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LE CENE
SILENTI DELLA PITTRICE BICE TRIOLO ALLA GALLERIA ELLE ARTE DI PALERMO
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- Nella
patria del melodramma (e più specificamente nella terra
dell’opera dei pupi), da una produzione artistica
realizzata nel bel pieno di una devastante epidemia molti
si sarebbero aspettato un esibito profluvio di lacrime e
tutto un pullulare di gramaglie e grida di prefiche.
- E
invece no.
- Nella
sequenza di immagini dipinte da Bice Triolo nel periodo
marzo-aprile 2020 (i fatidici mesi della chiusura totale
del paese), per fortuna, non è dato ravvedere nulla di
tutto ciò. Nessuna ostentazione di orrore o di terrore,
nessun grido strozzato od urlo sopratono, nessun
estroflesso “memento
mori” o richiamo a qualsivoglia “punizione
divina”, nessuna denuncia moralistica o monito
inquisitorio, nessuna sguaiataggine apotropaica o deriva
iettatoria, nessuna cupezza visuale o mortificazione
coloristica. Piuttosto una pittura brillante ed
ipercromica, irretente ed abbagliante nel suo vitreo
splendore, e tutta incentrata sulla dimensione per lo più
domestica della tavola e della riunione conviviale.
- Qualcuno
– l’immancabile Catone di turno – potrebbe obiettare
che la nostra brava Bice, con questi suoi quadri
caleidoscopici e smaglianti, del tutto deprivati di
parventi agganci con la situazione contingente, non abbia
minimamente colto lo “spirito del tempo”,
estraniandosi in un “ambito altro”, sistematicamente
depurato d’ogni cura e d’ogni doglia e ampiamente
intriso di pregnante apatia. Ebbene, costui si
sbaglierebbe; si sbaglierebbe perché lo “zeitgeist” non sta esclusivamente in una pedissequa traduzione
visuale dello hic et
nunc, non risiedendo – infatti –nell’obbligata
resa cronachistica di quanto accade intorno a noi. Esso può
esprimersi ampiamente anche per semplice “specularità”,
per inversione del “canone convenuto” nel suo
simmetrico opposto, e quindi mediante la sostituzione di
tetraggini e cupezze con slanci coloristici e solarità.
- Proprio
per questo, le “cene silenti”, ovvero le tavole
imbandite raffinatamente dipinte da Bice Triolo nel
marzo-aprile di quest’anno, – ad
onta delle apparenze – raccontano con vivida
dovizia quanto accaduto non meno di opere d’arte che
descrivano nel dettaglio i fatti e le vicende che
continuano impietosamente a vessarci e attanagliarci.
- Si
tratti di interni intimistici (Due
finestre, Cibo
per la mente, Gelatine, Tovaglia verde, Mangiamo
fiori, Vento, Il servizio blu, In
cucina) o di esterni pausati e atemporali (Aragosta,
Ricci, Rose gialle, La festa è
finita, Frutti
di mare, Tovaglia
rossa, Tamerici, Picnic sull’erba e
Picnic nel bosco),
queste pitture si ergono infatti a riflesso puntuale
d’uno stato della mente e d’una condizione
esistenziale non riferibili esclusivamente alla nostra
Bice, ma largamente condivisibili anche da chi è chiamato
ad osservarle e ad immergersi nella loro suadente trama
narrativa.
- Non
tragga in inganno l’evidente desolazione degli ambienti,
poiché la mancata presenza umana è una abituale cifra
stilistica di Bice Triolo; piuttosto è proprio l’idea
del convivio imminente, dell’approssimarsi d’una
condivisione alimentare, affettiva e socioculturale (in
quei mesi di fatto impedita), a farsi carico dei dinamismi
intrapsichici di natura emozionale, così tradotti in un
immaginario che travalica elegantemente il mero ambito
della compulsione incontrollata, pervenendo – come è
tipico del migliore fare artistico – a visioni sublimate
di intensa suggestione.
- Fuor
da romanticismi di maniera e da banali piagnistei, Bice
– ancora una volta – ci coinvolge nel suo mondo
interiore, nella sua consolidata elegia dalla vis immaginifica, chiamandoci a riflettere su quanto avvenuto – e
purtroppo ancora in corso – con sguardo lieve eppur
profondo, disvelando – dietro la parvenza pirotecnica
della sua pittura – il senso di spiazzamento e di
inquietudine indotto dallo stato delle cose.
