente guardato alle soluzioni
coloristiche e luministiche della pittura veneta del ‘500
(doveva sicuramente aver visto le opere dell’ultimo Tiziano e di Tintoretto)
ed anche al magistero leonardesco (l’Ultima
Cena senza dubbio, dato
che i primi passi da pittore li fece proprio in quel di Milano,
nella bottega di Simone
Peterzano) e alle esperienze dei lombardi del pieno ‘500 (da
Sofonisba Anguissola,
che morì centenaria dopo di lui, nel 1625, proprio a Palermo, ai Campi,
con le loro complesse scene di mercato, ed al Figino,
autore della prima ed effettiva natura morta della storia
dell’arte italiana), parimenti gli artisti a lui contemporanei,
e quelli delle generazioni successive (in fondo fino a David,
il cui Marat
assassinato è tutto un tributo al suo inconfondibile
lessico), seppero altrettanto ispirarsi ai suoi innovativi
dipinti, traendone dunque – come attestano le tele esposte a
Villa Zito – molteplici spunti e suggestioni, poi tradotti in
maniera più o meno filologica ed imitativa.
- Tuttavia
– in
cauda venenum – quel che manca a questa mostra è
proprio la presenza di quei <<pittori
della realtà>> di cui Longhi si occupò – come detto
– nel 1953. Nessun dipinto di Ceresa
o di Baschenis, nessuna opera del Crespi
o del Ceruti,
insomma praticamente nulla che testimoni del lungo permanere in
Lombardia di quanto proficuamente seminato dal Merisi.
- Non
so, sinceramente, se la Fondazione
Longhi annoveri dipinti di questi artisti – il suo sito
internet non fornisce, a tutt’oggi, né i nomi degli autori né
l’elenco delle opere presenti nella collezione –; ciò non di
meno, rimpolpare l’allestimento con qualche prestito mirato,
consentendo una proficua integrazione a rinforzo del percorso
espositivo, non sarebbe stato di certo un male. Peccato, però,
che così non sia stato. Si spera possa esserlo in qualche altra
occasione.
- La
mostra, curata da Maria Cristina Bandera, sarà visibile – come
detto – fino al 10 giugno, dal martedì al giovedì ore 10/17,
dal venerdì alla domenica ore 10/19.
-
-
-
Salvo Ferlito - maggio
2018
-
|
|
-
- DI
LA’ DEL FARO
- PAESAGGI E
PITTORI SICILIANI DELL’OTTOCENTO
- In mostra a villa Zito le luci e le ombre della pittura siciliana del
XIX secolo
|
-
-
- Per
recensire una grande mostra, quale
Di là del faro, è possibile ricorrere ad almeno due registri
narrativi. Per dirla con il linguaggio dell’antropologia,
si può optare per una semplice “thin description” (una
“descrizione sottile”), limitandosi a evidenziare la
notevole e virtuosistica qualità della pittura, o si può
viceversa procedere nel senso d’una ben più approfondita
“thick description” (ovvero una “descrizione
spessa”), cercando di analizzare i fini e le motivazioni
sottesi al fare artistico. Volendo, pertanto, rimanere in
superficie, non si può non sottolineare la bellezza dei
tanti dipinti in esposizione e la grande perizia dei pittori
siciliani che operarono fra ‘800 e primi ‘900. Volendo,
invece, capire il perché di questa spiccata (e quasi
esclusiva) predilezione per la pittura di paesaggio, è
giocoforza rilevare come tale orientamento prioritario sia
stato fondamentalmente dettato non soltanto dall’adesione
alle poetiche del “vero” (contestualmente presenti in
letteratura, come attestano le opere di Verga e Capuana) ma
soprattutto da una voluta riluttanza ad andare oltre i
perimetri d’una pur stupefacente mimesi del mondo
naturale.
- Per
comprendere il perché straordinari virtuosi quali Francesco
Lojacono (non a caso definito il “ladro di sole”), Antonino Leto, Michele Catti
(e gli altri allievi, seguaci e imitatori) siano in fondo
rimasti ai margini del vorticoso flusso intrapreso dalle
arti visive durante l’800 (si pensi all’Impressionismo,
al Simbolismo, alla “macchia” toscana), bisogna
inevitabilmente adottare un’ottica comparativa con quanto
avveniva contemporaneamente nel resto d’Italia ed in
Europa, e ancor più un taglio sociologico che scandagli a
fondo la società insulare di quell’epoca (e in particolar
modo i rapporti fra artisti e committenza). Mentre altrove
l’occhio indagatore si concentrava sui meccanismi (e sulle
contraddizioni) della vita cittadina (si pensi alle scene
ambientate dagli impressionisti o dai post-impressionisti
nei locali notturni, nei bordelli o nelle strade) o sui
sempiterni problemi delle diseguaglianze socio-economiche
(si guardino i dipinti di Morbelli,
Pellizza e Signorini in Italia, o quelli di Repin in Russia), nella pittura siciliana tutto ruotava intorno al
paesaggio e alla veduta, con una espunzione quasi totale di
qualsivoglia componente che potesse porre in questione le
sclerotiche ingiustizie d’un assetto plurisecolare di
matrice feudale e latifondista. Basti qui ricordare come i
protagonisti di questa stagione delle arti insulari
venissero cooptati da cerchie culturali altamente elitarie
(come l’arcinoto Circolo Artistico, ai cui vertici, non a
caso, si alternavano artisti e aristocratici), per capire
con chiarezza le ragioni profonde (di certo non solo
estetiche) alla base di scelte artistiche dagli esiti visivi
di sicura raffinatezza ma anche dai connotati fortemente
omissivi.
- In
tal senso l’esauriente sequenza di dipinti in esposizione
si presta assai bene a una attenta lettura in filigrana,
consentendo agli osservatori non solo di apprezzare – in
luce – gli eleganti virtuosismi, ma soprattutto – in
controluce – le tante e notevoli mistificazioni d’una
pittura “veristica” del tutto aliena dal rappresentare
la realtà.
- E’
sufficiente, a tal proposito, dare uno sguardo ad opere
quali Al
sole di Ettore De Maria Bergler o Pescatori
di telline di
Francesco Lojacono o ancor più
Idillio campestre di Rosario Spina e Ve ne darò di Antonino
Leto, per constatare come le figure dei contadini, dei
pastori e dei pescatori siano rese con modalità edulcorate
ed irreali, del tutto estranee, dunque, alla durezza delle
loro effettive condizioni esistenziali. Un dato
assolutamente stridente con la situazione sociale, economica
e culturale della Sicilia di quei tempi, come del resto
attestato con chiarezza – già allora – dalle risultanze
delle prime inchieste parlamentari post-unitarie, come
quella arcinota di Franchetti
e Sonnino, nella quale veniva evidenziata e stigmatizzata la
condizione di disagio in cui versavano le masse popolari
nella nostra isola, nonché la notevole incapacità, la
fraudolenta malafede e soprattutto il vergognoso
tornacontismo delle nuove classi dirigenti. Di tutto ciò,
ovviamente (ma sarebbe più opportuno dire purtroppo), quasi
nessuna traccia è avvertibile nella pittura siciliana di
quei tempi. Nessun riferimento ad una organizzazione
rigidamente feudale del corpo sociale (situazione
perpetuatasi oltre il secondo dopoguerra del ‘900, e che
di fatto ha relegato le classi subalterne in una condizione
servile fino a pochi decenni fa) né alcuna analisi delle
dinamiche alla base del rafforzarsi del fenomeno mafioso
(che proprio in coincidenza con l’unità d’Italia, come
ben descritto ne Il
Gattopardo di Tomasi di
Lampedusa e ne I Vicerè di de Roberto, andava intrecciandosi con la politica ed
insediandosi sempre più nei gangli vitali del nuovo stato)
né ancor meno (se non in qualche sporadico caso, come ne I
carusi di Tomaselli o in
Famiglia povera di
Volpes o ne L’ambulatorio
e ne Gli emigranti di Di
Giovanni) approfonditi scandagli dell’estrema miseria e
dell’enorme disagio in cui versavano le masse popolari.