- Non
v’è “morale della favola” in queste opere (che pure
fabulae sono per
la fattiva capacità di raccontare e raccontarsi), ma un
motivato auspicio: quello di poter tornare quanto prima ad
una fisiologica vita individuale e soprattutto
socio-conviviale. E ciò non nell’errata convinzione che
tutto possa esser come un tempo, ma nella consapevolezza
d’una obbligata renovatio:
d’una presa di coscienza di quel senso del limite
(personale e collettivo) da cui ripartire per una più
civile e qualitativa socialità.
- La
mostra sarà visibile alla galleria Elle Arte di Palermo
(via Ricasoli 45) fino al 14 novembre, dal lunedì al
sabato, dalle ore 16,30 alle 19,30, su appuntamento (tel.
091-6114182).
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novembre 2020
Salvo Ferlito
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- SALVO
CATANIA ZINGALI
- Fermoimmagine
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- Alla
galleria Elle Arte di Palermo in esposizione le inconsuete
vedute “dal cielo” del pittore comisano
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- Prospettiva
insolita, quella dall’alto; e tuttavia in grado di
offrire un punto di vista fortemente straniante che
travalica gli angusti limiti della mera rappresentazione
naturalistica della realtà.
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- Quella
di Salvo Catania Zingali è senza dubbio una pittura
“classica” (nel pieno rispetto dei canoni del
linguaggio figurale) eppure, proprio la frequente adozione
d’una visuale – per così dire – “dal cielo”, fa
sì che il carattere palesemente iconico delle sue
immagini tenda a stemperarsi in assetti visivi ove è il
caleidoscopico articolarsi dei colori a farsi prioritario
vettore d’ogni dinamica affettiva.
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- Una
spiaggia coi suoi ombrelloni, i teloni d’un mercato
rionale, ma anche dei tipici dolci siciliani o dei
giocattoli sparsi su un pavimento – abbandonata la
solita visione frontale, pur nella fedeltà al dato ottico
– vengono in tal modo sottilmente spossessati della loro
formale connotazione di carattere veristico, col
conseguente e spiazzante sconfinamento nell’opposto
visivo della più ineffabile astrazione.
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- La
ricognizione “satellitare” del paesaggio si risolve in
tal modo in un fresco gioco di irretenti geometrie
(paradigmatici On
air 92 e On air 94), con un peculiare effetto “patchwork” –
esaltato dalla pennellata corposa e materica – che
scavalca il perimetro cogente dell’effetto
“inquadratura” per sciogliersi – infine – nelle
avvolgenti spire della più libera visione. Ciò che ne
consegue è l’immediata proiezione dell’osservatore in
una dimensione altra, nella quale i riferimenti
strettamente topografici perdono qualsivoglia valenza
orientativa, innescando quel già citato effetto
“straniamento” che consente di procedere ben oltre la
limitatezza cronachistica del mero “hic
et nunc”.
- In
tal senso – nonostante l’apparente ossequio alla
tradizione figurativa siciliana –, Catania Zingali si
rivela un autentico innovatore dei generi trattati
(paesaggio, veduta, figura e natura morta), poiché capace
di non farsi imbrigliare da vincoli o legacci di carattere
strettamente “normativo”, in virtù d’una modalità
semiotica per cui dietro l’univoca parvenza d’ogni
significante si cela una illimitata potenzialità di
significazione.
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- Come
attestato anche dalle più consuete vedute impostate
frontalmente (Casa rossa, Cantieri
Zisa e Cantieri Zisa II), le affabulazioni impaginate dal pittore
comisano non appaiono per tanto mai bloccate in una fissità
paretica e senza sviluppo, ma piuttosto – ad onta
dell’aura di sospensione atemporale che le circonfonde,
o forse propriamente grazie ad essa – si configurano
come racconti totalmente aperti ai quali si è chiamati ad
offrire il proprio – e decisivo – contributo
novellistico. Un dato che si riscontra anche laddove i
suoi dipinti si popolano di “presenze” umane ed
animali; personaggi di racconti dai contorni non
tracciabili, il cui fare – del quale, per l’appunto,
ci vien fornito un “fermo immagine” con la solita
pennellata sintetica e pastosa – rimane del tutto oscuro
e imperscrutabile, e in quanto tale aperto ad ogni
possibile apporto narrativo.
- E’
questa – in definitiva – la qualitativa peculiarità
della pittura neofigurativa di Catania Zingali: il suo
essere capace di estendere lo sguardo indagatore fino al
liminare dell’orizzonte degli eventi, evitando
scientemente alcun accanimento descrittivo che possa
limitare il libero fluire dell’immaginazione.
- Pittura
evocativa – dunque – il cui ineffabile mistero
consente una riuscita sinergia fra la soggettività
dell’artista e quella dell’osservatore; il tutto nel
segno di quella reciprocità emozionale ed affettiva –
per la quale chi guarda completa l’operato del pittore
– che è alla base d’ogni riuscito e ben compiuto fare
artistico.
- La
mostra sarà visibile, alla galleria Elle Arte di Palermo
(via Ricasoli 45), fino al 22 dicembre (tranne i giorni
otto e nove), dal lunedì al sabato, dalle 16,30 alle
19,30.
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- Dicembre 2017
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Salvo
Ferlito
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- TANTO VA LA GATTA
ALL’ARTE...
VENTISEI ARTISTI RACCONTANO I GATTI
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La centralità del gatto nell’immaginario artistico è un dato acclarato da almeno quattro millenni. E’ proprio nell’antico Egitto, infatti, che per la prima volta il più piccolo dei felini viene elevato al rango di soggetto ispiratore di opere d’arte, essendo celebrato visualmente quale incarnazione della dea Bastet, dea-gatta protettrice dei parti e dispensatrice di abbondanza e felicità. Un ingresso nel panorama delle arti figurative – tutto sommato – “tardivo” (soprattutto alla luce del fatto che tanti altri animali erano stati protagonisti delle prime pitture rupestri migliaia di anni prima), ma assolutamente logico e tempestivo, in quanto legato all’uscita dell’uomo dalla condizione nomade e precaria di cacciatore-raccoglitore (propria del paleolitico) e al suo definitivo accesso alla stabilità agro-pastorale e alla stanzialità urbana (tipiche del neolitico). Il gatto fa dunque irruzione nel mondo dell’arte allorché viene addomesticato per proteggere le granaglie dalla incursione dei roditori, confermando la tendenza “antropologica” a divinizzare e consacrare – per imagenes – tutto ciò che è funzionale alla strutturazione e al mantenimento della macchina sociale e dei mezzi economici alla base degli assetti di potere. Su questo “canone” (cogente dagli albori della storia non solo per la pittura di animali, ma per la rappresentazione di qualsiasi altra tipologia di soggetti e di tematiche) si innesta, ab origine artium, la proiezione soggettiva dell’artista, ponendo così in essere – nel pieno rispetto del più autentico statuto delle arti visive – un meccanismo di sentita identificazione fra l’Ego dell’autore e l’idea (che nello specifico, alla luce del pensiero greco, potremmo definire “platonica”) di “gattità”.
- L’adesione al dato di natura (che oggi ricondurremmo, scientificamente, nel più preciso ambito dell’etologia) e l’obbligo di rappresentazione delle idealità della classe dirigente si coniugano quindi, da subito, con l’approccio simpatetico attuato dall’artista. Parte dunque da questo inestricabile intreccio fra le ineludibili esigenze iconografiche delle élites e l’autonoma impellenza dell’espressività artistica l’ininterrotta sequenza di immagini di gatti che dalle profondità della storia è giunta fino agli approdi della contemporaneità, consegnandoci un continuum di declinazioni perfettamente in grado – epoca per epoca – di incarnare, “gattescamente”, lo spirito del tempo. Dalla esaltazione della ferinità, che è tipica della pittura del mondo antico (si guardino a tal proposito certi dipinti murali egizi o alcuni mosaici d’età romana), al conferimento di connotazioni malefiche o demoniache, che è proprio dell’arte medioevale (ma che permane, più o meno sotto traccia, fino alla contemporaneità), dalla enfatizzazione dell’astuzia felina, particolarmente ravvisabile nelle nature morte sei-settecentesche (il classico furto di cibo dalle tavole imbandite di certa pittura olandese e francese di quelle epoche), alla più recente consacrazione delle attitudini domestiche e delle doti affettive di cui i mici sono portatori, che è di fatto il dato dominante nelle rappresentazioni degli ultimi duecentocinquanta anni (ma che in vero si profila già a partire dal ‘400, come conferma la paradigmatica presenza di un gatto nello studiolo del San Girolamo di Antonello da Messina), le traduzioni visuali del piccolo felino si configurano sempre – e inevitabilmente – come il personale portato dell’Io artistico all’interno d’un ben strutturato “immaginario collettivo”.