Solo un susseguirsi di ammalianti paesaggi o di scene di
genere, entrambi animati da popolani ridenti e paciosi e
comunque sempre “depurati” da qualsiasi contenuto
urticante o problematico. E tutto ciò, sia detto con
chiarezza, non per una presunta e provinciale “insularità”
dei protagonisti di quella temperie storica ed artistica; in
quanto i più importanti artisti siciliani di quell’epoca
furono tutti largamente cosmopoliti e ben aggiornati sugli
sviluppi delle arti visive nel resto del paese ed in Europa.
Non solo Lojacono e Leto andarono ad abbeverarsi alle fonti
“napoletane” (di Palizzi e di Morelli) della pittura
veristica – per poi trasmetterne i riflessi ai loro
allievi ed emuli – ma ebbero occasione di venire in
contatto con esponenti della “macchia” toscana e si
trovarono anche “gomito a gomito” con gli stessi
impressionisti, ai quali furono affiancati (proprio in terra
di Francia, a Parigi) in medesimi contesti operativi. Basta,
del resto, guardare alcune esemplificative opere esposte in
questa mostra, per avere piena contezza della grande capacità
dei nostri artisti di assorbire le novità di carattere
linguistico provenienti dalla penisola o d’oltralpe, senza
però che ciò mai comportasse una piena appropriazione
dello stesso atteggiamento critico nei confronti della
società contemporanea a loro circostante. Una attualità di
ordine estetico ma non di carattere narrativo – quella dei
Nostri –, uno stare nel flusso della contemporaneità con
un approccio deliberatamente superficiale, all’uopo
adottato per non disturbare i “padroni del vapore” e per
non inficiare i rapporti con la ricca committenza.
- Detto
e precisato ciò, va comunque sottolineato che Di
là del faro è certamente una mostra ben costruita
e adeguatamente circostanziata. Il percorso espositivo,
infatti, consente una ricostruzione assai puntuale
dell’evoluzione del genere paesaggistico nel corso
dell’Ottocento, muovendo a partire dalla prima metà del
secolo XIX e annoverando le opere degli antesignani della
pittura di paesaggio in terra di Sicilia. Da Patania
a Riolo (di cui
viene offerta una interessante selezione di opere grafiche
proveniente dalla collezione di Palazzo Abatellis), da
Zerilli a Sottile
– tutti e quattro autentici iniziatori del paesaggismo
insulare, seppure con modalità ancora ancorate a modelli
settecenteschi tipici della pittura da Grand Tour
–, l’esposizione procede con capillare minuzia,
annoverando quasi tutti (con l’inattesa eccezione di Rocco
Lentini, allievo di Lojacono, stranamente assente in questa
mostra) i protagonisti e i comprimari (compresi quelli della
Sicilia orientale) della pittura veristica incentrata sul
paesaggio. Un percorso espositivo – quello pensato da
Sergio Troisi e Paolo Nifosì – che consente, quindi, di
ricostruire con fedeltà la temperie artistica di
quell’epoca – con luci e ombre, come detto – e di
cogliere anche quell’insieme di tangenze, influenze e
relazioni che alimentarono le tecniche, i linguaggi ed i
moduli estetici dei nostri artisti più famosi. Ne consegue
la possibilità, per gli osservatori, di rilevare con
chiarezza le interferenze della macchia toscana – ad
esempio l’espediente visivo del muro bianco calcinato dal
sole, che rimanda alla Vedetta
di Fattori, presente in Strada
di campagna (Un giorno di caldo in Sicilia!) di
Lojacono – o quelle della pittura impressionista – Autunno
(Autunno sull’Anapo), del 1907, il quale denuncia
l’ormai evidente sfrangiarsi della pennellata di Lojacono
in più libere e sintetiche vibrazioni luministiche e
cromatiche che rimandano ai modelli d’oltralpe e che
emancipano il suo gesto dalla precisione lenticolare dei
decenni precedenti – o ancora le influenze
“orientaliste” esercitate dalle stampe giapponesi – Febbraio
in Sicilia di Ettore De Maria Bergler riecheggia
appieno quel delicato sentimento della natura e quella
sintesi formale che sono tipici dell’estetica japoniste
– o infine gli esiti visivi raggiunti dalle ricerche
post-impressioniste – paradigmatico, in tal senso, Sicilia di De Francisco, con le sue pennellate materiche inclini
alla destrutturazione cézanniana –.
- Non
meno interessante, infine, la sezione di fotografie
d’epoca che affianca ed integra il percorso espositivo, in
quanto in grado di contribuire significativamente ad una
completa ricostruzione della temperie artistica ed estetica
dei tempi. Poco importa stabilire se sia stata la nascente
fotografia – con i suoi tagli e le sue inquadrature – ad
influenzare l’impianto compositivo delle pitture di
paesaggio di quell’epoca, o se sia stata la pittura –
cosa più probabile – ad orientare il modo di inquadrare
dei fotografi dell’800. Quel che conta, infatti, è il
modo palesemente analogo di “guardare” il mondo esterno
e la situazione contingente da parte dei pittori e dei
fotografi di quel periodo. Anche nella fotografia – non a
caso ai tempi appannaggio della stessa elite – è del
tutto assente qualsivoglia taglio sociologico o qualunque
intento di denuncia cronachistica. Per quanto di maggior
immediatezza, anche il mezzo fotografico si caratterizza –
ai suoi esordi in terra di Sicilia – per un approccio
evidentemente elusivo e tendente alla censura e
all’edulcorazione. Dovranno purtroppo passare ancora molti
decenni, perché la fotografia e la pittura siciliane
comincino a farsi carico delle tante, troppe e gravose
problematiche sociali, economiche e culturali che in gran
parte continuano ancor oggi ad attanagliare la nostra isola.
Bisognerà attendere una nuova generazione di pittori –
quella di Guttuso, per intendersi – affinché le arti
visive siciliane comincino ad emanciparsi dal giogo di certa
committenza, assumendo finalmente (nel bene e nel male) quel
franco carattere politico che è tipico di cosciente
autonomia e maggior maturità.
- Curata
da Sergio Troisi e Paolo Nifosì, la mostra potrà essere
vista fino al 9 di gennaio
2015.
-
-
Salvo Ferlito - dicembre 2014
-
|
|
|
|
|
ANNI
PRECEDENTI AL 2013 |
|
|
-
-
UN PEZZO DI
SICILIA IN MOSTRA IN FRANCIA: 14 OPERE DEL MUSEO MORMINO PER
TESTIMONIARE LA PRESENZA NORMANNA NELL’ISOLA
-
-
Un pezzo di cultura
siciliana “sbarca” in Francia: da venerdì 23 giugno fino al 15
ottobre, infatti, 14 celebri opere custodite nel Museo d’Arte e
Archeologia Ignazio Mormino della “Fondazione Banco di
Sicilia” (Villa Zito) saranno esposte nella grande mostra Les
Normands en Sicile in programma al Musée de Normandie
di Caen.
-
Si tratta di opere
grafiche - provenienti dalle collezioni di stampe e disegni - e di
dipinti, che compongono le collezioni dell’Ottocento e del Novecento
siciliano del Museo Mormino.
-
La Mostra documenta le
diverse fasi della presenza Normanna nel Sud dell’Italia e in
Sicilia dal medioevo all’età contemporanea, storia rivisitata da
architetti e storici dell’arte a seguito della riscoperta del gotico
di Eugène Viollet-le-Duc dalla prima metà dell’Ottocento.
-
La documentazione
iconografica che presenta il Museo comprende un arco temporale di
quattro secoli: in mostra la carta topografica di Palermo di Georg
Hoefnagel, pubblicata nel 1581 a Colonia, diverse acqueforti tratte
dal Voyage pittoresque di Saint-Non e Denon - uno dei più
importanti viaggi documentari effettuati nella seconda metà del
Settecento nell’Italia meridionale e in Sicilia – i cui resoconti
vengono stampati a Parigi tra il 1781 e il 1786. E ancora,
litografie tratte da L’Italie monumentale et artistique, vues et
monuments di Benoist, Bachelier e Jacottet (Parigi, 1845-1852),
la litografia Eglise de la Martorana a Palerme di Leon
Auguste Asselineau (Parigi, 1850), e per ultima, per quanto riguarda
le opere grafiche, l’affascinante litografia di Sprinter, dal titolo
Palerme, vue prise au dessous du Palais Royal.