- Ed è proprio in virtù della sua ormai riconosciuta capacità affettiva (tipica di un animale da compagnia, non più visto, in termini meramente utilitaristici, come guardiano o protettore di beni materiali), che il gatto continua indisturbato il suo percorso “visuale” ai nostri giorni, divenendo sempre più uno specchio fedele nel quale si riflette la psiche degli artisti. Il tutto – ovviamente – in un’ottica di assoluta predilezione per quegli aspetti del comportamento “gattesco” avvertiti come più consoni o vicini alla propria personalità. Ecco dunque il ripiegamento solipsistico incarnarsi nell’assorto abbandono cui è dedito il micio casalingo; e ancora il senso di alienazione e lo spleen – caratteristici della dimensione immaginifica di tanti artisti – specchiarsi nella condizione raminga di ogni gatto randagio e abbandonato; o la pigrizia – eletta a corrispettivo dell’otium di classica ascendenza – trovare la sua ideale raffigurazione nelle posture morbide e flessuose di cui i gatti sono mirabolanti artefici; e infine la vivacissima e giocosa reattività – di cui è capace ogni felino – farsi allegorica espressione di quegli improvvisi slanci fanciulleschi non di rado ravvisabili nell’ideare artistico. Il gatto, pertanto, come credibile alter ego dell’artista contemporaneo; come congrua rappresentazione d’una ben precisa condizione esistenziale. In definitiva, simbolo e metafora di quella agognata indipendenza comportamentale, che dovrebbe essere il presupposto obbligato non solo del fare degli artisti, ma del vivere di ciascun uomo nel coartante marasma della contemporaneità. La mostra, cui partecipano Rosario Amato, Giacomo Angiletti, Barbara Arrigo, Daniela Balsamo, Peter Bartlett, Massimo Campi, Marta Cannizzaro, Ilaria Caputo, Salvatore Caputo, Salvo Catania Zingali, Giulio Catelli, Pascal Catherine, Zino Citelli, Liliana Conti Cammarata, Giuseppe Cuccio, Irene Falci, Elena Ferrara, Cristiano Guitarrini, Anna Kennel, Gaetano Lo Manto, Sarah Miatt, Franco Panella, Vincenzo Piazza, John Picking, Luca Raimondi, Bice Triolo, sarà visibile alla Galleria Elle Arte di via Ricasoli 45 (Palermo) fino al 28 giugno 2017, dal lunedì al venerdì, dalle 17 alle 19,30.
Giugno 2017
Salvo Ferlito
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Peter
Bartlett
Memorie Reperti
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I
collages e i pastelli dell’artista
inglese in esposizione alla
galleria Elle Arte
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fino al 24 maggio 2013
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Una
stratificazione apparentemente
casuale, ma in realtà
tanto armonica quanto
dettagliata. Accumulazioni ed
assemblaggi di svariati
materiali di risulta (carte,
cartoncini, reti di plastica,
legnetti), orchestrati in un
contrappunto di polifonica
cromia, come a voler configurare
quel lento e progressivo
sedimentarsi di ricordi ed
esperienze che contraddistingue
il percorso esistenziale d’ogni
artista (e più
in generale d’ogni
individuo).
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Sono questi i
caratteri formali e narrativi
dei collages realizzati da Peter
Bartlett: opere di formato
contenuto, ma di forte impatto
visuale, ideate e poste in
essere quasi a ribadire l’indiscussa
valenza allegorica delle arti
visive, vocate - ancora una
volta - al racconto ed alla
rappresentazione dei processi e
delle dinamiche intrapsichici
con cui si attuano la
strutturazione e la definizione
della personale identità.