-
I dipinti sono
Chiostro dei Benedettini Monreale di Salvatore Marchesi;
Abside della Cattedrale di Cefalù, di Ettore De Maria Bergler;
Chiostro di San Giovanni degli Eremiti di Giovanni Lombardo
Calamia, nonché il quadro del pittore futurista Pippo Rizzo, dal
titolo Arance, limoni e paladini (1958), ispirata all’Opera
dei pupi, che vede, nella cultura popolare, assimilate le gesta dei
paladini cristiani e quelle dei cavalieri normanni.
-
-
-
Ufficio Stampa:
-
Cantiere di Comunicazione
-
Via Tortona, 27 – 20144
MILANO
-
cantiere@cantieredicomunicazione.com
-
Lorenzo Macchi - Tel.02.87383180
-
Alberto Samonà – Cell.
347-6729966
|
|
|
PIPPO RIZZO
Quella di Pippo Rizzo è una figura nodale nel panorama artistico insulare del 900.
E a lui, infatti, che si deve il primo vero tentativo di svecchiamento ed
emancipazione dellarte siciliana dai modi ormai obsoleti del vedutismo ottocentesco
e dai leziosi vezzi del pur glorioso Liberty locale. Ne dà ampia conferma il gruppo di
opere donate dalla figlia Alba alla fondazione del Banco di Sicilia, visibili dal 1°
dicembre nella sede espositiva di villa Zito (in via Libertà 52).
Ladesione al Futurismo (seppur tardiva, se si pensa che negli anni 20 la
spinta propulsiva di questavanguardia si è in vero assai ridotta) e la febbrile
attività di diffusione - insieme a Varvaro e Corona - del verbo marinettiano,
concretizzantisi nellesposizione palermitana del 1927 cui partecipano futuristi
storici quali Balla e Prampolini, hanno il grande merito di operare una profonda frattura
con la precedente tradizione figurativa locale (storica, paesaggistica e floreale),
destabilizzando gli sclerotici equilibri di una estetica superata e provinciale e ponendo
linderogabile questione dellentrata della Sicilia nel vorticoso fiume della
contemporaneità (Con questa mostra - viene scritto nel catalogo - Palermo entra
finalmente nel ruolo delle città civili).
Basta guardare il Motociclista (un piccolo disegno del 21), con la sua
vibrante scomposizione dello spazio prodotta dallo slancio del mezzo in piena corsa, per
cogliere quellelogio della macchina e della velocità che è la vera tematica
portante dellintero dinamismo futurista.
Ma quella del Futurismo è solo una parentesi - per quanto importantissima, viste anche le
sue declinazioni nellambito delle arti applicate quali il Salottino
futurista, il Gilet e svariati tappeti e arazzi - nella produzione
dellartista. Col tempo, egli si allontana dagli squilli avanguardistici, approdando
dapprima (negli anni 30) ad un linguaggio tipicamente novecentista - ben visibile
nel Risveglio dellEtna - e poi (dagli anni 50) ad uno stile
radicato nel folklore e nelle tradizioni popolari, vivacizzato da battaglie di paladini
tratte dallimmaginario dei pittori di carretti siciliani. Un lessico che recupera
lincanto proprio dellinfanzia, ma che non segna la regressione da una pittura
movimentista e di schieramento ad una ingenuamente naif, offrendo piuttosto quella sottile
e pungente ironia tipica dei siciliani più colti e intelligenti. In questottica si
spiegano anche le ricche citazioni delle opere più tarde, coi quadri di noti maestri del
900 inseriti nei suoi (come nelle vivaci tele in cui carabinieri in alta uniforme,
bersaglieri e preti, ritratti di spalle, contemplano un po assorti ed interdetti i
dipinti di Matisse, Picasso o Leger) in una sorta di scanzonato colloquio che va ben al di
là del semplice tributo e che esemplifica con arguzia impareggiabile lapproccio
delluomo medio alle istanze estetiche della contemporaneità.
Lallestimento si avvale di un catalogo curato da Sergio Troisi e Maria Reginella.
Salvo Ferlito
|
|
Invia questa pagina ad un amico |
|
|
|
|
| |
|