Un aspetto, per così
dire, "itinerante" (nel senso
stretto della raffigurazione
metaforica delle percorrenze
estetiche ed affettive dell’artista),
che trova proprio nel sedimento
visuale, nel precipitato
materico, nell’improvviso
coloristico gli strumenti
espressivi con cui dar corpo a
quella idea di "memoria
residuale" che
è in fondo il dato
costitutivo d’ogni
maturo immaginario. Come
avvenuto per altre esperienze
artistiche del secolo trascorso,
il materiale di scarto viene
elevato da Peter Bartlett al
rango di strumento esteticamente
rilevante, acquisendo il ruolo
semiotico di traccia
apparentemente poco nobile, però
inattesamente in grado di farsi
portavoce di profondi e
complessi significati. E’
proprio l’intervento
dell’artista,
il suo determinante contributo
ideativo e gestuale, a far sì
che quanto abitualmente ritenuto
di poco o nullo valore assurga
al ruolo di medium espressivo,
capace di funger da vettore di
idee, istanze e poetiche, e - in
definitiva - da vessillifero d’una
articolata "visione del mondo"
che conferisca senso compiuto
all’essere
ed esistere. E’
il valore aggiunto estetico -
che nel caso di Bartlett si
sostanzia della raffinatezza
degli accostamenti e delle
composizioni, nonché
della brillantezza dell’articolazione
coloristica che agisce da
tramatura unificante -, dunque,
a tributare alla materia bruta
la piena dignità
dell’opera
d’arte,
attuando quell’alchimia
di natura visuale che fa di
quanto solitamente informe un
manufatto in grado di irretire e
comunicare con modalità
di tipo simpatetico. Così
strutturati, i collages di Peter
Bartlett si configurano pertanto
come la fedele mappatura d’una
variegata stratificazione
interiore ed esistenziale,
riproponendo - per sintesi
visiva - quel caotico e casuale
accumulo di "memorabilia" d’ogni
genere che caratterizza
tipicamente gli studi degli
artisti, e che
è a sua volta metafora
tangibile del sovrapporsi ed
intrecciarsi di vicende umane e
ricerche artistiche. Un dato -
quello della "memoria residuale"
tradotta allusivamente in
immagini evocative - che si
registra parimenti nell’altrettanto
elegante produzione pittorica a
pastelli: una serie di piccoli
dipinti ove il segno si ancora
di più
a suggestioni figurali
(tralasciando, quindi, quelle
atmosfere astrattiste ed
informali che intridono
ampiamente i suddetti collages)
e in cui - non per nulla - l’esibita
mediterraneità
di luce e di colore si pone
quale evidente estroflessione di
vissuti personali. Quelli di
Peter, infatti, non sono i
semplici "souvenir d’Italie"
d’un
artista nordico che faccia il
bilancio visivo del proprio (e
attualizzato) "Grand Tour" da
artista e gentiluomo, ma
piuttosto il preciso resoconto
di quella ibridazione culturale
cui egli
è andato incontro
decidendo di trasferirsi in
Italia (in terra di Toscana, per
l’esattezza)
e portando a compimento un
percorso di crescita e
maturazione relazionali ed
intellettuali.
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L’esuberanza
coloristica, il riverbero
luminoso, il riferimento
fitomorfico, sempre composti in
una aggraziata e ponderata
articolazione, sono dunque
altrettante tracce mnesiche che
ci parlano d’una
storia personale ove l’apertura
all’altro
ed al nuovo sono i tratti
distintivi e dirimenti. Nessuna
chiusura localistica, nella
visione estetica di Peter
Bartlett, né
alcuno sciovinistico
autocompiacimento, ma quella
disponibilità
alla contaminazione dello
sguardo e all’allargamento
delle ottiche che
è non solo il connotato
saliente dell’arte
contemporanea (e in fondo di
qualsiasi tempo) ma il
prerequisito obbligato - da
sempre - d’ogni
evoluzione culturale dell’umanità.
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Salvo Ferlito
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